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12/10/2012 Uncategorized

Parole matematiche: paradosso

Un paradosso lo sapete tutti cos’è, vero? Qualcosa che para un dosso ma invece, badabén badabén, è un dosso. Occhei, questo tormentone dovrebbe rivelare fin troppo bene la mia età. Seriamente parlando, la parola è una di quelle che arrivano quasi direttamente dal greco: erano loro che si divertivano con queste cose, e avevano il termine παράδοξον (parádokson), composto da παρά-, contro, oltre, e δόξα, opinione. Quindi per un greco antico un paradosso era qualcosa di “contrario all’opinione comune”. I latini, gente pratica dove Cicerone prendeva l’opinione comune come base di una filosofia, si sono limitati a traslitterare in paradŏxon, -i, e usare quasi sempre al plurale paradŏxa. Notate che la parola era accentata alla greca, come se noi dicessimo “paràdosso”.

Fin qua nulla di particolare. I paradossi inizialmente rimasero confinati tra i filosofi, probabilmente qualcuno di voi si ricorda dei paradossi di Zenone, ma con una curiosa incursione in campo teologico: il paradosso più antico di cui si ha notizia è quello del cretese Epimenide, che è detto aver affermato “tutti i cretesi sono mentitori”, e la frase è stata ripresa nientemeno che da Paolo di Tarso, che nella sua lettera a Tito (Tt 1,12-13a) scrive «Uno dei loro, proprio un loro profeta, già aveva detto: “I Cretesi son sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri”. Questa testimonianza è vera.» senza accorgersi dell’implicito paradosso… e chissà, permettendo a Tertulliano di affermare “Credo quia absurdum”! Ma non divaghiamo.

L’italiano ci mise un bel po’ di tempo prima di usare la parola: la troviamo nel 1541 nelle Lettere di Paolo Giovio, con la grafia “paradossa” e quasi contemporaneamente in Benedetto Varchi. Il Giovio aveva già usato l’aggettivo “paradossale” con l’attuale significato di “qualcosa che è o pare assurdo, bizzarro, irragionevole”; insomma la parola se ne stava comunque in un campo specialistico, quello dei filosofi, ma c’era.

I matematici naturalmente aborrivano anche solo dal pensare qualcosa del genere: in matematica non ci sono paradossi, non ci possono essere paradossi, e se c’è qualcosa che assomiglia a un paradosso significa che non ci si è spiegati bene. Al massimo ci poteva essere qualcosa di controintuitivo, come le geometrie non euclidee. Sì, certo. Arrivati alla fine del XIX secolo, i matematici cominciarono a strappare alla filosofia la branca della logica, dicendo “adesso ve la mettiamo in sesto noi”; e naturalmente vennero infettati dai paradossi. Il primo “paradosso matematico”, nel senso che è stato direttamente definito così, è quello di Burali-Forti; il matematico dimostrò che non era possibile costruire l’insieme di tutti i numeri ordinali, perché si arrivava a una contraddizione. Georg Cantor fece lo stesso subito con l’insieme di tutti i numeri cardinali, ma fu Russell, col suo barbiere che tagliava la barba a tutti quelli che non se la tagliavano da soli, a consacrare definitivamente il termine anche nell’ambito matematico. Chi troppo vuole, paradossa!

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