I numeri immaginari e complessi
Dare un nome a una cosa significa molto spesso emettere un giudizio di merito: la scelta delle parole non è mai neutra. I numeri immaginari, pertanto, sono qualcosa che si direbbe non esistere affatto se non nei sogni di qualche matematico che aveva cenato un po’ troppo pesante. Niente di più lontano dal vero: in ingegneria per esempio essi sono il pane quotidiano, anche se loro usano la j al posto della i per indicare l’unità immaginaria. Ma quando apparvero per la prima volta, in effetti…
In passato non è che la gente fosse così stupida. Magari non era molto convinta che i numeri negativi esistessero davvero, e sicuramente non li accettavano come soluzioni di un problema; ma si rendeva perfettamente conto che un numero come √−4 non poteva essere 2, visto che 2×2 = 4, e nemmeno -2, visto che −2×−2 = 4. Fin qui nulla di male. Ma poi arriva Tartaglia, che scopre le formule per risolvere vari tipi di equazioni di terzo grado (come ho scritto, all’epoca tutti i termini di un’equazione dovevano essere positivi, quindi due equazioni per noi dello stesso tipo erano distinte a seconda del lato dell’uguale in cui si trovavano i termini). La sua formula funzionava perfettamente… tranne nel caso in cui l’equazione aveva tre radici reali (positive). Beh, no, funzionava comunque: però nel corso dei calcoli risolutori capitavano delle radici quadrate di numeri negativi. Tartaglia trovò un sistema diverso per trattare quel caso particolare, ma il suo contemporaneo Cardano era indubbiamente un tipo molto più pragmatico: quei numeri chiaramente non esistevano, ma visto che si poteva far finta che avessero un qualche significato e poi tanto alla fine sparivano, perché non usarli?
Nel Settecento i numeri immaginari continuavano a non esistere, ma questo banale particolare non fermava certo i matematici dell’epoca, che erano sostanzialmente dei formalisti – un effetto collaterale di avere introdotto le notazioni algebriche odierne; con i simboli al posto delle parole discorsive viene più voglia di trattarli come se avessero una vita loro – e quindi hanno tirato fuori formule su formule che li sfruttavano. Eulero, se non ha creato, ha sicuramente contribuito a diffondere il simbolo i per l’unità immaginaria: sua è anche la famosa e misteriosa formula eiπ+1=0 e la scoperta che ii è un numero reale, pari a circa 0,207879576. Vi racconto uno scoop: entrambe queste equazioni hanno in realtà infiniti valori, e quello indicato è solo il principale. Ma il principio di base è comunque quello.
Lo status dei numeri immaginari continuava però ad essere quello di fenomeni da baraccone, senza una reale parentela con i numeri veri e propri; anche Eulero, che pure amava tanto giocarci, diceva che «non sono né nulla, né qualcosa meno di nulla, il che li rende necessariamente immaginari, o impossibili». All’inizio dell’Ottocento ci furono due avvenimenti che fecero cambiare il punto di vista del mondo matematico. Il primo fu la scoperta di un modello naturale per rappresentare i numeri immaginari e i numeri complessi, quelli ottenuti sommando a un numero immaginario un numero “reale” (il concetto non era ancora formalizzato, ma cosa volete che sia un numero contrapposto a uno immaginario?). Il modello è noto come il piano di Argand, dal nome dello svizzero naturalizzato francese che nel 1806 mentre lavorava come libraio pubblicò a sue spese un opuscolo Essai sur une manière de représenter les quantités imaginaires dans les constructions géométriques dove mostrava come si potesse usare il piano cartesiano per raffigurare tutti i numeri complessi. L’asse delle x corrisonde ai numeri reali, mentre l’asse delle y ai numeri immaginari, con l’unità immaginaria i verso l’alto (e l’unità 1 verso la destra, ma questo lo sapevate già)
Non che basti avere una bella rappresentazione perché un modello sia valido: esso deve infatti essere utile. E in effetti il piano di Argand lo è, perché ci sono regole semplici per sommare due numeri complessi – la regola del parallelogrammo applicata ai vettori che partono dall’origine e terminano nel punto corrispondente al numero – e moltiplicarli, ma qui la storia è più complicata. La memoria di Argand fu molto più fortunata di quelle di Galois e Abel, perché venne fortunosamente ritrovata e pubblicata nel 1813 da Jacques Francais con l’autore ancora in vita e che quindi poté avere tributati i giusti onori; ma è anche vero che, come vedremo sotto, contemporaneamente il solito Gauss aveva avuto la stessa idea che avrebbe poi pesantemente sfruttato, e quindi la cosa non si sarebbe comunque persa.
