Una (vecchia) rivoluzione nella matematica
La settimana scorsa Paolo Marino mi ha segnalato questo articolo di Frank Quinn, dal titolo A Revolution in Mathematics? What Really Happened a Century Ago and Why It Matters Today. La rivoluzione di cui parla l’articolo dovrebbe essere abbastanza nota a chi ha studiato matematica al liceo: Quinn però la considera da un punto di vista un po’ diverso, che a me per esempio non era mai venuto in mente, e che getta una luce interessante su quello che accade oggi. Provo a raccontare quanto ho capito io, tenendo conto che siamo su un difficile crinale tra filosofia della matematica e didattica. Diciamo che l’unico vantaggio è che di formule non se ne parla affatto!
La storia che si sente solitamente raccontare è che a partire dalla metà del XIX secolo i matematici si sono accorti che le loro dimostrazioni non erano poi così precise, e quindi iniziarono a studiarsi per bene i fondamenti in modo da ottenere una scienza davvero a prova di errore… il tutto arrivando al formalismo di Frege e Russell prima e di Hilbert poi, e al crollo di tutte le speranze con il teorema di indecibilità di Gödel. La rivoluzione avviene insomma tra il 1890, quando Peano tira fuori dal cappello la sua curva che riempie un quadrato e fa capire come il concetto di “curva” fosse molto sottovalutato, e il 1931, con appunto la pubblicazione del teorema di Gödel. Certo la tendenza alla specificazione corretta delle ipotesi e delle dimostrazioni era già in auge da alcuni decenni, anche se Cauchy, il suo primo promotore, pigliava delle cantonate anche lui: ma per Quinn non è questo il punto fondamentale.
Il problema con la “nuova matematica” è che la richiesta di definizioni estremamente precise e di dimostrazioni giustificate passo per passo ha segnato una rottura con l’abitudine plurimillenaria (sì, ce l’avevano anche i greci, finanche Euclide, per non parlare di Archimede…) di avere un ragionamento matematico che si appoggiava su considerazioni fisiche, e che quindi non era formalmente corretto – una curva fisica non si comporterà mai come la curva di Peano! – ma funzionava in pratica. Questo è l’approccio usato ancora oggi dai fisici, quello per cui una “well-behaved function” è definita come “funzione a cui si possono applicare i teoremi che ci servono”. Il guaio con questa definizione è che occorre sempre rifarsi non solamente a qualcosa di esterno – per l’appunto il mondo reale – ma anche usare il nostro raziocinio per capire come applicare il teorema alla realtà. Questo è sempre capitato: anche Euclide, con le sue non-definizioni “punto è ciò che non ha parti / retta è lunghezza senza larghezza” chiede al lettore di prendere punti e rette ben reali e astrarne in qualche modo le caratteristiche desiderate.
Ma questo è l’approccio che Hilbert non voleva affatto: a lui la matematica interessava come “gioco formale” che aveva bisogno di definizioni precise e dimostrazioni logicamente complete. Non per nulla prese i cinque più cinque assiomi euclidei e li raddoppiò, per fare in modo che anche parlando di tavoli, sedie e boccali invece che di piani, rette e punti il tutto funzionasse lo stesso. Il gioco formale è quello usato da Russell e Whitehead, con la paginata di simboli che permette di essere certi che 1+1=2; è quello che qualche decennio dopo userà Bourbaki, con il suo tentativo di riformare la matematica in modo che un libro di geometria non avesse figure (e per fortuna non c’è riuscito). È anche quello che Gödel ha rotto con i suoi teoremi di indecidibilità: Quinn afferma che se Hilbert avesse pensato di definire “vero” come “impossibile da contraddire” quei teoremi non avrebbero avuto tutto quell’effetto dirompente, ma così non è stato, ed è inutile piangere sulla definizione sprecata.
