Io, assieme a quasi trentamila altre persone, sono in contratto di solidarietà da due anni. (In realtà in tutto sono sei anni, ma non sottilizziamo). Stiamo a casa due giorni al mese, nei quali siamo pagati come se fossimo in cassa integrazione straordinaria, il che significa molto poco: le percentuali che vedete scritte sui giornali riguardano gli operai ai livelli più bassi, ed essendo la somma uguale per tutti potete immaginare cosa significhi anche solo per un impiegato.
L’accordo di due anni fa prevedeva la possibilità di un terzo anno di solidarietà, previo accordo tra azienda e sindacato. All’inizio della settimana c’è stato un incontro tra la Triplice (che in queste settimane si è miracolosamente compattata) e l’amministratore delegato. Quest’ultimo ha detto che siamo una squadra fortissimi, ma che per continuare a esserlo bisogna fare anche il terz’anno di solidarietà, al che i sindacalisti hanno detto che non capivano come con tutti i risultati positivi tanto decantati ci fosse ancora bisogno di solidarietà, e che comunque se ne sarebbe parlato giovedì nell’incontro con Relazioni Industriali. (Io mi chiedo anche come abbiano fatto ad accedere alla solidarietà, ma questa è un’altra storia). Oggi l’azienda comunica che l’incontro di domani è annullato (rectius: “sospeso”. Le parole contano molto in questi contesti), che sospende anche l’articolo 4 della legge Fornero (l’isopensione) e in mancanza di un’intesa successiva metterà in discussione anche l’una tantum / prestito erogato. Qua occorrono forse due parole di spiegazione. L’isopensione è un prepensionamento pagato dall’azienda, che versa stipendio e contributi: uno si chiede perché un’azienda dovrebbe farlo, e quello che si è sempre saputo in via ufficiosa è che la solidarietà nasceva per far pagare a noi lavoratori meno vecchi i soldi da dare a quelli più vecchi. Quanto all’una tantum, negli accordi di solidarietà c’era scritto in maniera contorta (per aggirare la legge) che se alla fine del periodo di solidarietà fossero stati raggiunti certi livelli non formalmente definiti di produttività allora l’azienda avrebbe elargito a chi era sopravvissuto un’una tantum equivalente alla differenza tra quanto dato dall’Inps nelle giornate di solidarietà e il 60% dello stipendio, come nelle solidarietà precedenti. Addirittura permetteva ai lavoratori di chiedere un prestito aziendale a tasso zero per questa differenza, che sarebbe stato rimborsato alla fine della solidarietà… con i soldi dell’una tantum.
Che conclusioni trarre da questa storia? Nessuna che non si sapesse già. Io non avevo certo chiesto il prestito, conoscendo i miei polli, e ieri avevo scritto al mio sindacalista dopo la notizia dell’incontro con l’AD dicendo “quindi non ci daranno l’una tantum, giusto?”. Dopo tutti questi anni conosco fin troppo bene la mia azienda, tanto che sto per comprare coi miei soldi una SODIMM per aumentare la memoria al mio PC aziendale che è sempre in swap; tanto è impossibile fare un ordine di qualche decina di euro, e non ce la faccio a reggere attese sempre più lunghe. Amen.

La quarta di copertina di questo libro (Giulio Giorello (ed.), Introduzione alla filosofia della scienza, Bompiani 1999 [1994], pag. 445, ISBN 9788845241239) afferma “Questo volume è rivolto a studenti universitari, a insegnanti e a tutti coloro che ritengono che le teorie scientifiche non siano semplici “ricette di cucina” (Croce) ma tentativi audaci e coraggiosi di interpretare e cambiare il mondo. Mah. Secondo me è adatto solo a studenti universitari (di filosofia). Io ho una formazione scientifica e non certo filosofica, e ho preso questo libro pensando che come dice il suo titolo fosse una introduzione alla filosofia della scienza, e quindi spiegasse i concetti di base. Mi sono trovato invece di fronte a un gruppo di saggi (i “capitoli” del libro); gli ultimi tre, di Roberto Festa, Matteo Motterlini e Giulio Giorello, sono riuscito a seguirli abbastanza, ma il primo (di Giorello e Motterlini) presupponeva una quantità tale di conoscenze pregresse da farmi sentire uno buttato in mezzo a una piscina per vedere se imparava a nuotare da zero, e gli altri tre (di Michele Di Francesco, Bernardino Sassoli e Maria Spranzi) li ho piantati dopo poche pagine senza alcun rimpianto. Alla fine della lettura ho in effetti un’idea più chiara del significato degli slogan su falsificabilità e paradigmi che sentiamo sempre raccontati (anche se più che Kuhn sono Lakatos e Feyerabend a essere contrapposti a Popper); ma ho il sospetto di aver fatto molta più fatica di quanto sarebbe stato effettivamente necessario.