Quello che è poco noto, anche perché immagino i francesi abbiano fatto di tutto per nascondere, è che Argand non è stato affatto il primo a ideare il piano di Argand! Qualche decennio prima il norvegese Caspar Wessel, che nella vita faceva tutt’altro essendo un topografo, nel 1797 aveva presentato esattamente lo stesso modello che era anche stato pubblicato nelle Memorie della Regia Accademia Danese. Peccato che il tutto fosse scritto in danese e nessuno all’estero ne sapesse nulla… il trattato fu dimenticato e riscoperto casualmente solo dopo un secolo, come spiega Paul Nahin nel suo libro An Imaginary Tale. Se volete, questa è una controprova della validità del modello: se ci si si arriva indipendentemente, deve avere un senso profondo.
No, non mi sono dimenticato della seconda ragione per cui i numeri immaginari ebbero diritto di cittadinanza. Il merito è di Gauss, che completò i risultati di Paolo Ruffini dimostrando il Teorema Fondamentale dell’algebra: un’equazione di grado n ha sempre esattamente n soluzioni nel campo dei numeri complessi. La forza di un risultato così generale è tale da avere portato la comunità matematica ad accettare i numeri complessi come un’estensione naturale. Nel 1831, anche se sembra che i suoi risultati fossero già stati ottenuti prima del 1796, Gauss pubblicò la sua interpretazione geometrica dei numeri complessi, che tra l’altro vennero chiamati così proprio da lui: e se qualcosa lo diceva Gauss si poteva essere certi che tutti i matematici lo avrebbero accettato.
Visto che stiamo parlando di Gauss, un paio di divagazioni possono sempre starci :-) Prima divagazione: Gauss tra l’altro ha sfruttato i numeri complessi, per la precisione le radici ennesime dell’unità, per risolvere un problema che non era più stato toccato dal tempo degli antichi greci. Quali sono i poligoni regolari che si possono costruire con riga e compasso? A scuola ci insegnano a costruire i poligoni di 3, 5 e 15 lati, oltre al quadrato e quelli ottenibili da essi continuando a raddoppiare il numero dei lati. Gauss costruì il poligono di 17 lati e dimostrò quali altri poligoni regolari sono costruibili con riga e compasso: ma quella è un’altra storia. Seconda divagazione. Mai sentito parlare degli interi di Gauss? sono i numeri della forma a+bi, con a e b interi. Sono simpatici, almeno per i matematici, perché assomigliano ai numeri interi. Anche qui ci sono i numeri primi, ma per esempio 2 non è affatto primo, essendo dato dal prodotto (1+i)(1-i). Ma non divaghiamo. Ah: Gauss era convinto che il nome “unità immaginaria”, così come “unità negativa” per −1, fossero fuorvianti e nascondessero la relativa similarità dei concetti; fosse stato per lui le si sarebbe dovute chiamare unità laterale e unità inversa, mentre il numero 1 sarebbe stata l’unità diretta. Ma certe abitudini non le poteva eliminare neppure Gauss.
Il Teorema Fondamentale dell’algebra vale anche quando i coefficienti dell’equazione sono numeri complessi e non reali: insomma, a furia di aggiungere tipi di numeri per permettere di risolvere le equazioni che apparivano (i numeri negativi per quelle come x+5 = 0, razionali per quelle come 2x = 3, irrazionali per quelle come x2 = 2, immaginari e complessi per x2 = −1) abbiamo raggiunto il nostro obbiettivo finale. O no?
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