La proprietà è un furto. Ma chi è che ruba?

Stamattina il Corriere della Sera ha pubblicato un bell’articolo di Massimo Sideri, che ha anche avuto l’onore dell’incipit in prima pagina, a proposito delle nuove regole d’uso di Twitter; le cosiddette ToS, Terms of Service. Sideri nota come c’è sì scritto che «ciò che è dell’utente resta dell’utente», ma continuando a leggere si scopre (a) che Twitter non vi pagherà mai per i vostri tweet, e (b) che la società potrà poi fare di essi quello che vuole, tipicamente farci soldi lei. Voi che pensate di tutto questo? Io una mia idea, non necessariamente simile a quella che trovate in certe catene di status che potete leggere su Facebook, ce l’ho.
Innanzitutto, ricordo una differenza di base che non sempre è nota: quella tra copyright e proprietà intellettuale. Quest’ultima significa semplicemente – beh, nemmeno tanto semplicemente – che il diritto di dire “questo l’ho creato io” esiste ed è inalienabile; nessuno può prendere una cosa che hai fatto tu e affermare che l’ha fatta lui. Insomma, quello che Twitter rende come «ciò che è dell’utente resta dell’utente». Copyright è invece l’insieme dei diritti di sfruttamento delle cose che si è fatto, cioè chi e come può usarle. Uno può dire “fatene pure ciò che volete”, e allora si dice che l’opera è nel pubblico dominio; può dire “non potete farci nulla se prima non vi do l’ok”, e allora abbiamo il classico “© – tutti i diritti riservati”; può dire “usatelo pure, ma solo se non ci fate soldi su e lo lasciate intatto”, e abbiamo la licenza Creative Commons CC-BY-NC-ND (ce ne sono tante altre di licenze CC, ma qui sto semplificando); può cedere, cioè vendere, i diritti commerciali a qualcun altro. Il libro che ho scritto, per esempio, è © Vallardi Editore, non © Maurizio Codogno; ho fatto un contratto, Vallardi riconosce che il libro è mio (proprietà intellettuale…) e mi ha dato dei soldi per poter poi avere tutti i diritti di venndita del testo (copyright…).
Wikipedia è uno dei possibili modelli di sfruttamento della vostra proprietà intellettuale. La proprietà intellettuale di quanto viene aggiunto è esplicitamente dell’autore, tanto che quando si modifica una voce appare un bell’avviso grosso e rosso che chiede se è proprio farina del nostro sacco e non invece copiata da qualche parte; addirittura, se vogliamo inserire qualcosa di nostro già pubblicato altrove (non parlo delle cose sfacciatamente promozionali che vengono cancellate e basta, ma di informazioni effettivamente enciclopediche) occorre dichiarare esplicitamente di avere i diritti di sfruttamento commerciale di quel testo, inviando tale dichiarazione a uno specifico indirizzo di posta elettronica. Questo perché il materiale contenuto in Wikipedia ha un copyright secondo la licenza CC-BY-SA, il che significa che il testo può essere riusato a piacere anche in opere commerciali, e pertanto occorre che noi possiamo cedere questi diritti.
Il modello di Twitter, ma anche di Facebook se per questo, è ben diverso. Twitter è una società commerciale: i soldi da qualche parte li deve pur fare, e li vuole fare appunto con i nostri twit. Dal mio punto di vista non c’è nulla di male: nessuno mi obbliga a usare il servizio, e a me sta bene regalargli le sciocchezze che scrivo, fintantoché restano intestate a me e possa comunque riutilizzarle come mi pare. Se andate a leggere il testo delle ToS, all’articolo 5 trovate la frase (grassetto mio)

«By submitting, posting or displaying Content on or through the Services, you grant us a worldwide, non-exclusive, royalty-free license (with the right to sublicense) to use, copy, reproduce, process, adapt, modify, publish, transmit, display and distribute such Content in any and all media or distribution methods (now known or later developed).»

Insomma, patti chiari amicizia lunga? Non proprio. C’è un altro punto che generalmente sfugge, ed è strettamente correlato a un tema di cui ogni tanto si sente parlare (a sproposito…): il diritto all’oblio. E se io volessi cancellare un mio tweet? Non posso. O meglio, posso cancellare il mio tweet, ma Twitter potrà continuare ad usarlo, come si può leggere nel quarto comma dell’articolo 10:

«In all such cases, the Terms shall terminate, including, without limitation, your license to use the Services, except that the following sections shall continue to apply: 4, 5, 7, 8, 10, 11, and 12.»

Diciamo che questa clausola mi pare molto più pericolosa, in linea di principio, della possibilità di Twitter di fare soldi con quello che ho scritto. Una volta le cose erano molto più semplici: quando fare una copia era un procedimento costoso bastava stabilire che non era più possibile fare nuove edizioni, lasciando la possibilità di commercializzare quelle vecchie. È capitato qualcosa del genere con le opere di Pirandello, che per un breve periodo sono state nel pubblico dominio prima che la durata del copyright venisse allungata a 70 anni dopo la morte dell’autore. Gli editori che avevano pubblicato opere pirandelliane prima del prolungamento del copyright hanno potuto continuare a venderle, ma senza farne nuove edizioni fintantoché il copyright non fosse nuovamente scaduto. Ma nel caso di Twitter non pare proprio essere così: se io oggi cancello un mio twit di un minuto o due anni fa, per quanto ne posso sapere l’azienda può tranquillamente rimetterlo in circolo anche tra sette anni, mentre io sarò sicuramente impegnato nella campagna per diventare Presidente della Repubblica italiana. Simpatico scenario, vero? Peggio ancora naturalmente su Facebook, con tutte le foto allegramente caricate, di cui ci si è completamente dimenticati, e che poi vengono scrutate dai nostri possibili futuri datori di lavoro, che potranno decidere di non diventare affatto nostri datori di lavoro. Su Wikipedia la cosa è ancora diversa: il mio spirito di enciclopedista non ammette di eliminare informazioni fattuali, ma riconosce per esempio che Eritreo Cazzulati ha tutti i diritti di vedere scritto, a fianco della notizia che è stato rinviato a giudizio per abigeato, che il giudice ha sentenziato la sua completa estraneità ai fatti.
Come potete vedere, in questo campo non è spesso facile distinguere i vari temi che si accavallano: a volte per precisa volontà di chi ha tutto da guadagnarci nel fare un unico pastone, altre volte per oggettiva scarsa nostra conoscenza. Da questo punto di vista, l’ultimo libro di Franco Bernabè è sicuramente interessante (no, non è una marchetta, giuro). Si può non essere per nulla d’accordo con la visione del presidente esecutivo Telecom, ma leggendolo ho molto apprezzato la sua scelta di esplicitare i vari temi in gioco in Libertà vigilata, facendo anche presente la differenza nella gestione di privacy e contenuti tra l’Europa e gli USA. Una persona informata è una persona che può fare delle scelte, non che “sceglie” quello che gli fanno scegliere!

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