Salv-Ing-un fa cose

Sempre sulla foto di Salvini con il mitra, ho trovato molto interessante questo commento su un post di Massimo Mantellini:

Raccolgo con diligenza l’invito di Mantellini all’esercizio dell’intelligenza e mi chiedo: c’e’ più’ messaggio d’odio nella foto di un ministro dell’interno che soppesa uno di quei mitra che servono alle forze dell’ordine per difendere Mantellini dai criminali, oppure c’e’ più’ messaggio d’odio in un commento in cui Mantellini copre d’insulti quel ministro dell’interno (senza integrità onestà intellettuale e dignità umana, ingenuo fessacchiotto, bambino dell’asilo, cinico sovvertitore dell’ordine istituzionale…)?

Non entro nel tema dei cosiddetti insulti a Salvini (ma anche a Morisi): ci penserà al limite Massimo. Mi pare infatti molto più interessante entrare nel giudizio sulla foto, «un ministro dell’interno che soppesa uno di quei mitra che servono alle forze dell’ordine per difendere dai criminali». Io non ho nulla in contrario a che un ministro degli interni dia il proprio sostegno anche fotografico a un corpo di polizia, di cui è formalmente il capo. Immagino però che le sue competenze sulle mitragliette siano più o meno pari alle mie: soppesare quel mitra è un’azione che serve unicamente per rafforzare il culto della personalità, come del resto dimostrato dal commentatore qui sopra.

Ecco perché le foto di libri che mi dicono tante persone – anche se nessuna nella mia bolla, che io sappia – hanno postato in risposta alla foto con il mitra non servono a un tubo. Il problema non è il mitra, ma quello che ci sta dietro. È improbabile che spiegare a qualcuno il significato reale di quella foto gli faccia cambiare idea, ma c’è sempre qualche speranza: uno scaffale di libri non sarà neppure visto.

I bonifici di Venerdì Santo

Giovedì scorso mi sono connesso al sito di home banking per fare un bonifico. Il sito non funzionava, nel senso che si caricava solo una parte. Vabbè, mi dico, provo finalmente a usare l’app. App che in effetti funzionava perfettamente, fino a che non ho provato a dare l’ok al bonifico: a questo punto mi dice “impossibile completare l’azione”. Riguardo la schermata, e mi pare tutto a posto: la data della valuta per il destinatario è il giorno successivo, il che significa che mi tolgono i soldi con valuta odierna. Provo a spostare la valuta al martedì dopo Pasqua: niente da fare, sempre errore. A questo punto telefono all’assistenza, e la tipa (non italiana) mi dice che ho sbagliato a mettere quelle date e devo passare al 24 aprile, perché “il sistema interbancario dei bonifici domani il venerdì santo è chiuso”.

Tralasciamo il fatto che è stata l’app a propormi come valuta il 19 aprile, e quindi forse c’è qualche problema di base; tra l’altro stiamo appunto parlando di un’app che può venire aggiornata a piacere, non di un programma vecchio e mai toccato. Tralasciamo anche il fatto che non funzionava nemmeno per il 23 aprile, pur con valuta tolta in data 18: tanto il conto è a interessi zero, sai quanto mi avrebbe cambiato la vita perdere quattro giorni di valuta. Fermiamoci al “venerdì santo chiuso”. Se non ricordo male, il contratto dei bancari considera quel giorno semifestivo, e quindi con chiusura degli sportelli prima di mezzogiorno. Ma per l’appunto le banche sono comunque aperte. Perché invece le transazioni interbancarie sono chiuse? Forse i programmi informatici devono partecipare alla Via Crucis elettronica?

Wikipedia e la lingua italiana

Il mio amico Zop mi ha intervistato sul suo sito Diciamolo in italiano: non in qualità di matematico ma di portavoce di Wikimedia Italia. Wikipedia (ma anche il Wikizionario!) tende infatti a indicare le parole italiane corrispondenti ai lemmi importati, dando una possibilità ai lettori di non fossilizzarsi sul termine albionico.

Buona lettura!

