Chiacchiere e distintivi

E quindi è stato riformato per l’ennesima volta l’esame alla fine delle superiori. Meno commissari, così si risparmia. Niente percorsi multidisciplinari, ma quattro materie per l’orale (e mi stupisco non ne vengano poi scelte due, come ai miei tempi). Ma soprattutto… (rullo di tamburi) la Vera Novità: chi farà volontariamente scena muta agli orali sarà bocciato.

Non è che gli esempi riportati dalla stampa quest’estate mi abbiano detto chissà che cosa. Banalmente, mostrano che c’è stata una persona che si è resa conto che uscire con 65/100 oppure 80/100 non avrebbe fatto alcuna differenza, e a questo punto ha deciso di togliersi uno sfizio e arrivare almeno sui giornali, dopo aver contattato un giornalista. Poi c’è stato qualcun altro che ha copiato. Evidentemente nell’esame così congegnato c’era qualcosa che non funzionava, ma il ministro non ha cercato di capire cosa e si è limitato a mostrare il suo distintivo e sanzionare quello specifico comportamento. Mi aspetto ora che qualcuno si preparerà la performance 2026 rispondendo alla prima domanda e poi salutando la commissione (non facendo così scena muta), oppure dando risposte situazioniste a tutte le domande (idem). Il tutto sempre con copertura mediatica, dimostrando che l’unica utilità “soluzione” valditaresca consiste nel fare la conferenza stampa e fregiarsi dei risultati: a pensarci bene, nulla di tanto diverso da quanto hanno fatto quegli studenti.

Ah, sì: ancora due cose. Valditara ha annunciato con Gran pompa che ci saranno 240 milioni per gli stipendi degli insegnanti: peccato che siano una tantum. E l’esame non si chiamerà più esame di Stato, ma… esame di maturità. Il vecchio che avanza.

Prese per i fondelli

Il mio conto corrente è su una banca dove la mia azienda ha una convenzione per cui non pago spese di conto. Ma nonostante tutti gli utili che in questi anni le banche stanno facendo (per dire, l’utile nel primo trimestre della mia banca è stato di due miliardi, il miglior risultato da 14 anni) si vede che la cosa non basta. Però non possono appunto introdurre un canone… e così si sono inventati le “Spese annue per conteggio interessi e competenze”, cioè una formula da applicare (formula teorica nel caso degli interessi, che sono zero). Semplice, no?

Davvero italianità?

L’altro giorno mi è capitato su Twitter un post dell’europarlamentare leghista Anna Cisint, che scrive

«Ho ritenuto doveroso scrivere al Presidente Mattarella per esprimere il profondo disorientamento dell’Unione degli Istriani di fronte all’ipotesi di cessione, nel corso della sua prossima missione in Slovenia, dell’opera d’arte “Madonna con il Bambino”, oggi custodita a Padova. Si tratta di un simbolo identitario per il popolo istriano, che ne rivendica l’appartenenza morale.»

Non sapendo nulla della storia, ho fatto qualche ricerca. La pala del Carpaccio è stata dipinta nel 1518 per la chiesa di San Francesco a Pirano, della Provincia religiosa del Santo, che al tempo corrispondeva ai territori della Repubblica Veneta corrispondenti alle Tre Venezie. Nelle tante divisioni e riunioni dei francescani la chiesa è rimasta ai Frati Minori Conventuali. Arriviamo alla seconda guerra mondiale: come spiega Finestre sull’Arte, la pala viene spostata a Villa Manin a Passariano di Codroipo assieme a molte altre opere. Nel 1943, dopo l’armistizio, le opere vennero restituite ai legittimi proprietari, ma per la pala ciò non fu possibile perché l’Istria era diventata zona di operazione speciale tedesca e le SS avevano imprigionato i frati: a questo punto essa venne lasciata in custodia ai frati minori conventuali a Padova (dal Santo); quando finalmente in Jugoslavia il complesso di Pirano tornò ai frati, la provincia religiosa patavina cominciò a chiedere ai governi italiano e sloveno di poterla far tornare al suo luogo originario, cosa che è avvenuta ora, come raccontano anche i frati dell’attuale provincia del Nord Italia.

Rileggiamo la storia: non ci fossero stati i nazisti in Istria, la pala nel 1945 sarebbe stata a Pirano e lì ci sarebbe restata, a meno che qualcuno degli esuli l’avesse trafugata. Il “valore simbolico” per gli istriani non c’era, tanto che per decenni l’opera era rimasta nei magazzini del Santo. Tutto questo l’onorevole Cisint lo sa? (probabilmente sì, ma la cosa è irrilevante)

È settembre

Lunedì sono rientrato in ufficio, dopo tre settimane di ferie. Mi sono avviato alla macchinetta del caffè, ho aperto l’app, cercato di connettermi… niente da fare. Provo ad andare alla macchinetta dell’altro piano: idem. Mi stufo, tiro fuori il badge da esterno e vado al bar Fibercop nell’altra parte del complesso. Anche i miei colleghi confermano: la macchinetta (che a quanto pare è stata cambiata) non funziona né con la chiavetta né con l’app, ma solo con le monete. Poi nel pomeriggio il collega mi offre un caffè, e a lui l’app funzionava. Bene, mi dico, è settembre anche per le macchinette.
Stamattina sono arrivato in ufficio, mi connetto: di nuovo nulla. Non ci sto a pensare troppo e me ne vado al bar “interno ma non per noi”. Dopo pranzo ritorno e funziona. Ma a questo punto mi viene in mente che però non avevo usato il codice salvato “per la macchinetta preferita” ma avevo scansionato il QRCode: e in effetti essendo la macchina diversa il codice era diverso.