Fin qui nulla di realmente nuovo per chi ha studiato un po’ del problema dei fondamenti: l’approccio chiamiamolo hilbertiano ha dato sicuramente tanti vantaggi e permesso di ampliare il campo d’azione della matematica, ma tutto questo ha avuto un alto prezzo: il numero di persone che possono fare matematica ad alto livello si è drasticamente ridotto, perché la mancanza di una connessione con il mondo reale rende particolarmente difficile ai “dilettanti” riuscire ad afferrare i concetti di base. Garantisco che io faccio fatica a seguire gli articoli dell’American Mathematical Monthly anche su campi abbastanza di base… Quinn però fa notare un paio di cose che non mi erano mai venute in mente, anche se la prima a posteriori è quasi ovvia.
Innanzitutto bisogna ricordare che questa rivoluzione, come tutte quelle che si rispettano, non è passata senza una lotta, e ci sono stati alcuni matematici molto influenti che erano contrari a questo cambio di visione per la matematica. Quinn non pensava tanto a Brouwer e dell’intuizionismo / costruttivismo (se non sapete o non vi ricordate di cosa sto parlando, andate a leggere questo mio vecchio post): anche se Hilbert ai tempi si era spaventato, quella corrente è sempre stata minoritaria. No, il vero gigante dello schieramento avverso è nientepopodimeno che Henri Poincaré. Come dicevo sopra, in effetti la cosa non è così strana a posteriori: Poincaré è stata infatti l’ultima persona che è riuscita a conoscere fondamentalmente tutta la matematica e tutta la fisica dell’epoca, e quindi è abbastanza naturale che il suo punto di vista fosse molto più legato al mondo reale. È vero che a volte il grande matematico francese prendeva delle cantonate: forse avete sentito raccontare del premio indetto da re Oscar II di Svezia per trovare una soluzione del problema dei tre corpi. Poincaré vinse il premio, ma spese tutti i soldi e qualcosa in più per ritirare le copie della sua dissertazione, dopo che ci aveva trovato un erroraccio che inficiava il tutto. Ma nonostante questi incidenti di percorso nessuno può negare la sua bravura: tutto questo però non è stato sufficiente per cambiare la situazione.
Il secondo matematico che ha esercitato un’influenza meno visibile ma più duratura è stato Felix Klein. Non so quanti di voi abbiano sentito parlare di lui, a parte forse per la bottiglia di Klein. Ma in realtà Klein è stato fondamentalmente un didattico, prima nella geometria e poi nel 1908 con il suo testo fondamentale Elementarmathematik vom höheren Standpunkte aus (matematica elementare da punti di vista superiori). Bene, il sistema educativo scolastico ha continuato per tutto il secolo a seguire l’approccio kleiniano: i tentativi come quello della “nuova matematica” negli anni 1960 e 1970 nel mondo anglosassone – e un po’ più tardi da noi – sono stati fallimentari, e si è così scelto di aggiornare i metodi ma non l’impianto di base di Klein. Risultato? Diventa ancora più difficile formare i matematici, perché quando arrivano all’università bisogna ricominciare da zero e spiegar loro come si fanno davvero le cose, con il rischio di scoprire che molti di quelli che erano “bravi in matematica” in realtà non sono bravi in “matematica”… e ammetto di essere tra quelli.
Quinn termina il suo articolo notando come nei decenni il nucleo dei matematici di base si è arroccato nella sua torre d’avorio; potevano farlo perché tanto la matematica di base è autodefinita, ma oggi questa torre si sta sgretolando perché i fondi a disposizione sono sempre di meno e tendono a essere spostati verso la matematica applicata… anche se poi nessuno può garantire che la matematica pura resterà tale nei secoli, come disegnato da Abstruse Goose. Aggiunge poi che a suo giudizio oramai i matematici applicati sono così tanto separati dalla realtà matematica di punta che probabilmente non li si dovrebbe nemmeno chiamare matematici ma “scienziati”, e mi è parso di leggere il disprezzo verso i loro metodi più che altro empirici. Fin qua sono abbastanza d’accordo con lui; ma la sua soluzione, spostare le risorse sul lato dell’educazione e completare la rivoluzione dell’inizio del secolo scorso fin dalle scuole elementari, mi pare francamente improponibile e inutile. Qualcuno tra gli stoici che sono arrivati a leggere sin qui avrebbe voglia di commentare a sua volta? Valgono anche le richieste di maggiori spiegazioni, claro!
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