Storia dell’infinito
Dell’infinito si può parlare all’infinito, mi sa. E non è detto che ci si riesca a mettere d’accordo. D’altro canto, ho sempre dei dubbi che degli esseri finiti come noi possano effettivamente concepire l’infinito: ma qui scivoliamo nella filosofia che non è esattamente il mio forte. Prima di parlare dell’infinito usato in matematica negli ultimi 120 anni, penso però che sia utile vedere come ci si approcciava in passato.
Egizi e babilonesi, ma nemmeno maya, indiani e cinesi, non hanno mai avuto problemi con l’infinito, perché non lo concepivano neppure. Loro risolvevano problemi, e i problemi sono tendenzialmente finiti. I primi a parlare dell’infinito in matematica (e in filosofia) sono stati i greci, e anche loro hanno fatto di tutto per evitarlo: non per nulla nemmeno i loro dei sono onnipotenti. Ma come, dirà qualcuno, Euclide non mette addirittura come postulato che la retta è infinita? Per nulla. Il testo originale dice che una retta può essere prolungata secondo necessità. Insomma, nelle costruzioni geometriche si usano solamente segmenti di lunghezza finita, come del resto in effetti succede. Anche il famigerato quinto postulato, quello delle parallele, non parla affatto di parallele! La formulazione euclidea afferma che, date due rette e una terza che le tagli entrambe, prolungando le due rette esse si incontreranno dal lato in cui la terza forma con loro due angoli la cui somma è meno di due angoli retti. Tutto questo si può riassumere dicendo che i greci usano solo l’infinito potenziale: cioè si possa far crescere a piacere una quantità pur rimanendo sempre belli ancorati a un valore finito.
D’altra parte, un approccio conservativo di questo tipo ha il suo senso: come più di un millennio e mezzo dopo Galileo ha fatto notare nel suo Dialogo sopra i massimi sistemi, i numeri quadrati come 1, 4, 9, 16, … sono solo una piccola parte dei numeri positivi; ma possiamo mettere i due insiemi in corrispondenza biunivoca e quindi sembrerebbe che siano in realtà uguali. Come fare per evitare paradossi di questo tipo? Si vieta di usare l’infinito, tanto all’atto pratico non ci serve. Un modo un po’ riduttivo di operare, ma che comunque ha i suoi punti di forza.
Il piccolo guaio è che non bisogna mai dire a un matematico – o a un essere umano in generale, se per questo – che qualcosa è vietato, perché ci si mette subito a giocare. Pochi decenni dopo Galileo, le serie infinite entrano prepotentemente in gioco, con i matematici dell’epoca (James Gregory e nientemeno che Leibniz stesso) che scoprono ad esempio che la somma infinita 1 – 1/3 + 1/5 – 1/7 + 1/9 – … è pari a π/4; e tirano fuori risultati così carini che non se ne può proprio fare a meno. Eulero è stato il vero campione, e maneggiava le serie infinite come un giocoliere, usando tutti i trucchetti formali di manipolazione algebrica. Poi magari gli venivano fuori risultati un po’ strampalati: partendo dalla divisione 1/(1-x) = 1 + x + x2 + x3 + … e sostituendo a x il valore 2 otteneva -1 = 1 + 2 + 4 + 8 + 16 + … il che non suona così bene.
Eulero se la cavava dicendo “ma tanto io faccio questi conti per applicarli alla fisica: se il risultato non ha senso vuol dire che è da buttare via”, e lo stesso facevano i primi analisti quando si arrampicavano sugli specchi spiegando perché nel calcolo delle derivate l’incremento non era zero – altrimenti si otteneva una divisione della forma 0/0 che non aveva senso – però dopo aver semplificato l’espressione ed eliminato il rischio della divisione indeterminata si cambiava idea e si diceva che l’incremento in effetti valeva zero. Ma la matematica va avanti così: ogni tanto c’è il momento in cui si parte per la tangente :-) senza preoccuparsi troppo della correttezza formale del tutto, ogni tanto ci si ferma e si rimette tutto bene a posto. Per l’analisi matematica si sono inventati tutti gli epsilon e i delta nelle definizioni; per le serie infinite si sono studiati i criteri di convergenza per eliminare i casi che non funzionano.
Insomma, tutto sembrava relativamente tranquillo: come ai tempi di Euclide (e Aristotele) l’infinito esiste, ma noi non lo tocchiamo e quindi facciamo finta che non ci sia. Poi arrivò Georg Cantor e le cose non furono più come prima: ma quella è un’altra storia, e quindi ve la racconterò la prossima volta.
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