Category Archives: internet e mondo reale

ci sono molte più interazioni di quanto si creda

La dura legge dei cookie

Le avvisaglie si erano già notate un mese o due fa, ma nell’ultima settimana c’è stata un’escalation incredibile. Tutti o quasi i siti mostrano un avviso che spunta sulla pagina e che ci comunica che il sito usa i cookie e se noi vogliamo continuare a stare sul sito dobbiamo accettarli. In effetti non mi è mai capitato di trovare un sito che permetta di rifiutare i cookie e ti lasci continuare la navigazione: non è poi così strano, come vedremo tra poco. Il guaio è che tutta questa storia avrebbe anche una sua logica: peccato che ormai sia diventata non solo inutile ma persino controproducente…

La storia inizia addirittura nel 1994, quando Netscape introdusse i primi cookie per sapere se l’utente era già passato dal suo sito. Il cookie non è altro che un’informazione che viene passata avanti e indietro tra un browser e un sito quando si va a leggere una pagina web, e permette di trasformare quello che inizialmente era un sistema “a domanda, rispondo” in un’interazione vera e propria. (Per la cronaca, Netscape brevettò i cookie, e il brevetto sembra ora essere in mano a Microsoft). Almeno in linea teorica, dunque, i cookie dipendono dal browser usato e dal sito contattato: in pratica le cose sono un po’ diverse, come vedremo.

Si può fare a meno dei cookie? Non sempre, proprio perché diventeremmo come Dory in Alla ricerca di Nemo: ci serve spesso sapere un po’ del nostro passato. I cookie sono tutti uguali? Assolutamente no. Ci sono cookie di sessione, che quando chiudiamo il browser svaniscono nel nulla. Ci sono cookie di autenticazione, che usiamo per esempio quando facciamo acquisti in rete per farci riconoscere. Ci sono cookie analytics, che sono quelli che contano quanta gente è andata a vedere il nostro bellissimo e importantissimo sito senza però tenere a mente chi ci è andato. Ci sono infine cookie di profilazione, che sono quelli usati per farci vedere la cosiddetta “pubblicità mirata” – che poi sembra spesso che prendano la mira ad occhi chiusi, ma tant’è – e quindi mantengono molte, forse troppe informazioni su di noi a nostra insaputa. Peggio ancora, soprattutto questi ultimi cookie possono essere di terze parti; così può capitare che io vada sul sito B e il server sappia che sono stato sul sito A. Non esattamente una bella cosa.

L’Unione Europea, che è sempre stata attenta alla privacy, trattava questi temi già nel 2002(!), e nel 2003 abbiamo avuto il nostro Codice per la tutela dei dati personali. Nel 2009 c’è stato un nuovo pronunciamento UE, nel 2012 e nel 2013 sono state emesse delle linee guida, e finalmente a maggio 2014 il Garante per la Privacy ha emesso la sua sentenza, anche a seguito di una consultazione pubblica dei cui risultati non sono riuscito a trovare traccia, e dando un anno di tempo a tutti per adeguarsi. Ricordo qualche piccolo commento l’anno scorso, ma come sempre ci siamo ridotti all’ultimo momento, sperando sempre che cambiasse qualcosa o almeno che ci fosse qualcuno da cui copiare il codice.

Bene: dal 2 giugno la norma è in vigore, e così abbiamo tutti questi begli avvisi ovunque. Beh, su Facebook io non li ho visti, e su Google nemmeno, a dire il vero; e dire che quelli dovrebbero essere i siti principe che ci profilano. Noi poveri tenutari di blog possiamo fare come Massimo Mantellini, che ha deciso di fare resistenza attiva e non mettere nulla; oppure cercare soluzioni precotte come quelle di Iubenda che almeno tra i miei contatti sembra andare per la maggiore. Io ho scelto una via di mezzo, che dovrebbe seguire le direttive del Garante: in fin dei conti non ho pubblicità e quindi non mi è mai stato necessario profilare gli utenti. In questo caso è permesso evitare di chiedere all’utente di accettare i cookie, e si può semplicemente mostrare l’informativa sui cookie presenti; il plugin Cookie Law Info mi permette di mettere un avviso che dopo un po’ se ne va via da solo e non rompe troppo il visitatore – almeno spero.

