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matematto non praticante

The Beatles Yellow Submarine (libro)

Il mio amore per i Beatles nasce il giorno di Capodanno 1972, quando Yellow Submarine venne trasmesso per la prima volta in Rai. Più precisamente, nasce alla visione (e all’ascolto) di Eleanor Rigby. Lo so, i Beatles c’entrano poco con i disegni del film: ma non importa. Questo volume ridisegna sulla carta il film. Il mezzo è diverso, e quindi anche le scelte grafiche lo sono, senza contare che la colonna sonora manca; ma la magia resta, e sono tornato bambino nel gustarmi le tavole… oltre ad aver finalmente capito qualche gioco di parole che mi ero perso anche quando da adulto avevo rivisto il film in lingua originale. Consigliatissimo.

(Bill Morrison, The Beatles Yellow Submarine, Titan Books 2018, pag. 112, € 22,12, ISBN 9781785863943)
Voto: 4/5

Chissà se Spartaco Casavecchia esisteva davvero

Incuriosito da Luca, ho preso in prestito dal circuito bibliotecario milanese la ristampa della Piccola storia della matematica di Egmont Colerus, pur sapendo che oltre ad essere datata (la prima edizione Einaudi è del 1939, l’anno di morte di Colerus) è anche quella tradotta originariamente da “Spartaco Casavecchia”.

Quello che ho scoperto è che però non v’è traccia di Spartaco Casavecchia se non come traduttore di questo specifico libro. Sapendo che almeno in passato c’era l’abitudine di fare traduzioni in casa editrice e indicare un nome di traduttore fittizio, mi chiedevo se anche questo è il caso…

(poi vi dirò com’è il libro)

Patrik Zaki libero

foto di Zaki

(da https://commons.wikimedia.org/wiki/Image:Patrick_Zaki.jpg )

Beh, è ovvio che la grazia concessa a Zaki deriva da un do ut des politico, e che probabilmente è il risultato di un tira-e-molla che durava da mesi: se non ho capito male, il presidente egiziano tradizionalmente le concede per il capodanno islamico, in stile “Gesù o Barabba?”, e possiamo immaginare che gli ultimi rinvii del processo a suo carico dipendessero proprio dal voler fare emettere la sentenza in concomitanza con la festività. È anche ovvio che il governo si è preso il merito della grazia, ma questo l’avrebbe fatto un qualunque governo. La domanda è “che gli abbiamo dato in cambio?”
Non sono certo l’unico a pensare che Zaki era stato arrestato come merce di scambio nel caso Regeni, perché gli italiani non rompessero le palle con la richiesta di estradizione dei componenti dei servizi segreti egiziani implicati nel rapimento e uccisione: e di questo ce ne accorgeremo presto, o meglio ce ne accorgeremo se non si sentirà più parlare della richiesta di estradizione. È uno scambio equo? Non lo so. Sicuramente giustizia non è fatta nel; caso Regeni, e soprattutto non sapremo mai la verità storica – e cosa c’entrano gli inglesi nel caso; ma purtroppo la politica è spesso il cercare di ottenere quel poco che si può.

Una cosa buffa di me che non capisco

Io di solito dico scherzando “ho imparato a parlare perché dovevo dire quello che stavo leggendo”. La cosa non è così lontana dalla verità: ho cominciato a parlare a quasi due anni e a leggere prima dei tre. Tutto questo ha però portato un problema: per me le lingue – tutte le lingue – sono qualcosa di scritto e non di orale. Faccio una fatica enorme a capire l’inglese parlato, e il mio accento è orrendo (un britannico direbbe “peculiar”, il che è la stessa cosa), ma anche solo in italiano non riesco a sentire la differenza tra è ed é, e da buon piemontese di nascita pronuncio la vocale sempre nel primo modo. Mia mamma mi prendeva in giro dicendo “non è battèsimo, ma battésimo”, e l’unico modo in cui riuscivo ad approssimare il suono era far finta di parlare con la cadenza veneta dei miei nonni. Il guaio credo sia il fatto che si scrivono entrambe allo stesso modo, e quindi il mio cervello le incasella in un unico posto.

