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matematto non praticante

Ci sono solo sette numeri la cui radice cubica è uguale alla somma delle loro cifre

radice cubica di 19683 Se prendete la radice cubica di 512, ottenete 8. Se fate la somma delle cifre di 512, ottenete 8. È un caso? Noi di .mau.ager crediamo di no. D’altra parte, possiamo vedere se la cosa è così comune, cercando tutti i numeri con questa caratteristica. Per esempio 0 e 1 hanno come radice cubica sé stessi, e quindi la somma della singola cifra è uguale alla loro radice cubica: ma magari ci sono altri esempi. Come trovarli?

Per prima cosa, notiamo che il numero non può essere troppo grande. Se avesse sette cifre la loro somma sarebbe al più 7×9 = 63, ma 63³ è un numero di sei cifre e quindi non possono esserci numeri di sette (o più) cifre con quella proprietà. Quindi il numero può avere al più sei cifre, ed essere al massimo 6×9 = 54. Basta pertanto testare tutti i numeri da 0 a 54 e vedere quali hanno la proprietà richiesta. Oltre a 0, 1 e 512 abbiamo 4913 = 17³, 5832 = 18³, 17576 = 26³ e 19683 = 27³. Questi sette sono gli unici numeri di Dudeney, dal nome del matematico ricreativo che – almeno in era moderna – è stato il primo a trovarli tutti.

Notate che a parte 8 i numeri sono a coppie di consecutivi: 0-1, 17-18, 26-27. E questo sarà un caso? Beh, mi sa di sì…

Futurliberty (mostra)

logo mostra In questi mesi si può visitare al Museo del Novecento (oltre a una parte gratuita a Palazzo Morando più legata alla moda) la mostra temporanea Futurliberty.

Per prima cosa ho scoperto che in Italia il Liberty si chiama così perché il signor Liberty aveva fondato il negozio di tessuti Liberty & Co. che evidentemente da noi aveva spopolato tanto da diventare il nome nostrano per l’Art Nouveau. La Liberty & Co. esiste ancora oggi ed è lo sponsor della mostra, che dunque non parla di liberty ma appunto di futurismo.

La mostra è nascosta molto bene: si trova a pian terreno, e si entra da una porticina in fondo al bookshop. Un tocco interessante è che oltre alle opere sono esposti pannelli di tessuti (della Liberty…) con disegni molto belli; ci sono anche molti altri esempi di design degli stilisti dell’azienda. Tra le opere Balla la fa sicuramente da padrone, ci sono sale praticamente riempite da sue opere (ma quanto ha dipinto?): si vedono poi le somiglianze e le differenze con il vorticismo britannico, che in un certo senso è stato uno spinoff del futurismo (ma non diteglielo, che si arrabbiano!) In definitiva, una mostra piacevole da visitare.

Twitter e Reddit: che succede?

forbiddenLa scorsa settimana Elon Musk ha messo un limite (temporaneo?) al numero di tweet che possono essere letti in un periodo prefissato di tempo. Nel frattempo Reddit ha messo le proprie API a pagamento, suscitando proteste immani da parte degli utenti (mi sa che le proteste siano rientrate). I due casi sono diversi: per esempio, oltre a limitare quanto si può vedere, Twitter ora non permette di leggere tweet se non si è loggati, probabilmente perché i costi di connessione erano troppo alti; Reddit deve invece dimostrare di fare soldi per l’ingresso in borsa. Ma una cosa in comune ce l’hanno: il voler bloccare le API.

Facciamo un passo indietro. Le API (Application Programming Interfaces) sono funzioni che un programma può usare per interagire con un altro programma. Per esempio Twitter mette a disposizione API per scrivere un tweet oppure per recuperare tutti i tweet che hanno al loro interno un certo hashtag. Ma questo lo fa già l’app di Twitter, direte! Certo, ma usando le API uno può scriversi una nuova app che faccia le cose in modo diverso: chessò, con un’interfaccia grafica migliore, con feature che non sono state pensate da chi ha scritto l’app ufficiale, eliminando i messaggi pubblicitari che inframmezzano il contenuto da scaricare, o radunando in un unico posto contenuti da diversi siti.

Tutto questo è bellissimo se si stanno usando programmi amatoriali: ma se qualcuno ha un servizio da cui vuole tirarci fuori dei soldi è una iattura unica. (E tra l’altro da quello che ho capito l’app ufficiale di Reddit fa schifo). Quello che succede in pratica è dunque che tutti questi servizi, non appena raggiungono una massa critica, fanno in modo che sia sempre più difficile se non del tutto impossibile recuperare i dati che si tengono in pancia e che sono il vero loro asset.

L’altra faccia della medaglia? Servizi davvero liberi, come per esempio Mastodon, non avranno mai le risorse per raggiungere la massa critica. Quindi o si sceglie esplicitamente di restare a livello amatoriale, come nel mio socialino di nicchia preferito (che comunque non ha API per non sbagliarsi…) o nulla. Viviamo in un mondo difficile.

