Prima di Gödel…
Quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario della pubblicazione dell’articolo di Kurt Gödel Über formal unentscheidbare Sätze der Principia Mathematica und verwandter Systeme, I (“Sulle proposizioni formalmente indecidibili dei Principia Mathematica e altri sistemi, I”), probabilmente il singolo articolo più importante in tutta la storia della matematica. (Gli Elementi sono un libro, mica un articolo…) Sicuramente Gödel riuscì a infrangere le credenze intime che i matematici avevano avuto per due millenni e mezzo, e in certo senso il suo teorema di incompletezza, insieme alla risoluzione negativa dell’Entscheidungproblem (“Il problema della terminazione”. Nella prima metà del ‘900 il tedesco era la lingua madre in matematica, nel caso ve lo foste chiesti) che sarebbe seguita di lì a pochi anni grazie a Church e Turing sono alla base del cosiddetto “pensiero debole” che permea la filosofia del Novecento.
Non vi dimostrerò certo il teorema di incompletezza: non sono così bravo da riuscire a scomporre la dimostrazione in passi sufficientemente semplici da essere digeribili senza venire soffocati. In un post futuro cercherò però di dare un’idea del significato profondo del teorema e una traccia ad altissimo livello su quale sia la linea di attacco per la dimostrazione; stavolta mi dedico invece a raccontare come si è arrivati al teorema, o meglio dove si era arrivati prima che esso apparisse come un fulmine a ciel sereno.
Come spesso accade, tutto inizia con i greci antichi e il loro pensiero logico-filosofico. Il concetto di dimostrazione, definito forse da Talete, è un salto quantico rispetto alla matematica precedente: non solo quella egiziana e babilonese, ma anche quella creata anche nei millenni successivi in altre parti del mondo. Pensate per esempio a Ramanujan, che “vedeva” i risultati ma non sapeva affatto dimostrarli. Tanto per dire, gli egizi sapevano calcolare il volume di un tronco di piramide – occhei, per loro era di importanza vitale… – già nel 2000 a.C., mentre i babilonesi sapevano risolvere le equazioni di secondo grado. Però entrambi si limitavano a dire “devi fare così e cosà e avrai il risultato”, senza spiegare il perché; un po’ come la gran maggioranza degli studenti oggidì.
Ma torniamo a Talete e ai greci in genere. Fare una dimostrazione richiede due cose: avere un certo numero di punti di partenza (definizioni, assiomi e postulati) assunti come veri perché evidenti, e avere un procedimento specifico per generare nuovi enunciati veri partendo da altri enunciati veri. Notate che non c’è una ricorsione, o una discesa infinita: postulati e assiomi, come ho scritto, sono veri a priori e quindi non sono da dimostrare. Come tutti sapete, il coronamento del concetto di dimostrazione arrivò in periodo ellenistico con Euclide e i suoi Elementi. Il testo non parla solo di geometria ma anche di aritmetica, sempre usando il metodo assiomatico e le dimostrazioni: ma è stata indubbiamente la geometria che ha svolto il ruolo più importante nei duemila anni successivi. Geometria che è sì legata a misurazioni reali e quindi imprecise, ma è in grado di astrarsi parlando di punti senza dimensioni, di rette che sono lunghezza senza larghezza e così via. Dimostrazioni che sono un esempio di chiarezza ma soprattutto una garanzia di ufficialità: come abbiamo scoperto nel secolo scorso dopo aver fortunosamente ritrovato parte del Metodo, Archimede aveva sviluppato un primitivo calcolo integrale, lo usava per avere un’idea di quali fossero le misure di alcune aree e volumi, e poi si metteva con santa pazienza a fare una dimostrazione geometrica del risultato, nascondendo accuratamente tutto il resto. Ancora alla fine del XVII secolo Newton nei Principia Mathematica fa lo stesso, usando prima il calcolo infinitesimale e poi dando la “conferma” della validitàdei risultati per via geometrica.
La giustificazione dell’analisi per mezzo della geometria non era casuale. Euclide era da tutti considerato il modello da seguire, e si dice che gli Elementi siano il libro che ha avuto più edizioni dopo la Bibbia. Il mondo perfetto è insomma geometrico, come anche Kant ammette implicitamente facendo lo spazio uno dei suoi a priori; quello che è dimostrabile è indubbiamente vero e quello il cui contrario è dimostrabile è indubbiamente falso. Fino a tutto il XVIII secolo, è vero che c’erano dei problemi per cui non si era ancora trovata la dimostrazione con riga e compasso, come la quadratura del cerchio, la trisezione dell’angolo e la duplicazione del cubo: ma era solo una questione di tempo, e comunque c’erano dimostrazioni geometriche che richiedevano di usare qualcosa di più degli strumenti classici, magari una riga graduata o un compasso che riporti le distanze, ma erano pur sempre dimostrazioni. Anche l’aritmetica in fin dei conti è riconducibile alla geometria, come ci dimostra sempre Euclide; insomma, affidiamoci fiduciosi alla geometria e troveremo così prima o poi tutto il vero.
