L’ipotesi del continuo
Abbiamo visto l’ultima volta come Georg Cantor abbia scoperto che la cardinalità (il “numero”) dei reali sia maggiore di quella degli interi. Per la precisione lo dimostrò per i numeri reali tra 0 e 1, ma è abbastanza facile vedere come non è che prendendo tutti i reali ce ne siano poi di più. Nel caso ve lo foste chiesti, i punti del piano, o se per questo di uno spazio con un numero qualunque di dimensioni, hanno sempre la cardinalità del continuo c. Però vi potrebbe essere venuto un altro dubbio: perché tanta fatica a cercare una nuova lettera, andando fino a pescare dall’alfabeto ebraico, e affermare che la cardinalità degli interi è ℵ0, e subito dopo cambiare notazione? Ottima domanda.
Cantor era convintissimo che i reali avessero cardinalità ℵ1, fossero cioè l’infinito “appena successivo” di quello dei numeri interi. Però era un matematico, e sapeva bene che un conto è essere convinti di un fatto e un altro conto dimostrarlo. Così mise un simbolo per così dire “provvisorio” per indicare la cardnalità dei reali, e si accinse a mostrare come fosse in realtà ℵ1. Peccato che non ci riuscì, nonostante tutti i suoi sforzi. Né riuscì a trovare un insieme piu grande degli interi e più piccolo dei reali, il che sarebbe comunque stata una risposta valida, anche se indubbiamente meno elegante.
Il problema prese così il nome di ipotesi del continuo, CH in breve dall’inglese “Continuum Hypothesis”; nella sua formulazione canonica dice appunto che non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella dei reali. Assumendo assieme ai soliti assiomi che caratterizzano i numeri anche l’assioma della scelta (prima o poi parlerò anche di quello) possiamo scrivere 2ℵ0 = ℵ1. Esiste poi anche l’ipotesi generalizzata del continuo (in breve, GCH), che afferma che per ogni n si ha 2ℵn = ℵn+1, ma non mettiamo troppa carne al fuoco.
Hilbert, che come forse ricorderete era rimasto estasiato dalla scoperta dei numeri transfiniti, era talmente interessato dalla cosa che pose la dimostrazione dell’ipotesi del continuo come il primo dei suoi ventitré problemi, e quindi furono in molti i matematici che sbatterono la testa contro il problema. Il primo che riuscì a tirare fuori un qualche risultato al riguardo fu Kurt Gödel, quello del teorema di incompletezza; nel 1940 Gödel dimostrò che usando gli assiomi usuali nella teoria degli insiemi non si poteva dimostrare che l’ipotesi del continuo fosse falsa. Notate per favore il salto carpiato: non dice “è vera”, non dice nemmeno “non è falsa”, ma “non si può dimostrare che sia falsa”. Se vi è venuto mal di testa avete tutta la mia comprensione. Ad ogni modo Gödel credeva che in effetti l’ipotesi del continuo fosse falsa e che gli assiomi che usiamo sono incompleti e cercò di trovare un sistema per affermare che i reali sono ℵ2, ma si fermò qua. Nel 1963 Paul Cohen completò la dimostrazione, se di dimostrazione si può parlare, facendo vedere come non si può nemmeno dimostrare che l’ipotesi sia vera. Insomma, sappiamo di non sapere; ma la situazione è diversa da quella di Socrate, visto che questo non può essere un punto di partenza. Tutto quello che possiamo dire è che ci sono svariati modelli che trattano gli infiniti, e non abbiamo nessuna possibilità di sceglierne uno come “er mejo”.
Come ultima chicca, ci sono alcuni di questi modelli che hanno al loro interno i cosiddetti cardinali inaccessibili. Questi non sono alti prelati che non rispondono mai al telefono, ma numeri (infiniti) che non possono essere ricavati a partire dagli altri cardinali, e quindi devono essere postulati come assioma di fede. Chissà se Hilbert aveva pensato che anche nel paradiso dei matematici ci sarebbero state le schiere di angeli, arcangeli, cherubini e via discorrendo!
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