Quattro nuovi messaggi (libro)

Questi quattro racconti lunghi scritti da Joshua Cohen qualche anno prima del successo del Libro dei Numeri sono piuttosto difficili da classificare. In un certo senso, tranne in parte l’ultimo, sono tutti centrati su di lui, o meglio su uno scrittore che sta facendo introspezione su ciò che è e ciò che vorrebbe fare. Il guaio è che Cohen è un funambolo con le parole (e la povera Claudia Durastanti ha dovuto fare un lavoraccio per renderlo così bene in italiano): il povero lettore si perde nelle divagazioni, e quando la trama ritorna brutalmente al punto di partenza uno si ritrova davvero spaesato. Tra i quattro racconti (o forse sono cinque, perché non ho mica capito quale sia il filo conduttore tra “Il letto” e “Com/Moc”, o meglio quello che ho visto è molto esile) quello che mi è piaciuto di più è “Quartiere universitario”, dove il narratore racconta di come qualche decennio prima uno scrittore che aveva pubblicato un bestseller ma non riusciva a scrivere un seguito passò un anno sabbatico a insegnare letteratura nell’università spersa in mezzo al nulla. In realtà il progetto di quell’anno fu tutta un’altra cosa: ma andando avanti nella lettura si scopre come il professore fosse davvero capace di leggere dentro le altre persone, e far tirare loro fuori la vera vocazione. Il libro merita anche solo per questo racconto.

(Joshua Cohen, Quattro nuovi messaggi [Four New Messages], Codice 2021 [2012], pag. 220, € 18, ISBN 9788875789565, trad. Claudia Durastanti)
Voto: 3/5

Le primarie del PD

Comincio subito a dire che non riesco a capire la logica di scegliere il segretario di un partito (che ha le sue sezioni, e quindi i militanti) con una votazione tra tutti quelli che vogliono sganciare du’ euro. Ma contento il PD, contenti tutti.

Da osservatore molto esterno, a parte l’interesse pressoché nullo per la tenzone, non riesco esattamente a comprendere la differenza tra un candidato che ha fatto tutta la sua onesta carriera da apparatnik e una candidata che non l’ha fatta ma è comunque appoggiata dall’apparato (Franceschini in primis, ma non solo). Però evidentemente non sono addentro a queste cose.

Quanti refusi ci possono essere in un libro?

Chiunque abbia scritto un libro sa perfettamente che il numero di refusi è sempre notevole, anche se al giorno d’oggi almeno gli errori più marchiani vengono segnalati dal correttore ortografico. Quello che è peggio è che quando si dà in giro il manoscritto da controllare, la gente trova i refusi, ma capita sempre che persone diverse ne trovino di diversi: in pratica non si può essere certi che siano stati trovati proprio tutti. (Per amor di precisione, la mia esperienza dice che si può essere certi che ne siano rimasti). Ma si può avere una stima di quanti siano gli errori sfuggiti ai correttori di bozze? Certo.

Supponiamo che in un manoscritto ci siano n refusi, e che sia letto da due persone che ne abbiano trovato una percentuale pari rispettivamente a p e q. Se facciamo l’assunzione che le due persone abbiano letto indipendentemente il testo (e questo lo possiamo sperare) e che la probabilità che trovino un singolo refuso sia indipendente (e qui non ci giurerei, leggete dopo), allora il primo avrà trovato np refusi, mentre il secondo nq. I refusi trovati da entrambi saranno allora npq, per l’ipotesi di indipendenza del singolo refuso. Il rapporto tra i refusi trovati per esempio dal primo lettore e quelli trovati da entrambi sarà pertanto 1/q; da qui e dal numero di refusi trovato dal secondo lettore possiamo avere una stima del numero totale di refusi.

In questo bel sistema teorico c’è un punto debole. Alcuni refusi a mio parere sono così eclatanti che nessuno può fare a meno di trovarli, e quindi il numero stimato dal processo qui sopra sovrastima il totale. È possibile fare di meglio? Probabilmente un esperto in statistica avrebbe una risposta esatta; io mi limito a fare un ragionamento euristico. Aggiungiamo un terzo lettore, ed eliminiamo dal computo totale i refusi che sono stati trovati da tutti e tre; poi prendiamo i primi due e rifacciamo il conteggio del numero stimato di refusi, ricordandosi poi di aggiungere quelli che abbiamo tolto all’inizio. In questo modo abbiamo una sottostima, perché alcuni dei refusi sono stati trovati da tutti solo per caso; otteniamo così una forchetta migliore del singolo dato di prima.

Però sappiate che i refusi in un testo sono sempre più di quanti se ne sono trovati!

Google Foto e le posizioni stimate

Nella sua infinita saggezza, Google stanotte mi ha mandato un messaggio di cui vedete qua la parte principale. In pratica, «Google Foto stima la tua posizione in base a informazioni quali i punti di riferimento rilevati nella foto e le posizioni nelle altre tue foto.» Insomma, qualcuno si è accorto che – anche dopo che Google Location è stato disaccoppiato da Google Foto – la Grande G indicava comunque nelle foto dove ti trovavi.