Sì, ci sarebbe quella noia del Quinto Postulato, ma è giusto una cosa formale, da dimostrare prima o poi per togliere a Euclide la macchia di avere usato qualcosa in più dello stretto necessario nella sua costruzione: questo non inficia certo la verità delle dimostrazioni geometriche, no? Ecco. Pensate lo choc che ebbero i matematici nello scoprire non solo che esistono geometrie non euclidee, ma addirittura che se la geometria euclidea è vera lo debbono essere anche le altre due: Le tre verità, cantava Lucio Battisti in tutt’altro contesto. La geometria euclidea insomma non è più intrinsecamente vera, e il nostro proposito di usarla come fondamento di tutta la matematica va a farsi benedire. Fortunatamente l’analisi matematica con il lavoro di Augustin Louis Cauchy era riuscita ad affrancarsi sia dalla dipendenza geometrica, con la quale ad ogni modo non si riusciva ad andare avanti più di tanto a dimostrare nuovi teoremi, che dal peccato originale degli infinitesimi. Si poteva insomma pensare di passare dalla geometrizzazione dell’aritmetica all’aritmetizzazione della geometria per mezzo della geometria analitica, e usare l’aritmetica come fondamento, per la gioia di Kronecker… ma lui arriva dopo, e non c’entra direttamente con questa storia.
Naturalmente tra il dire e il fare c’era ancora di mezzo un bel mare: erano due millenni e mezzo che non si riusciva a raccapezzarsi troppo con i numeri irrazionali, il che poi era la ragione di base per cui si era lasciata perdere l’aritmetica e ci si era lanciati sulla geometria. Ma l’Ottocento è stato un secolo di formalizzazioni estreme; Richard Dedekind riuscì a dare una definizione di numero reale usando solo insiemi di numeri razionali (i cosiddetti Tagli di Dedekind), e almeno quel problema era così risolto, o perlomeno spostato ai numeri naturali che sono sicuramente più maneggiabili. Giuseppe Peano diede una assiomatizzazione dei numeri naturali (gli Assiomi di Peano); ma la fregatura era comunque che i numeri naturali sono infiniti, e pertanto il principio di induzione (il quinto e ultimo degli assiomi, continua a tornare questo numero cinque!) è in un certo senso un insieme infinito di assiomi, a meno che non ci si permetta il lusso di usare i sottoinsiemi qualunque di numeri.
Il passo successivo fu condotto da Gottlob Frege, che definì i numeri naturali a partire dagli insiemi; 0 corrisponde all’insieme vuoto {}, 1 all’insieme che ha come elemento l’insieme vuoto cioè lo 0 { {} }, 2 all’insieme che ha come elementi 0 e 1, e così via. Frege era ovviamente molto contento della sua assiomatizzazione terminale, anche perché dal nulla – pardon dall’insieme vuoto – scaturiva tutta la matematica; e scrisse così una bella opera in due volumi, I Princìpi dell’Aritmetica, in cui raccontava tutto. Peccato che tra la pubblicazione del primo e quella del secondo volume l’allora giovane Bertrand Russell gli scrisse una letterina in cui gli raccontava il paradosso del barbiere di un villaggio dove nessuno porta la barba; quel barbiere rade la barba a tutti e soli i suoi compaesani che non se la radono da sé, chiedendogli se il barbiere si radeva oppure no. Beh, no, l’esempio che Russell fece inizialmente era più complicato, ma il principio era lo stesso. Ricordate che un’assiomatizzazione deve partire da concetti intuitivi, visto che non si possono dimostrare e li si prende come assiomi? Passare dai naturali agli insiemi serviva proprio perché quello di numero non è poi un concetto così intuitivo, mentre l’insieme… beh, metti un po’ di cose insieme e hai un insieme. Peccato, mostrò Russell, che con questa definizione naif puoi avere un insieme che contiene anche sé stesso tra i suoi elementi, e questo ti porta subito a un paradosso. Benvenuti nel XX secolo (siamo nel 1902), il secolo del dubbio.
Lo stesso Russell, insieme ad Alfred Whitehead, si accinse così a preparare un’altra monumentale opera, i Principia Mathematica, dove dalle parti di pagina 200 si riesce finalmente a dimostrare che 1+1 = 2. La struttura di base è assolutamente compartimentata; gli insiemi di Tipo 0 non possono contenere tra i loro elementi alcun insieme, quelli di Tipo 1 possono contenere elementi e insiemi di Tipo 0, quelli di Tipo 2 elementi e insiemi di Tipo 0 e 1, e via tipizzando. Il paradosso del barbiere è evitato per costruzione, visto che un insieme di Tipo n può solo far parte dei Tipi seguenti; i paradossi come quello di Berry sono eliminati perché non si usano termini della lingua comune ma solo note formali. Il tutto è un po’ barocco, in effetti, e ben lontano da quello che uno si aspetterebbe da una struttura di base; ma quello che conta è che finalmente si aveva una assiomatizzazione di base della matematica, e il programma di Hilbert per l’autodimostrazione di correttezza e completezza della matematica stava per essere finalmente realizzato.
Poi è arrivato Kurt Gödel.
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