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07/05/2015 Uncategorized , , , ,

Dai numeri immaginari ai quaternioni

C’è una cosa che manda i matematici in brodo di giuggiole, e che fa loro pensare di essere sulla strada giusta quando hanno definito un ente matematico: scoprire come l’ente che è stato definito in un certo contesto appare “identico” – nel senso matematico: potrebbe essere l’equivalente di Stanislao Moulinski in uno dei suoi ineffabili travestimenti – in un contesto del tutto diverso. Quando capitano queste cose, l’unicità della matematica viene ancora più rafforzata. Uno di questi casi è indubbiamente quello dei numeri immaginari.

Come forse ricorderete, i numeri immaginari apparvero in matematica per la prima volta quando nel Cinquecento vennero scoperte le formule per risolvere le equazioni di terzo e quarto grado. Queste formule, in alcuni casi, richiedevano di estrarre radici quadrate di numeri negativi. Già questi ultimi numeri non è che fossero visti così bene dai matematici dell’epoca: nessuno scriveva una formula come x3x−6=0 (o meglio, seguendo lo stile dell’epoca: “qual è la cosa per cui se al suo cubo togli la cosa stessa e altre sei unità, non ti resta nulla?”), ma si spostavano i termini negativi sull’altro membro e si otteneva qualcosa tipo “qual è la cosa che diventa il suo cubo se le aggiungi sei?”. Ma almeno in quel caso si potevano aggiustare le cose, appunto.

Sicuramente però non poteva esistere la radice quadrata di un numero negativo! Tutti sapevano che il quadrato di un numero positivo è positivo, e il quadrato di un numero negativo è comunque positivo. Il guaio è che questi numeri uscivano fuori quando l’equazione aveva non una ma addirittura tre soluzioni (intere positive…) possibili, e quindi il problema c’era eccome. Essendo i matematici persone molto pratiche – lo so che non ci credete, ma è così – essi decisero di far finta che quei numeri si comportassero come quelli usuali; tanto nel corso del procedimento di calcolo della soluzione essi facevano il favore di eliminarsi a vicenda per ottenere il risultato finale reale. In amore, in guerra e in matematica vale tutto… Insomma, i numeri immaginari erano considerati più o meno come il parente scemo da non far vedere quando la gente ci viene a trovare ma che – non si sa bene come – forniva i numeri giusti da giocare al lotto.

Ma poi, come spiega bene Roberto Zanasi, qualcuno si è accorto che c’era un altro modo per definire un numero immaginario. Avete presente quando i guru della creatività invitano a “uscire dagli schemi”? Ecco. Usciamo dalla retta dei numeri, e guardiamo le cose da un altro punto di vista. Moltiplicare per −1 significa far fare una rotazione di 180 gradi, in un verso o nell’altro: diciamo in senso antiorario tanto per mettere i paletti. La radice quadrata di −1 dovrebbe essere qualcosa che applicata due volte dà una rotazione di 180 gradi: il candidato ideale è una rotazione di 90 gradi. Visto? Siamo usciti dagli schemi, anzi dalla retta, e siamo stati promossi sul piano! Il lettore particolarmente attento potrà obiettare che anche una rotazione di 270 gradi fa il suo bel lavoro: e in effetti anche −i moltiplicato per sé stesso fa −1… Quella di ruotare in senso antiorario è una semplice convenzione, proprio come quella per cui i numeri sulla retta vanno da sinistra a destra e non viceversa.

Ci sono voluti due secoli e mezzo per tirare fuori questa idea, grazie a Caspar Wessel, Jean-Robert Argand e soprattutto Gauss che l’ha definitivamente sdoganata: anche allora l’endorsement di chi è famoso aiuta molto per ottenere l’accettazione globale. Da allora comunque le cose andarono sempre meglio. Da un lato il poter “vedere” i numeri immaginari e quelli complessi (la somma di un numero reale e uno immaginario puro) ci fa immaginare :-) che in fin dei conti tanto immaginari poi non sono; d’altro canto, scoprire che i numeri che uscivano da un procedimento algebrico avevano una rappresentazione geometrica rafforzava la convinzione che le regole definite fossero sensate, perché i matematici sono sempre contenti quando riescono a trovare una riunificazione. Beh, detto così è un po’ riduttivo, in effetti: tenete conto che Gauss su questa corrispondenza ci ha costruito tutta la teoria delle equazioni algebriche, e scusate se è poco.

