È il 1920. Luigi Pirandello torna in Sicilia per il compleanno di Giovanni Verga; passando dalla natia Girgenti scopre che la sua vecchia balia è appena morta e organizza il suo funerale con due improbabili becchini, Nofrio e Bastiano, che stanno allestendo un’opera teatrale con un cast piuttosto approssimato. Pirandello, che è in crisi creativa, vede le interazioni tra attori e pubblico e riesce finalmente a tirare fuori l’idea per il suo nuovo lavoro, che sarà rappresentato a Roma l’anno successivo sconcertando parte del pubblico che non riusciva a capire la commistione tra attori, pubblico e metateatro.
Roberto Andò dà una sua lettura della genesi dei Sei personaggi in cerca d’autore con un film che all’inizio sembra perdersi – il problema non è tanto la lentezza che qui è funzionale, ma proprio il non capire dove voglia andare a parare – ma poi prende il suo ritmo. Servillo-Pirandello come al suo solito servilleggia, con la sua recitazione molto fisica, che fa credere di avere davvero Pirandello davanti a noi. Chi mi ha invece favorevolmente stupito sono stati Picone e Ficarra. Io non è che li apprezzi come comici: ma qui non sono mai stati sopra le righe, e hanno contribuito alla riuscita dei film insieme ai vari caratteristi. Il film continua a mischiare realtà e fantasia, principalmente viste dagli occhi di Pirandello – tra l’altro, inizia con la famosissima citazione tratta da La tragedia d’un personaggio – ma anche altrove: per esempio nella scena in cui Mimmo si alza durante la rappresentazione della filodrammatica, dicendo che un personaggio dell’opera è una sua raffigurazione, e il protagonista chiede al pubblico “Ma secondo voi, il Pietro che raffiguro è Mimmo?” ottenendone un “noooo!” corale. Credo che questo mescolamento, parallelo a quello dell’innovazione teatrale pirandelliana, sia ciò che ha portato al successo il film.

I farmaci hanno completamente cambiato la nostra vita. Fin qui nessuno può avere da ridire. Non ha però senso parlare di farmaci in modo generico, mettendoli tutti in uno stesso calderone: in questi ultimi due secoli siamo passati dai farmaci ricavati dalle piante a quelli creati chimicamente per arrivare a quelli prodotti biologicamente. Mica sapevo per esempio che gli anticorpi monoclonali sono fabbricati a partire da cellule cancerogene di topo che sono state gentilmente convinte a produrre proprio quell’anticorpo specifico. In questo libro Hager prende dieci farmaci, o più precisamente gruppi di farmaci, e fa una specie di storia della medicina a partire da essi. Comincia con l’oppio, noto già nell’antichità, per terminare appunto con i monoclonali. Non parla di aspirina perché nell’introduzione dice che ci sono già tanti racconti su di essa; si occupa di molte droghe, anche perché sono quelle che in fin dei conti sono più famosi; ma forse il capitolo più interessante e sicuramente personale è quello sulle statine. Hager racconta che si è molto arrabbiato quando gli arrivò un’email di un qualche dipartimento che lo invitava ad assumere le statine, e cominciò così una ricerca di vari mesi dove scoprì che non si è mica certi che esse servano davvero a prevenire gli infarti… Ma consiglio vivamente di leggere la storia raccontata direttamente da lui. La traduzione di Cristina Spinoglio è scorrevole.