The Digital Rights Delusion (ebook)

copertina Andrea Monti è un amico della generazione di internettari della prima ora, quando a usare la rete eravamo pochissimi – non c’erano ancora i grandi provider – e pensavamo che sazrebbe stata una cosa bellissima e utilissima. Sono passati trent’anni e le speranze di allora sono tristemente morte: ma forse non potevamo aspettarci che un’isola elitaria come quella di un tempo sarebbe sopravvissuta all’arrivo in massa di chi voleva fare i soldi, le Big Tech.
Monti è però un avvocato, e in questo libro mostra come la narrazione delle suddette Big Tech sia in realtà una falsità propinata apposta per farci credere che il ciberspazio sia qualcosa di diverso dal mondo reale e quindi abbia bisogno di leggi diverse: la sua tesi è che basta applicare le leggi già esistenti. Nel primo capitolo Monti fa una storia del termine “cyberspace”, notando come originariamente il termine indicava sempliemente il comando (Kubernetes sarebbe il capitano…); negli anni ’80 il termine fu usato come buzzword, che prese poi una vita per conto suo. Da qui nel secondo capitolo, “The quest for digital rights”, Monti arriva alla logica conclusione che non esistono i “diritti digitali”, o meglio che non c’è nulla di specificatamente digitale (e comunque “digitale” non significa “su internet”), e parlare di diritti digitali in realtà presuppone la cancellazione dei vari sistemi legali per spostare la gente nelle gabbie dorate che le Big Tech hanno costruito. I social network, argomento del capitolo 3, sono ormai diventati tutto tranne che sociali, visto che hanno spostato il loro scopo dalla condivisione di contenuti all’equivalente di una grande televisione mondiale dove tutti vedono le stesse cose. Non parliamo della crittografia, dove si vede la lotta tra gli Stati, che in passato avevano il monopolio su queste tecnologie, e le Big Tech che sfruttano i sedicenti “diritti digitali” per fare quello che vogliono impedendo l’accesso ai loro dati (tranne che a sé stesse, ovvio). Infine l’ultimo capitolo parla della robotica. Qui l’approccio di Monti è tranchant: non solo robot e AI non hanno diritti propri, ma secondo lui data scientist, progettisti software e sviluppatori dovrebbero poter essere citati in causa (pag. 148).
La quantità di esempi e dati portati da Monti nel libro lo rende uno strumento prezioso per avere un’idea globale dei tanti temi toccati dalla rivoluzione digitale anche per chi come me non ha una cultura giuridica: il punto è che questi temi sono così pervasivi che occorre vederli a 360 gradi.

(Andrea Monti, The Digital Rights Delusion : Humans, Machines and the Technology of Information, Routledge 2023, pag. 188, € 21,29, ISBN 9781032447308 (paperback))
Voto: 5/5

E che gliene importa alla scuola?


Il modulo di iscrizione di mia figlia al liceo artistico (una fotocopia sbiadita salvata in PDF), tra i millanta dati che chiede, vuole sapere il mio titolo di studio e la mia professione. Qualcuno mi sa spiegare il motivo?

(una possibilità potrebbe essere quella di evitare classi ghetto, ma a questo punto preferisco di gran lunga una scelta casuale a una sottospecie di affirmative action di quel tipo)

I Netanyahu (libro)

copertina A giudicare dalle recensioni in rete, il fatto che con questo libro Joshua Cohen ha vinto il Pulitzer 2022 ha fatto rosicare tanta gente. Non c’è dubbio, è un testo politicamente molto pesante e decisamente schierato. Sì, come spiegato nel capitolo finale il libro è liberamente (molto liberamente, mi sa…) ispirato a un aneddoto che Harold Bloom raccontò a Cohen poco tempo prima di morire. Sì, la famiglia Netanyahu non ci fa certo una bella figura: non tanto Bibi quanto padre madre e fratello maggiore, l’eroe ucciso a Entebbe. Ma la storia reggerebbe anche se la famiglia in questione si fosse chiamata chessò Friedman. Come sempre, Cohen mette tanta, tanta roba nel suo libro, dalle scenette di una famiglia ebrea anche se non molto osservante ai discorsi politici sulla diaspora e la nascita dello stato di Israele visti dall’estrema destra, dalla vita nel 1950 in una cittadina universitaria di Upstate New York ai primi segni del consumismo che sarebbe arrivato. Rispetto alle sue opere precedenti però il testo scorre molto più omogeneo, e il lettore non fa fatica a passare dalle risate amare sul direttore di dipartimento ai tentativi della figlia Judy di convincere i genitori a farle rifare il naso. Io mi sono divertito a leggerlo, nella come al solito ottima traduzione di Claudia Durastant, e ho imparato un po’ di cose nuove, che in un’opera di narrativa non è certo scontato.

(Joshua Cohen, I Netanyahu [The Netanyahus], Codice 2022 [2022], pag. 271, € 20, ISBN 9791254500132, trad. Claudia Durastanti)
Voto: 5/5

Mai fidarsi dei fisici che scrivono di matematica

Sto (con calma) leggendo Mondi paralleli di Michio Kaku. Lo so, è uscito quasi vent’anni fa, ma tanto io di cosmologia so così poco che mi sta già bene partire da lì. Arrivato alla fine del secondo capitolo mi sono trovato un esempio mal scritto: sono andato a verificare nella versione originale, ed era già così. (Occhei, io sono della scuola “correggi silenziosamente in traduzione”, ma temo di essere in minoranza).

Parlando delle varie possibili curvature dell’universo, Kaku afferma che in un universo a curvatura negativa “le linee parallele non si incontrano mai”. Ciò è vero, ma non caratterizza affatto uno spazio a curvatura negativa, visto che questo succede anche nello spazio euclideo comune. Kaku avrebbe dovuto scrivere qualcosa come “esistono (infinite) linee complanari non parallele che non si incontrano mai”. Perché non l’ha fatto? Chiaro, perché è un fisico :-)