Ma questa corrispondenza tra numeri complessi e punti del piano, e tra operazioni tra i complessi e trasformazioni geometriche del piano, ha portato a un altro fruttuoso risultato. I matematici ragionano molto spesso per analogia, prima di nascondere tutto il lavoro sporco che hanno fatto e mostrare solo i loro risultati così carucci. Se dunque la retta corrisponde ai numeri reali e il piano ai numeri complessi, non è che ci possano essere dei numeri che corrispondano allo spazio? Naturalmente questi numeri devono avere tre componenti distinte, proprio come i reali monodimensionali ne hanno una e i complessi bidimensionali ne hanno due – come detto sopra, i numeri complessi sono della forma a+bi.

Questo pensiero rimase nella mente del grande matematico irlandese William Rowan Hamilton per anni, ma non funzionava mai nulla: poteva sommare numeri con componenti a, bi, cj in modo corrispondente a fare traslazioni nello spazio, ma non gli riusciva proprio a trovare un modo per estendere il prodotto, cioè le rotazioni, dal piano allo spazio. La storia racconta poi che l’idea gli venne di colpo mentre stava passando sopra un ponte dublinese – il Broom Bridge – passeggiando con sua moglie (evidentemente senza ascoltare una singola parola di quello che lei gli stava dicendo: se siete maschi e sposati, siete sicuramente anche voi esperti nel campo); come un qualunque tagger, Hamilton si fermò e incise sulla pietra del ponte le formule di base dei quaternioni, cioè i2 = j2 = k2 =ijk = −1.

Quale fu il passaggio fondamentale che portò Hamilton alla sua scoperta? Fuggire da un’analogia troppo stretta. Come abbiamo appena vista, per lavorare in tre dimensioni occorrono infatti quattro componenti: 1, i, j e k. Il bello è che con il senno di poi questo passaggio è ovvio, per una ragione molto pratica e legata proprio alla visione geometrica. Nel caso planare le rotazioni sono commutative, per l’ottima ragione che esiste un solo modo per farle. Avete presente le coordinate polari? Invece che dare le coordinate x e y a partire dall’origine O, si danno la distanza r dall’origine e l’angolo θ rispetto a una retta di partenza. Nello spazio non basta avere la distanza dall’origine e due angoli: ce ne vogliono tre (i cosiddetti angoli di Eulero: non ci facciamo mancare nessun grande matematico dell’era moderna!) e soprattutto le rotazioni non sono più commutative, come sa chi fa computer graphics e si trova una serie di formule per la rotazione che usa la cosiddetta notazione scalare-vettore (se ne parla su Wikipedia, ma devo ammettere che mi sono perso in tutte quelle formule). Insomma è normale dover avere quattro componenti e non solamente tre, così come è normale che una componente, se proprio lo si vuole, possa essere espressa per mezzo delle altre (k = ij): in fin dei conti le dimensioni dello spazio sono tre e non quattro!

Ovviamente, peggio ancora dell’uovo di Colombo originale, un discorso come questo può solo funzionare a posteriori. Tenete presente che nel 1843 non esisteva ancora il concetto di calcolo vettoriale, o se per questo neppure quello di vettore: Hamilton ha evidentemente dovuto crearsi tuta la matematica relativa senza avere nessun punto di partenza su cui basarsi per i suoi conti. Non per nulla è stato uno dei matematici più importanti del diciannovesimo secolo. Ma come dicevo all’inizio, dopo tutti questi sforzi si è scoperto che due notazioni apparentemente scorrelate come quella geometrica scalare-vettore e quella puramente algebrica dei quaternioni sono in realtà la stessa cosa: e ancora meglio, si può generalizzare il tutto con la teoria delle matrici. Non vi sembra bellissimo? (Se rispondete “no”, non potrete mai diventare dei matematici nemmeno virtuali: questo è lampante)

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