Ma c’è un ma. Se io devo scrivere una parola francese, tipicamente uso gli accenti corretti. Che ci vuole, mi direte: avrai studiato le parole leggendole, e quindi ti sei imparato a memoria la posizione dell’accento. E invece no. Io non ho mai studiato francese e non parlo francese (posso leggerlo un po’, ma semplicemente perché è una lingua neolatina e sono abituato a estrapolare informazioni da dati incompleti.) Come faccio allora a imbroccare l’accento giusto? Semplice, pronuncio a bassa voce la parola e “sento” se le e sono aperte o chiuse.

Ecco. Perché mi accorgo della differenza dei due suoni in una lingua che non parlo, e non nella mia lingua madre?

Jorit e il mural copiato

A me di Ciro Cerullo detto Jorit importa nulla, e prima di questa storia non ne avevo mai sentito parlare. Ma questo non è importante. Non è nemmeno importante che il comune di Napoli finanzi le sue opere, e che Jorit sia un filorusso, tanto che è andato a Mariupol a dipingere un mural sul fianco di un palazzo rimasto in piedi dopo la conquista russa della città. Ognuno ha diritto di farsi pagare da chi vuole.

Quando però Jorit non solo copia (senza permesso, ovvio, perché l’arte deve essere libera) il suo soggetto da un’immagine della fotografa australiana Helen Whittle – leggete la storia su Open e Fanpage da dove ho preso le immagini – ma riesce anche ad affermare che lui in realtà ha copiato un’altra immagine che non ci assomiglia per nulla… beh, tutti i nodi tornano al pettine.

Niente Facci Vostri

Le anime belle della Rai hanno cancellato la striscia quotidiana affidata a Filippo Facci prima ancora che cominciasse, con la scusa di quello che il giornalista ha scritto sul caso Leonardo La Russa o meglio sulla ragazza che lo ha denunciato.
Mi chiedo oziosamente se non sapevano con chi avevano a che fare. Per dire, non esiste una voce su di lui nella Wikipedia in lingua italiana (anche se curiosamente c’è una raccolta di sue citazioni su Wikiquote) da quindici anni, dopo una serie di minacce legali. Davvero, la Rai avrebbe fatto meglio a tenerselo e fare una figura barbina semplice e non doppia come adesso.

Hofstadter e gli LLM

immagine da Freepik

Qualche giorno fa, sul mio socialino di nicchia è stato linkato questo articolo del New York Times dove David Brooks riporta un’intervista fatta a Douglas Hofstadter nella quale lo scienziato cognitivo si dice preoccupato di cosa potrà succedere in un futuro prossimo nel campo dell’autocoscienza delle intelligenze artificiali che partono dai grandi modelli linguistici (gli LLM). È però vero che qualche giorno prima sull’Atlantic Hofstadter aveva scritto che gli LLM in realtà non riescono per nulla a comporre qualcosa “alla Hofstadter”, e che il testo generato da un’AI di titolo “perché scrissi GEB” era semplicemente un coacervo di frasi fatte e piaggeria, per giunta in uno stile piatto e completamente diverso dal suo. (Nota personale: mi è venuta in mente la bozza della traduzione di Concetti fluidi e analogie creative a cui ho poi lavorato. Non c’erano ancora le intelligenze artificiali, ma il testo che mi è arrivato era di quel tipo)

A questo punto mi sono incuriosito. Insomma: conosco il pensiero passato di Hofstadter sull’intelligenza artificiale, ma qual è esattamente il suo pensiero oggi al riguardo? Ho così scritto a Hofstadter, che mi ha mandato il testo di un suo articolo che ha scritto qualche mese fa, che non ha ancora pubblicato e quindi non posso fornirvi; posso però darvi un’idea del contenuto. La sua tesi è che se le parole “agiscono come” cose nel mondo, allora si riferiscono a queste cose; se e quando ciò avviene allora dietro le scene c’è del pensiero, e quindi coscienza e un “io” genuino. Fin qua nulla di diverso da quanto ha sempre espresso. Quello che però è successo negli ultimi due anni – diciamo tra ChatGPT-3 e -4 – gli fa pensare che ci sia stato un salto di qualità. Con GPT-3 si era divertito con domande e risposte come

