Come fare più test per il coronavirus
Un post di qualche settimana fa di Jordan Ellenberg racconta di come in Nebraska siano riusciti a fare la “moltiplicazione dei test” per verificare la positività al coronavirus. Se i laboratori non possono fare più di un certo numero di test al giorno – perché non hanno le capacità logistiche sufficienti oppure perché non hanno abbastanza materiale per il test – si può infatti usare un trucco. Invece che testare un campione per volta, se ne mischiano cinque insieme, prendendo metà del campione di ciascuno e si fa il test sul risultato composito. Se il test è negativo, nessuno dei cinque campioni era positivo; se invece il test è positivo, allora si riprendono i campioni iniziali e li si testa a uno a uno. Semplice, no? Beh, non è proprio tutto oro quel che luccica.
Questo metodo, che non è certo stato inventato dai medici del Nebraska ma è ben noto, si basa infatti su due assunti molto specifici. Il primo è che i test siano abbastanza efficienti da accorgersi di un’eventuale positività anche con una quantità di materiale minore: ricordate che stiamo usando solo metà del campione. Supponiamo infatti che noi abbiamo una bilancia che riesce a pesare al minimo un grammo e avere 1,5 grammi di un campione: se teniamo il campione tutto insieme ci accorgiamo che c’è, ma se lo dividiamo in due parti uguali, nessuna delle due muoverà il display della bilancia. Per fortuna questo non è il caso dei test per il coronavirus, perché le tecniche usate moltiplicano a piacere l’RNA del virus fino ad arrivare a una quantità sufficiente; ma l’idea originaria nata nella seconda guerra mondiale – usare i test accorpati per trovare se qualche soldato avesse la sifilide – non poté funzionare proprio perché il batterio non sarebbe stato rintracciabile.
Il secondo punto è invece più delicato. Certo, se tutti i cinque campioni messi insieme fossero negativi, avremmo risparmiato quattro test. Ma se anche uno solo di loro fosse positivo, dobbiamo fare altri cinque test, e quindi in pratica ne abbiamo sprecato uno. Tutto dipende insomma dalla probabilità che i test siano positivi. Immaginate che ci sia una probabilità su due che un test sia positivo, e che le persone testate non abbiano nulla a che fare tra di loro: la probabilità che una di loro sia positiva è indipendente insomma da quella delle altre. Bene: in questo caso dovremmo rifare i test per tutti nel 97% dei casi all’incirca, e quindi l’idea non è poi così meravigliosa come sembra. Le cose andrebbero leggermente meglio se la probabilità di un positivo fosse del 20%. In questo caso, infatti, il test combinato darebbe un risultato positivo due volte su tre all’incirca. Quindi su 15 persone in un caso si farebbe un solo test e in due casi sei test, per un totale di 13 casi. Meglio ancora se i positivi fossero il 10%: in questo caso più di una volta su due si avrebbe il test combinato negativo, e quindi su 10 persone si farebbero 7 test.
In definitiva, questo modo di operare è una scommessa: fa risparmiare sui test solo se si sa a priori che la probabilità di infetti è piuttosto bassa. (Chi ha voglia di fare i conti può vedere cosa succede riducendo o aumentando il numero di test condotti in parallelo). Insomma, in questo caso la matematica può migliorare le cose ma non è risolutiva!
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