La preghiera del Padre nostro in latino recita verso la fine “et ne nos inducas in tentationem” (continuando con “sed libera nos a malo”, dove ricordo che non si parla della mela di Adamo ma del male). Considerando il ruolo centrale della preghiera nel cristianesimo, non v’è dubbio che ci sono stati millenni di dubbi su una frase che in italiano era stata resa con “e non indurci in tentazione”. Come? Dio che è così buono si diverte a farci tentare? (Beh, sì, basta leggere il libro di Giobbe)
Dieci anni fa la traduzione italiana CEI della Bibbia aveva rotto gli indugi e ritradotto quella frase come “e non abbandondarci alla tentazione”: ne avevo parlato qui sulle Notiziole che ormai hanno un archivio di una certa importanza personale. Leggo ora da Sandro Magister che i vescovi italiani si riuniranno a novembre per decidere se cambiare la formula recitata o cantata a messa. Magister, che vuole tanto, tanto bene a questo papa, scrive che Francesco dice la versione attuale è “non buona” e vorrebbe quella riformata, ma allo stesso tempo fa scrivere su Civiltà cattolica (“rivista diretta dal gesuita intimo di Francesco, Antonio Spadaro”) a un biblista anch’egli gesuita una traduzione completamente diversa. Secondo Pietro Bovati, infatti, il greco peirasmos (πειρασμός) è più una “prova” (vox media, senza una connotazione negativa specifica) che una tentazione; insomma bisognerebbe tradurre “Non metterci alla prova”.
Io non sono certo un teologo, né tanto meno un grecista. Posso a fatica trattare di latino, e al più aggiungere un riferimento protestante: la Riveduta del 1924 di Luzzi scrive “non esporci alla tentazione”, mentre la Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente sceglie “fa’ che non cadiamo nella tentazione”, lavorando sul verbo eisfero (εισφέρω) e non sul sostantivo. Tra le proposte evangeliche leggo anche un “non farci entrare nella prova” che se da un lato riprende il testo di Bovati risulta dall’altro piuttosto incomprensibile. Una cosa però la posso dire.
Magister termina dicendo
[…] un’ultima avvertenza, di carattere musicale. Le parole: “E non metterci alla prova” si adatterebbero alla perfezione alla melodia classica del “Padre nostro” cantato. Cosa impossibile, invece, per il macchinoso “E non abbandonarci nella tentazione” che è in pericolo d’essere approvato.
Ora, se vi mettete a contare le sillabe scoprirete che “e nòn indùrci / in téntaziòne” è un doppio quinario, mentre “e non métterci / àlla pròva” è un doppio quadrisillabo, con il primo verso per di più sdrucciolo. Come fa a dire che si adatterebbero alla perfezione?