Visto che poi il Garante permette la

«possibilità per l’utente di manifestare le proprie opzioni in merito all’uso dei cookie da parte del sito anche attraverso le impostazioni del browser, indicando almeno la procedura da eseguire per configurare tali impostazioni»

ho pensato di inserire nell’informativa un link a questa guida di Salvatore Aranzulla che spiega come si può aprire una sessione del browser per navigare in incognito. In questo modo tutti i cookie vengono cancellati quando si chiude la finestra, e il Garante è contento. La cosa più divertente è che in questo modo probabilmente il numero di visitatori unici misurato dai cookie analytics crescerà, il che male non fa per l’ego dei blogger; anzi forse la cosa più divertente è che la navigazione in incognito viene tipicamente usata… per visitare i siti porno, il che dimostra come questo continui ad essere una delle forze innovative principali per l’umanità.

Una considerazione finale: sono già apparsi script per nascondere gli avvisi sui cookie, rendendoli quindi inutili. D’altra parte, come potete leggere per esempio qui, sono già disponibili varie tecniche per profilare un utente che non usano cookie, e quindi non sono toccate da questa normativa; e ci sono siti come http://fingerprint.pet-portal.eu/ – non metto apposta il link – che come proof-of-concept ti fanno una fotografia della tua utenza… e peggio ancora usando tecniche indipendenti dal browser con cui ti connetti. Insomma, la solita idea magari nata con le migliori intenzioni ma che all’atto pratico è diventata di impiccio solo per chi forse non sapeva neppure cosa succedeva dietro le quinte e certamente non faceva nulla di male con i dati degli utenti, e soprattutto rende la vita più complicata a tutti noi.

Post Scriptum: dopo una discussione su Twitter, mi sono accorto che il Garante avrebbe potuto anche dire che nel caso di semplice obbligo di informativa era sufficiente che l’informativa stessa fosse richiamata dalla home page del sito e/o in una locazione specifica (un po’ come il file robots.txt). Il risultato pratico per il navigatore era lo stesso, e la complicazione per il gestore del sito molto minore…

Aggiornamento: (6 giugno) Il Garante ha aggiunto dei chiarimenti che chiariscono poco – sarebbe stato più comodo avere qualche esempio specifico 🙂

Social Business Forum 2012. E ora?