“Perché il presidente Obama non ha un numero primo di amici?” “Il presidente Obama non ha un numero primo di amici perché non è un numero primo”
“In quante parti si romperà la galassia di Andromeda se le si butta dentro un granello di sale?” “La galassia di Andromeda si romperà in un numero infinito di parti se le si butta dentro un granello di sale.” (Per la cronaca, se si butta una gelatina su un violino, questo si romperà solo in quattro parti, immagino perché più piccolo)

Ora, dice però Hofstadter, GPT-4 non fa più di questi errori: ne fa ancora di ridicoli, ma è sempre più difficile prenderlo in castagna. In realtà, Hofstadter non si cura più di tanto degli errori marchiani che questi sistemi fanno ancora: in fin dei conti, pensate a quante volte ci capita di cercare disperatamente gli occhiali che abbiamo addosso, o chiederci dove abbiamo lasciato il nostro telefono mentre stiamo telefonando a qualcuno. Non è quindi corretto giudicarli sulla base di questo: e – aggiungo io – non abbiamo ancora visto cosa può succedere se un LLM verrà addestrato su sé stesso, un po’ come AlphaZero quando ha imparato a giocare a go da solo. Gli LLM attuali, secondo Hofstadter, sono già più o in meno in grado di passare il test di Turing anche se non è non è somministrato come tale (corsivo mio), perché interagiscono con noi come genuini partner che usano il linguaggio (corsivo suo). Hofstadter riconosce di essere in minoranza tra i suoi colleghi scienziati cognitivi, e crede che molti di coloro che osservano la scena dell’intelligenza artificiale, anche tra i più sofisticati, hanno nei loro subconsci un piccolo residuo di “Searlianismo” (non devo dirvi cosa significa, vero? :-) ) Per lui i sistemi attuali sono più consci di un termostato – l’esempio standard di sistema a feedback che ha usato in Anelli nell’io – ed è da capire quanto più consci siano. Ricordando i suoi esempi tipici, immagino che il passo successivo sia la coscienza di una zanzara.

Hofstadter termina facendo notare che abbiamo già avuto due salti del substrato di conoscenza, quando è passata dagli organismi monocellulari ai pluricellulari e quando si è passati dall’acqua alla terra; un salto dal carbonio al silicio è più o meno equivalente. Ma tutti e tre questi salti non sono nulla rispetto a quello dalla non-vita alla vita. Più che altro teme che questo salto dalla nostra regale Io-ità a una Io-ità al silicio ancora più esaltata potrebbe avvenire anche solo in dieci anni. Mettetela come volete, ma ora io sono più preccocupato.

Luigi Bettazzi

Foto di Francesco Pierantoni. https://commons.wikimedia.org/wiki/Image:Luigi_Bettazzi_1.1.jpg

A Giuanin Lamiera doveva piacere monsignor Bettazzi, morto oggi quasi centenario ad Albiano d’Ivrea. Quando ero ragazzo, non passava settimana in cui su La Stampa non ci fosse un suo intervento, in qualità di vescovo d’Ivrea: non so se fosse una frecciata all’Olivetti, ma mi parrebbe strano, considerate le posizioni sicuramente progressiste di Bettazzi. Ultimo italiano vivente tra i vescovi partecipanti al Vaticano II – era ausiliario di Bologna e assistente del cardinal Lercaro – molti pensavano che il diventare vescovo di Ivrea poco più che quarantenne sarebbe stato semplicemente il primo gradino di un cursus honorum che l’avrebbe come minimo fatto diventare arcivescovo di Torino e cardinale: invece l’esperienza di Michele Pellegrino terminò quella stagione sabauda, e Bettazzi rimase “a fare il caporale” in periferia, ritagliandosi un nome nel mondo cattolico pacifista e continuando, anche decenni dopo aver lasciato la diocesi per raggiunti limiti d’età, a fare finissimi interventi filosofici, religiosi e politici. Devo dire che mi mancherà.