Armi di distrazione di élite

A quanto pare, l’indignazione per il post pubblicato da Luca Morisi (lo spin doctor socialcosista di Matteo Salvini), dove si vede il “Capitano” imbracciare – malamente – un mitra, è stata enorme. Mi dicono che se ne sia parlato persino a qualche tg, e che in tanti abbiano segnalato la foto a Facebook perché istigherebbe all’odio. Tutto molto interessante. Peccato che:

(a) Stiamo parlando di americani. Se Zuckerberg vede anche solo l’ombra di un capezzolo femminile ti blocca immediatamente, ma se hai un’arma in mano sei un Vero Patriota. Se qualcuno crede davvero che quella foto violi i ToS di Facebook, forse è meglio che faccia un controllo di realtà.

(b) Morisi ha pubblicato la foto non a nome di Salvini ma suo personale. Quindi anche nel caso estremamente improbabile che ci fosse stata una sollevazione popolare, il ministro-praticamente-di-tutto avrebbe potuto facilmente scaricare la colpa sul suo collaboratore.

Ma soprattutto, (c) siamo in una nazione dove Salvini ha costruito il suo successo (oltre che al mantra “flat tax”, cioè “vi diamo una scusa per non pagare le tasse”) sul potersi difendere da soli e avere “il diritto” di sparare a chi pensiamo ce l’abbia con noi. Pensate forse che una foto come quella gli tolga voti? Figuriamoci. La Lega è arrivata a percentuali da DC d’antan. E tra chi non vota Lega ce ne sono tantissimi che almeno sulla parte “spariamo” si trova perfettamente d’accordo.

Insomma, quelli tra i miei ventun lettori che fanno parte dell’élite che ritiene non solo schifosa ma anche preoccupante quell’immagine dovrebbero fermarsi un po’, prima di mettersi a scrivere, e fare mente locale sul fatto che forse non tutti i lettori la pensano come loro. (Beh, in effetti qualcuno potrebbe essersi costruito un’apposita bolla e quindi l’indignazione verrà condivisa da tutti: ma è una ben magra soddisfazione, soprattutto il giorno dopo le elezioni). Un conto è dire “mi fa schifo / mi fa paura”, magari anche argomentando: ma i giudizi assoluti sono purtroppo spesso controproducenti.

Il lavoro ombra

La scorsa settimana sul Corriere la sociologa Anna Zinola ha scritto un breve articolo nel quale argomenta, citando il libro Il lavoro ombra di Craig Lambert, che il progressivo aumento dell’automazione «erode il tempo libero individuale (il lavoro invisibile incrementa in maniera impercettibile ma costante i nostri carichi quotidiani) e riduce il numero degli addetti stipendiati.»

Sulla seconda parte della frase, nulla da eccepire. Dovremmo in realtà discutere se non abbia senso rivedere da zero il concetto di lavoro, ma quello è un tema planetario e non certo nazionale. Sulla prima parte, permettetemi di avere qualche dubbio. Se faccio il pieno al self service è vero che impiego parte del mio tempo. Ma come potrei impiegare il tempo mentre il benzinaio mi fa il pieno? Guardando l’ultimo video di YouTube? Commentando su Facebook? Non contiamo poi la banale considerazione che fare un bonifico online mi costa meno tempo che andare in banca, e probabilmente mi costa anche meno soldi.

Quello che però mi fa più specie è la frase «Ogni volta che scriviamo una recensione su un blog, condividiamo un contenuto su un social media o carichiamo un video su una piattaforma lavoriamo, più o meno consapevolmente, gratis per qualcuno». Innanzitutto notate come si mischino due concetti completamente diversi. Se io condivido un contenuto (o posto un video altrui) sto effettivamente lavorando per il social media manager che aveva preparato quel contenuto. Possiamo di nuovo discutere se è una cosa bella o meno bella – io tendo a non condividere certe cose proprio per non fare pubblicità – ma stiamo in effetti lavorando gratis per lui. Ma se scrivo una recensione, la cosa è diversa. Ok, se la posto su Facebook potrei dire che lavoro gratis per Zuckerberg. Ma il punto chiave è “per Zuckerberg”, non “lavoro gratis”: se posto la recensione sul mio blog lavoro gratis per chiunque voglia leggere la recensione, e questa è una mia scelta consapevole, e soprattutto non è “lavoro” perché è qualcosa che faccio di mia spontanea volontà. Se proprio vuoi lamentarti, lamentati che tolgo il lavoro ai commentatori di professione, ammesso che ciò sia vero; ma non dirmi che vengo sfruttato da qualcuno. Semplice, no?