Milano ha ospitato lo scorso 4 e 5 giugno presso il Marriot Hotel il Social Business Forum 2012, appuntamento organizzato da OpenKnowledge e giunto alla quinta edizione, con un crescente successo di pubblico: quest’anno, tra Free e Premium Conference, i partecipanti iscritti al convegno sono stati 1600. La partecipazione è stata ampia anche tra gli exhibitors – come usuale in questo tipo di convegni, gli sponsor hanno uno spazio a disposizione per presentare le proprie soluzioni ai possibili clienti – e soprattutto c’era un interessante mix tra i “giovani” che probabilmente di socialcosismo ne masticano abbastanza e gli “anziani” che sono quelli che le aziende (unopuntozero…) le devono fare andare avanti e hanno bisogno di capire come farlo al meglio, soprattutto di questi tempi. La struttura delle giornate è stata particolare, considerando che entrambe le mattinate sono state dedicate a keynotes mentre i pomeriggi si dividevano tra i case studies per chi aveva l’iscrizione business e la free conference aperta a tutti. In un certo senso si è dunque perpetuata la dicotomia tra “giovani” e “anziani” a cui accennavo prima.
Detto tutto questo, qual è il commento di un vecchietto come me, che di esperienza di social business ne ha pochina ma se si parla di social networks in generale è sulla breccia da almeno un quarto di secolo? Diciamo che mi sarei aspettato molto di più. Prendiamo l’intervento iniziale, direttamente da OpenKnowledge e che quindi ha dato l’impronta principale alla conferenza: le 59 tesi per il Social Business Manifesto. Avrete già capito che il nome è stato scelto apposta per indicare la volontà di iniziare un cambio di paradigma, esattamente come Lutero fece con le “sue” tesi appese sulla porta della cattedrale di Wittenberg il 31 ottobre 1517; magari siete anche più svegli di me e avete subito capito che il numero 59 non è stato scelto a caso, ma è speculare al luteriano 95. La presentazione è stata molto carina e finanche filosofica: Emanuele Scotti e Rosario Sica che si palleggiavano tesi e antitesi, queste ultime esemplificate da spezzoni di film o più in generale di video che mostravano appunto come non si dovevano fare le cose. Però il matematico che c’è in me ha subito rabbrividito leggendo la prima tesi, insomma quella principe: «Il caos è una semplicità che non siamo ancora riusciti a vedere.» Bella frase. Frase sicuramente a effetto. Peccato che sia essenzialmente sbagliata, anche se magari letteralmente corretta. Chi ha davvero letto qualcosa della teoria del caos, sa che il vero concetto è esattamente l’opposto: le leggi che creano il caos possono essere semplici, ma conoscere le leggi non ti permette comunque di ricavare il risultato, che è caotico per definizione.
Fuor di metafora, la mia sensazione è che oramai chi fa comunicazione ha abbastanza chiaro quali potrebbero essere i vantaggi di un approccio sociale ai processi aziendali, e il concetto sta lentamente percolando anche su chi è a capo delle aziende. Quello che manca, o almeno io non sono ancora riuscito a vedere, sono però soluzioni davvero funzionali e funzionanti. Un esempio che è sicuramente saltato agli occhi di tutti i twitteristi è stato per esempio #meetFS. Ferrovie dello Stato, per volontà credo diretta dell’amministratore delegato Mauro Moretti, ha pensato bene di radunare un certo numero di VIB (Very Important Blogger, ma mi dicono che adesso il termine da usare è “influencer” per raccontare loro cosa sta facendo il gruppo, spiegare la differenza tra le varie aziende che lo compongono e via discorrendo. Il tutto avrebbe dovuto portare a molto traffico: non tanto per i post dei singoli blogger quanto per lo sciame di twit correlati. Qual è stato il risultato pratico? Lo sciame c’è stato, ma era quello di un gran numero di vespe che vedendo l’hashtag vi si sono subito accodati per ribadire quello che sanno tutti coloro che hanno la sventura di viaggiare con il trasporto ferroviario regionale. Moretti magari ha anche ragione a dire che il trasporto locale è pagato dalle regioni, e se sono le regioni a non mettere i soldi loro possono farci poco; in ogni caso il messaggio però non è certo passato. Ma torniamo a #smb12.
La tesi che Scotti e Sica basano su un loro studio, che cioè l’adozione delle tecnologie collaborative è in forte crescita (si raddoppia, anche triplica rispetto all’anno scorso), con i dipendenti che ormai si aspettano i social tool e una serie di benefici in tutto l’ecosistema aziendale, è direi condivisibile. Che il tutto generi anche valore in marketing, operazioni, innovazione pure. Comincio a scuotere la testa quando però balzano alle conclusioni, che applicando le tecniche social si arriva a una nuova organizzazione che potremmo chiamare “connected enterprise”. Non perché non possa essere vero, ma perché la logica conseguenza di ciò è che il middle management come lo intendiamo fino ad ora non esisterebbe più, e dovrebbe totalmente reinventarsi. Sì, ci sarebbe sempre un middle management. Banalmente, su dieci idee che arrivano dal basso ne funziona sì e no una. È vero che cinque di quelle idee vengono già cassate direttamente dal basso, il mondo social è bravo a trovare velocemente i punti deboli evidenti e lo fa molto più in fretta di una singola persona; ma i punti deboli non evidenti sono sono così facilmente notati, e soprattutto non si può chiedere a un semplice dipendente di avere una visione ampia di tutta l’azienda perché altrimenti non sarebbe un semplice dipendente ma un dirigente o almeno un funzionario. Ma vi rendete conto della difficoltà di riciclare in qualche modo i capetti? Per me è impossibile. E finché non ci si rende conto di questa impossibilità non si andrà mai troppo avanti: i muri di gomma sono fatti così.
L’altra cosa che ho notato – ma qui magari sono stato sfortunato e ho seguito le sessioni sbagliate – è che quasi tutti gli intervenuti, oltre a essere pronti a elogiare le proprie soluzioni sociali “since 2011”, tendevano a concentrarsi sul customer care: un buco nero aziendale, ne parlavamo anche sopra a proposito di Trenitalia, ma un modo riduttivo di vedere le cose. Pochi si sono addentrati nella gamification; ancora meno sull’usare tecniche social all’interno dei processi aziendali, e non verso il pubblico; nessuno che abbia anche solo provato a parlare di ricerca e sviluppo social. Anche in questo caso, è vero che nel breve periodo probabilmente è dal customer care che si ottengono i maggiori risparmi; ma proprio la delicatezza delle soluzioni proposte dovrebbero rendere più cauti gli innovatori… senza contare che non di solo social vive l’azienda. Quando Leonardo Mangiavacchi, il responsabile Customer Operation Mobile Telecom Italia, ha cominciato a spiegare che dopo la prima fase di ingresso in Facebook e Twitter ora ci si sta riorganizzando per evitare che ci siano tecnici fissi su un singolo canale, Emanuele Quintarelli che moderava la tavola rotonda ha chiesto che si rientrasse in tema. Eppure la mattina stessa John Hagel aveva mostrato come la gente (gli utenti, i clienti) non sono mica incollati a un singolo mezzo per comunicare! Tutti noi usiamo Facebook, LinkedIn, Twitter e a seconda di dove ci troviamo cambiamo modo di comunicazione, e non facciamo fatica ad adeguarci al mezzo. Perché non si dovrebbe fare la stessa cosa per rispondere a una richiesta? A seconda di come la cosa prosegue si potrebbe cambiare canale; volete mica cambiare anche operatore?
In definitiva, iniziative come il Social Business Forum hanno indubbiamente un loro perché, ma non danno ancora risposte chiare e complete (non dico definitive, nulla è definitivo!). Speriamo nel 2013, Maya permettendo!