(Ora devo solo ricordarmi che il default di zucchero in questa macchinetta è zero, e non “medio” come in quella precedente. Ce la posso fare)

tf–idf

Non avevo mai sentito parlare di questa funzione, il cui nome completo è “term frequency–inverse document frequency”. Eppure è una funzione del tutto naturale nel caso si voglia trovare documenti “simili” a quello di partenza in una collezione di testi.

L’idea sottostante è a posteriori ovvia. Se ho un documento in cui una parola appare molto spesso, altri documenti in cui questa parola compare spesso dovrebbero essere simili. Ma ci accorgiamo subito che questa euristica non funziona: connettivi come “che”, “perciò” oppure articoli e forme dei verbi ausiliari appariranno spesso in praticamente ogni documento. La funzione tf-idf relativa a una parola P tiene conto di tutto questo: è direttamente proporzionale alla probabilità che P appaia nel testo, ma inversamente proporzionale alla probabilità che P appaia nella collezione completa di testi. In altri termini, la funzione assume un valore tanto maggiore quanto la parola è in genere meno usata rispetto a quanto lo sia nel testo iniziale; una parola usata sempre più o meno allo stesso modo ha i due fattori che si elidono a vicenda.

In formule, abbiamo che tf-idf è il prodotto di due funzioni: tf, la frequenza del termine nel nostro documento, e idf, l’inverso della frequenza in tutti i documenti. Più precisamente,

$$\mathrm{tf_{i,j}} = \frac{n_{i,j}}{|d_j|},$$

dove $n_{i,j}$ è il numero di occorrenze del termine $i$ nel documento $j$ e il denominatore (il numero di parole nel documento) serve per perequare i valori per i documenti di lunghezza variabile, e

$$\mathrm{idf_{i}} = \log_{10} \frac{|D|}{|\{d: i \in d\}|},$$

dove $|D|$ è il numero di documenti nella collezione e al denominatore c’è il numero di documenti che contengono il termine $i$. (Per definizione ce n’è almeno uno, altrimenti non calcoleremmo idf, e quindi il denominatore non può mai essere nullo).

Il tutto funziona? Diciamo che funzionicchia. Già il concetto di idf è più euristico che altro, perché applica la legge di Zipf che come sappiamo non è scolpita nel granito; e visto che a quanto pare le raccomandazioni di libri simili nelle librerie online pare basarsi anche su tf-idf direi che ci sono ampi margini di miglioramento. Secondo Wikipedia in inglese la formula è stata anche applicata in altri campi, con risultati deludenti. Però è sempre meglio una cattiva formula che nessuna formula, e spesso si può usare il sistema “al rovescio”, per esempio cercando di scoprire se alcune delle lettere paoline siano o no state effettivamente scritte dall’apostolo. L’idea è che in questo modo brutale non si può riconoscere lo stile ma almeno si verifica che la terminologia non sia cambiata troppo, e si ha un punteggio numerico e non una sensazione come si faceva un tempo. Insomma, è comunque una freccia all’arco dei filologi.

Parlo di pi greco al Circolo Filologico Milanese

Forse vi ricordate che a gennaio avevo parlato di trigonometria al Circolo Filologico Milanese (Via Clerici 10 – Milano: è a quattro passi dalla Scala).

Sabato prossimo alle 15 apro la stagione 2025-26. Questa volta parlo di pi greco, cosa che dovrebbe riuscirmi abbastanza facile visto che ci ho scritto su un libro (il link è quello del mio referral Amazon). Ma non si sa mai.

Con quella faccia da straniero

Sabato Anna e io siamo andati a visitare il Duomo di Milano (devo dire che il battistero e Santa Tecla, sotto il sagrato, sono molto più interessanti che il duomo stesso, che è un tantino esagerato). Bene: sia al controllo col metal detector all’ingresso del duomo che al Duomo Shop dove siamo entrati per chiedere dov’era il museo del Duomo mi hanno parlato in inglese. Quando ho detto alla guardia che poteva tranquillamente parlare in italiano, mi ha risposto “eh, ma il 99% della gente è straniera”.
Occhei, sabato avevo una maglietta Wikipedia che quindi non mi qualificava come italiano (ieri per esempio ne avevo una dei giochi matematici, e lì la mia nazionalità sarebbe stata più chiara). Ma ho così l’aria di uno straniero? Anche a Milano? (A Firenze mi è capitato quasi sempre anche quando chiedevo qualcosa, ma lì in effetti non parlo in vernacolo…)