_14 scoperte scientifiche che non sono servite a niente_ (ebook)

Conosco da una vita i premi Ig Nobel. Ho comprato un libro – in inglese – che raccoglie molti articoli dagli Annals of Improbable Research, e sono persino coautore di un articolo ivi apparso. Potete quindi capire come mi sia arrabbiato a leggere questo libro (Aleksandra Krohe e Madeleine Veyssié, 14 scoperte scientifiche che non sono servite a niente [Le top 14 des découvertes scientifiques qui n’ont servi à rien], Bompiani 2017 [2016], pag. 384, € 6,99 (cartaceo: € 13), ISBN 9788845283888, trad. Mara Dompè, link Amazon). Le due autrici hanno infatti deliberatamente scelto di presentare quasi solo “ricerche scientifiche” fasulle, nonostante lo scopo dichiarato di Marc Abrahams sia quello di “far ridere prima, e pensare poi”. Persino quando hanno presentato risultati buffi ma con un certo qual senso, si sono premurate di mettere il lettore in guardia dall’inutilità della ricerca stessa: si legga l’ultimo capitolo sulla misura quantitativa del dolore percepito mentre si guardano bei quadri per farsene un’idea. Io sono totalmente d’accordo sull’evitare di pensare alla scienza solo come roba seriosissima, ma un libro come questo dà l’impressione opposta. Nulla da eccepire sulla traduzione di Mara Dompè.

Classifiche buttate lì

L’altra settimana qualcuno ha citato il sito irpef.info (che ovviamente non ha nulla di ufficiale…) per la sua classifica dei contribuenti. In pratica tu indichi un reddito e ti viene detto in che posizione ti trovi nella classifica dei maggiori contribuenti italiani (o se preferisci in quella dei tre maggiori comuni italiani Roma Milano e Napoli… oppure a Palermo).
Vabbè, nulla di male: in fin dei conti non si danno dati personali ma si inserisce solo un numero che può o no essere quello del tuo reddito. La cosa che non mi torna è la loro spiegazione di come viene calcolata la posizione:

Il programma di calcolo utilizza i numeri ufficiali elaborandoli però con un elemento di approssimazione. Infatti mentre le statistiche del Dipartimento indicano quanti contribuenti rientrano in una certa fascia di reddito, ad esempio quella compresa tra 35 mila e 40 mila euro, il programma permette di individuare una posizione assoluta: questo è possibile perché si suppone che i redditi siano distribuiti in modo esattamente uniforme.

Rileggete bene questa frase. viene indicata una posizione assoluta partendo da dati aggregati. Occhei, è come dire misurare la distanza tra Torino e Milano in centimetri, e quindi avere un dato intrinsecamente non valutabile, ma non stiamo a sottilizzare. Il vero problema dal mio punto di vista è un altro. Approssimare “a scalini” (in realtà a piani inclinati) la distribuzione dei redditi è davvero rozzo, e lo potrei accettare giusto se dovessi fare i conti a manina. In prima approssimazione, possiamo immaginare che la distribuzione dei redditi segua più o meno una poissoniana, una curva con una salita rapida e una discesa più lenta; ma anche senza avere studiato statistica non ci vuole molto a trovare una routine che ti calcoli una spline (dalla voce di Wikipedia forse non ci ricavate molto, ma in pratica è una funzione senza angoli o bruschi cambiamenti di direzione che unisce una serie di punti).
Certo, all’atto pratico non cambia molto, è solo un giochetto: però quando uno gioca dovrebbe farlo nel miglior modo possibile.