Io sono abbastanza certo di lasciare le opzioni di geolocalizzazione sul telefono, e quindi le mie foto dovrebbero avere comunque i dati; ma quella è ovviamente una scelta mia. Altra cosa ovvia è che se si prende una foto con un qualche punto di riferimento e la si dà in pasto a un sistema automatico quello riesce a capire dove ti trovi. Devo dire però che non mi piace il principio che a Mountain View usino anche le posizioni delle altre foto. Il fatto che nella sua infinita bontà Google segnali che le vecchie immagini vedranno – almeno ufficialmente – cancellate quelle informazioni secondo me significa solamente che c’è stata qualche sentenza dell’Unione Europea che li ha costretti a fare così: altrimenti non si capirebbe perché nelle opzioni la geolocalizzazione di quel tipo è stata lasciata in ON… Vabbè, sapevàtelo!

Ma quali agganci aveva Augusta Montaruli?

Io sono tendenzialmente garantista. Almeno fino a che non c’è una condanna in primo grado non credo che una persona debba rinunciare anche solo a candidarsi. Quello che però non riesco a capire è come a fine 2022 il governo Meloni abbia dato il posto di sottosegretaria a una persona che era condannata in primo, secondo e quarto grado (al primo giro, la Cassazione aveva rinviato in appello, ma poi il risultato finale non è cambiato più di tanto). Misteri della politica.

Superbonus: superstop

Lo stop totale al superbonus, compreso il negare la possibilità agli enti locali di acquistare questi crediti, era praticamente un atto dovuto, vista la quantità di soldi che era stata buttata in questi anni. Però, come fa implicitamente notare Radio Popolare, c’è un punto che non torna. In pratica, quello che è successo con il superbonus è più o meno quello che ormai capita con l’economia: non si parla più tanto di cose fatte, ma di soldi (virtuali) scambiati più e più volte. In questo momento infatti il vero problema è che le banche sono pieni di questi crediti d’imposta e non possono più prendersene degli altri, e da qui si è bloccato tutto. Non è che forse stiamo sbagliando a misurare lo stato di un’economia con un indice – il PIL – che è per definizione drogato?

Le spunte blu a pagamento

Per quello che mi riguarda, il fatto che dopo Musk anche Zuckerberg abbia affermato di volere introdurre le spunte blu a pagamento (rectius: come abbonamento) è un non problema. Quanta gente tra i pochi che vedono i miei post e tweet sono davvero interessati a sapere che io sono colui che dico di essere? E se mi rallentassero il flusso e mi riducessero i messaggi dei non bluspuntati, chi mi impedirebbe di lasciare definitivamente quei socialcosi? E tutto questo dovrebbe valere per la maggior parte degli utenti, non solo per me. La metafora della rana nell’acqua che si scalda lentamente è ben nota, ma sono certo che i due sanno che non bisogna esagerare.

Certo, qualcuno che sarà costretto a pagare c’è: tutti quelli che pensavano di poter avere una vetrina gratuita per i loro affari, e che adesso scoprono che non c’è un pasto gratis. La scelta era stata loro, le conseguenze pure.

Il politically correct colpisce anche Roald Dahl

Il Guardian ci racconta di come l’editore ufficiale dei libri di Roald Dahl, insieme alla Roald Dahl Story Company, stia silenziosamente cambiando il linguaggio dei suoi libri, per assicurare che “possano continuare a far divertire tutti”. Potete vedere qualche esempio nell’immagine qui a fianco, presa da Twitter.

Ora, se gli Oompa Loompa diventano “small people” anziché “small men” posso anche sopportarlo, perché non mi cambia nulla nel corso della storia. Ma Augustus Gloop è ciccione, “fat”; se lo chiami “enormous” non si capisce perché poi si comporti in quel modo nella fabbrica di cioccolato. Oppure tutta la spiegazione sulle parrucche che possono essere portate per tutta una serie di motivi non ha nessun senso nella trama del libro, e tra l’altro non dà nemmeno un’idea al supposto giovane lettore dei motivi. Ma soprattutto, Dahl scriveva in un certo modo non solo perché certi termini erano usuali, ma proprio perché quello era il suo stile di scrittura. Perché mai si sente il bisogno di bowdlerizzarlo?

(Gli unici casi in cui posso accettare una cosa del genere sono quelli in cui un termine ha cambiato significato. Il mio amico Adam Atkinson commentava che The Island of Adventure di Enid Blyton ha visto tutte le occorrenze di “queer” cambiate in “odd”. Ma in effetti, come don Giobbio ci insegnò al liceo dai salesiani, al tempo la parola non era affatto associata agli omosessuali ma era semplicemente un altro modo per dire “strano”. Se uno non lo sa, non capirebbe il contesto…)