Anna Masera chiude la rubrica Public Editor sulla Stampa, per l’ottima ragione che va in prepensionamento (buon per lei!). Nel suo ultimo articolo tra le altre cose scrive «confido che La Stampa proporrà altri interlocutori e spazi di dialogo con il suo pubblico.» Permettetemi di dubitarne.
Come spiega Masera, «La “Public Editor” è arrivata nel 2016 quando abbiamo aderito a The Trust Project, un progetto americano per combattere la sfiducia del pubblico nel giornalismo online.» Il problema di base è che i quotidiani continuano a perdere ricavi, sia pubblicitari che di vendite, e si crea un circolo vizioso in cui i giornalisti sono sempre di meno e sono sempre più spinti ad andare sul sensazionalistico per sperare che qualcuno clicchi e mandi du’ spicci all’editore. Ma i lettori più scafati a questo punto hanno sempre meno fiducia nella qualità di quello che leggono, e quindi la fiducia è crollata.
Con Public Editor, spiega ancora Masera, «abbiamo raccolto la sfida di rispondere ai lettori non solo sugli errori, ma su tutte le questioni controverse, a costo di ripeterci perché negli anni si sono riproposte spesso.» Il problema che però io ho visto nelle risposte, anzi più correttamente nelle domande a cui lei rispondeva, è che ci si rivolgeva soprattutto allo stile degli articoli. Quando Masera scrive
Sarebbe ora che l’organizzazione del lavoro nei giornali tenesse conto che i titoli vengono condivisi anche quando gli articoli sono a pagamento, e che quindi hanno una vita propria per tutte quelle persone non abbonate che li commentano senza avere accesso ai testi che completerebbero l’informazione: servono titoli più aderenti alla realtà, meno sensazionalistici. I lettori non apprezzano gli articoli anonimi, vogliono conoscere le fonti (che – sappiatelo – negli articoli senza firma sono quasi sempre agenzie stampa)
ha perfettamente ragione (Sull’ultima parte confesso che negli anni ho imparato a scrivere i comunicati stampa in modo che le agenzie e a cascata i giornali li copincollino…) Però pensateci su un attimo: se da dipendente GEDI lei non ha avuto la possibilità di convincere la proprietà a modificare il modo di pensare di chi costruisce il giornale, perché senza di lei dovrebbero farlo?
Aggiungo un ultimo punto, molto più personale. Masera scrive che c’è «l’esigenza di redazioni più diversificate e inclusive per raccontare meglio la società che si evolve.» Ma secondo me serve anche avere delle redazioni più aperte alla riscrittura degli articoli. Avete mai sentito parlare dell'”effetto Report”? I servizi sembrano sempre molto curati… fino a che non ne capita uno su un tema che noi conosciamo bene, dove ci accorgiamo che fanno errori marchiani. In quel caso c’è chi pensa male ed è convinto che Report faccia giornalismo a tesi. Spesso però possiamo assumere la buona fede: un giornalista non può essere un tuttologo, e può scrivere qualcosa di errato perché non ha avuto la possibilità di capire bene tutti i termini di un problema. E ricordiamoci che la colpa in questi casi è condivisa da chi spiega e chi riporta :-) Ecco: a me piacerebbe una redazione che – a fronte di ri-spiegazioni educate e comprensibili – aggiornasse la versione online dei suoi articoli spiegando cosa c’era di sbagliato in quella originale. Non è una cosa così fuori dal mondo: chi è abituato a leggere la stampa anglosassone si imbatte spesso in articoli che terminano con una nota “in una versione precedente dell’articolo era stato erroneamente detto che…” Da noi è già tanto se possiamo sapere che l’articolo è stato aggiornato. Avremo mai un successore di #publiceditor dove si potranno inviare queste correzioni e vederle inserite negli articoli?
Ultimo aggiornamento: 2021-10-21 12:10