Fotografare i monumenti: sembra facile!

Non fate finta di niente: lo sapete anche voi che l’anno inizia il primo settembre, e non a Capodanno. Quest’anno addirittura il centro-nord ha avuto i famigerati temporali-di-fine-estate in ritardo, e così anche le condizioni meteorologiche hanno segnato il passaggio al nuovo ciclo annuale.
Anche nel mondo di Wikipedia settembre sta diventando un mese importante: quello di Wiki Loves Monuments, che in soli tre anni si è trasformato da un’iniziativa olandese a un concorso europeo prima e mondiale adesso. L’edizione 2012 vede per la prima volta partecipare anche l’Italia: avete tempo fino a fine mese per caricare le vostre foto dei monumenti in concorso, seguendo le regole qui indicate. Niente di complicato: la partecipazione è libera e gratuita, e gli unici vincoli sono di usare un indirizzo email valido per essere contattabili e di rilasciare le immagini con una licenza libera, la CC-BY-SA che permette a chiunque di riutilizzare l’immagine, anche modificata e/o per uso commerciale, purché l’autore originale venga citato e si lascino gli stessi permessi. Un’immagine vale mille parole, dicono: questo vale anche per Wikipedia, sia perché la stessa immagine può essere usata nelle pagine di tutte le lingue in cui è scritta l’enciclopedia che perché è più improbabile che un’immagine sia tacciata di punto di vista non neutrale (sì, può capitare, ma bisogna mettercisi di buona lena)
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La proprietà è un furto. Ma chi è che ruba?

Stamattina il Corriere della Sera ha pubblicato un bell’articolo di Massimo Sideri, che ha anche avuto l’onore dell’incipit in prima pagina, a proposito delle nuove regole d’uso di Twitter; le cosiddette ToS, Terms of Service. Sideri nota come c’è sì scritto che «ciò che è dell’utente resta dell’utente», ma continuando a leggere si scopre (a) che Twitter non vi pagherà mai per i vostri tweet, e (b) che la società potrà poi fare di essi quello che vuole, tipicamente farci soldi lei. Voi che pensate di tutto questo? Io una mia idea, non necessariamente simile a quella che trovate in certe catene di status che potete leggere su Facebook, ce l’ho.
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Oscar Giannino, Mycroft Holmes e fact checking

Ieri la notizia ha avuto una discreta diffusione: Luigi Zingales, cofondatore di “FARE per fermare il declino”, ha pubblicamente affermato di lasciare il movimento, dopo aver scoperto che Oscar Giannino, il suo esponente più in vista, aveva millantato un master presso la Chicago Booth University: master che a quanto pare non è mai stato conseguito. Oggi la notizia è ripresa in prima pagina da due quotidiani nazionali – non nomino le testate, ma se avete presente che tra cinque giorni si vota potete immaginare da soli quali siano. Quello di cui non si sente parlare, e su cui voglio fare alcune riflessioni, è la fonte probabilmente principale che ha fatto partire la valanga che è cascata su Giannino: e questo, come vedrete, la dice lunga su tante cose.
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Ognuno al suo posto

Il bello dell’Internet è che nel calderone della rete possono improvvisamente spuntare notizie che non sono state lette al momento della loro pubblicazione, ma che possono essere tranquillamente commentate dopo mesi perché non sono “di moda” e quindi si può ancora fare un commento senza venire immediatamente tacciati di gerontofilia. L’articolo in questione è stato pubblicato lo scorso luglio dal Corsera, ed è intitolato Quando il lettore (e non il critico) certifica la qualità del libro; si racconta di come Einaudi abbia riportato nella quarta di copertina di un suo libro il giudizio (anonimo) che una lettrice aggiunse su Amazon. Il mio giudizio critico usa le parole che avrebbe detto Ezio Greggio: “tavanata galattica”. Ma non essendo io Greggio, mi metto anche ad argomentare.
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Minacce, diffamazione, oblio, web. Come trovare una quadra

La scorsa settimana, dopo le minacce arrivate per email al Presidente della Camera Laura Boldrini e all’intervista a Repubblica che è seguita, sembrava che stesse per arrivare una legge speciale per i reati che avvengono via web. Qualche giorno dopo Boldrini ha affermato di essere stata fraintesa – tra l’altro, quand’è che si riprenderà la buona abitudine di dire “non sono stato capace a spiegarmi bene”? perché la colpa dev’essere sempre di chi ascolta? – ma intanto la discussione c’è stata eccome, e io che ho imparato dal buonanima di Giulio Andreotti che a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca spesso non vorrei che tutto questo fosse un ballon d’essai per fare davvero accettare all’opinione pubblica l’idea che la Rete debba essere strettamente regolamentata: il perché dell’avverbio lo spiego dopo. Potete leggere un’analisi molto articolata di Fabio Chiusi sui pericoli insiti in questa deriva; io preferisco cambiare punto di vista.
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La regola 90-9-1

Su, per questa volta parlo di Wikipedia solo di striscio! La regola che dà il titolo a questo post è infatti molto più generale, e probabilmente anche falsa. Per partire, tanto per cambiare, affidiamoci a Wikipedia stessa, che racconta come nel 2006 Ben McConnell e Jackie Huba hanno coniato il nome “regola dell’1%” per segnalare come in una comunità solamente l’un percento dei membri contribuisce attivamente, mentre gli altri se ne stanno lì a guardare e sfruttare i contenuti: in inglese si parla di lurker. La regola è stata poi affinata aggiungendo un ulteriore livello: non si parla solo di lurker e contributori, ma questi ultimi sono a loro volta suddivisi in Veri Contributori che in effetti creano nuovo materiale e Aiutanti Contributori che si limitano a fare modifiche minori a quanto creato dai Veri Contributori. Questa tripartizione ha finalmente fatto nascere la regola di cui al titolo del post: il 90% di chi accede a un sito collaborativo non collabora per nulla, il 9% fa qualcosina, l’1% si fa il mazzo.
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