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matematto non praticante

No, Calabresi, il giudice non è il lettore

Stamattina il direttore di Repubblica ha postato un editoriale (“Il giudice è il lettore”) dove fin dal catenaccio assolve i giornalisti: «Nel dibattito sui falsi che circolano in rete non siamo noi i colpevoli. La prima responsabilità ricade infatti su chi da anni predica l’inutilità di esperienza e competenza» (per chi non riuscisse a cogliere la sottilissima allusione, a destra del titolo c’è una foto di Beppe Grillo).

Dopo un incipit in cui afferma che siamo così in basso nella classifica della libertà di stampa perché i giornalisti sono minacciati dalle mafie, dalla criminalità organizzata e dalle cause intentate dai politici – su questo non commento perché non ho dati sufficienti, ma tanto non è il punto fondamentale dell’articolo – Calabresi passa subito a Grillo, che dopo aver predicato da anni che chiunque può dire la sua indipendentemente dalle proprie competenze ora propone i pogrom… ehm, le “giurie popolari” che dovrebbero definire quali sono le notizie vere e quali false; termina infine scrivendo « Il nostro popolo è la comunità dei lettori, che è anche il nostro unico giudice. Il suo verdetto lo emette ogni mattina, decidendo se leggerci o no.»

Sono millenni che si sa che moneta cattiva scaccia moneta buona. Se anche non lo si sapesse, basterebbe guardare l’evoluzione del contenuto dei quotidiani, non solo delle versioni online ma anche di quelle cartacee. Probabilmente questo è il risultato della crisi ormai ventennale dell’informazione, che costringe i quotidiani a cercare di frenare in ogni modo l’emorragia presentando le “notizie” che attizzano di più i lettori; notizie senza virgolette e opinioni hanno così a disposizione uno spazio sempre più risicato, e la ridotta in cui si sono asserragliate è sempre più in pericolo. Affermare insomma che la comunità dei lettori sia la sola giudice dei giornalisti significa accettare il ragionamento grillesco, limitandosi a sostituire lo scoppio che farà morire il giornalismo con un lento piagnucolio. Sarà ineluttabile? Non lo so. Ma vederlo scritto in quel modo mi fa propendere per il sì.

La scienza non è democratica. E la sua comunicazione?

In questi giorni forse avete sentito dell’ultimo sfogo di Roberto Burioni, medico immunologo che ha un certo qual seguito su Facebook. Dopo un suo post in cui – rispondendo indirettamente ai manifesti di Forza Nuova che accusavano i migranti di essere gli untori dei casi di meningite – mostrava come i ceppi europei e nordamericani sono di tipo diverso da quelli asiatici e africani, il che rendeva impossibile che fossero loro la casa del contagio – ci dev’essere stata la solita sfilza di commenti xenofobi, tutti cancellati da Burioni che ha poi commentato dicendo più o meno che non intende perdere ulteriore tempo con certa gente e terminando con le frasi “Spero di avere chiarito la questione: qui ha diritto di parola solo chi ha studiato, e non il cittadino comune. La scienza non è democratica.” Tutto questo è stato poi ripreso per esempio dalla Stampa e dal Fatto Quotidiano; ma poi è arrivato il controcanto, esemplificato da questo post di Valigia Blu ma che ha anche suscitato una vivace polemica tra chi fa comunicazione della scienza. Trovate qualcosa nei commenti a quest’altro post di Burioni, ma ci sono anche discussioni in gruppi chiusi Facebook. Il punto di vista dei comunicatori è che azioni come quelle del virologo in realtà sono controproducenti, perché allontanano proprio quelli che avrebbero più bisogno di capire.

Parlando di solito di matematica, io vivo in un’isola felice: mi è capitato solo una volta ai tempi di Usenet di discutere con uno che era convinto che 0×1 facesse 1. No, non sono riuscito a convincerlo. No, non mi sono stracciato le vesti. Ma come dicevo, il campo in cui sono esperto è completamente diverso, e non si possono fare generalizzazioni. Dal mio punto di vista di puro dilettante, però, direi che in questo caso entrambe le parti hanno ragione.

Se parlassimo in termini politici, è verissimo che i post di Burioni non spostano un voto. Sono fatti bene, spiegano con parole chiare concetti complessi, e hanno il giusto mix tra semplificazione e correttezza formale. Contengono anche le fonti, quindi chi vuole può verificare per conto suo se sta contando balle. Ma tutto questo può al più avvicinare qualche indeciso, oltre a dare certezze maggiori a chi è già convinto della validità della vaccinazione. Resta però il fatto che Burioni non sta facendo nulla di ufficiale (nota per i disattenti: non ho scritto che lo fa gratuitamente. Sono due cose diverse), e quindi può ben scegliere il suo modo di comunicare, facendo l’elitista ed evitando di impelagarsi in discussioni dove non potrebbe portare alcun contributo. Diciamo solo che io sono più elitista di lui e al suo posto avrei scritto che la scienza non è un’oclocrazia, ben sapendo che ben pochi avrebbero compreso.

Ma d’altra parte è anche vero che se vogliamo che la gente impari qualcosa non possiamo comportarci in questo modo; quello che è peggio è che così noi rischiamo che i media riprendano “il paladino dei vaccini”, perché prese di posizione di questo tipo portano lettori e quindi clic e quindi proventi pubblicitari, e quindi lo spazio per interagire con chi è contrario e insegnargli qualcosa si riduca ancora di più. Io sono notoriamente un pessimista e sono convinto che la battaglia per insegnare alla gente ad usare il senso critico – non solo in Italia, intendiamoci – sia persa, e che l’unica speranza di un rovesciamento delle sorti sia un lavoraccio all’interno delle scuole di cui non vedo però traccia… e dire che io al liceo ho avuto come istigatore un prete, il che prova che tutto è fattibile. Ma per l’appunto bisognerebbe ridurre al minimo le distrazioni, e capisco perfettamente chi fa fatica a comunicare la scienza e si trova in un certo senso a dovere anche combattere il fuoco amico.

In definitiva, allora? Non lo so. Come scrivevo, non ho abbastanza competenze per avere una risposta. Sarebbe bello se si riuscisse a trovare un modo per operare da alleati, ciascuno secondo il suo modo di fare; ma non saprei proprio da dove partire.

_Stile Stampa_ (ebook)

A vent’anni dall’ultima edizione cartacea, La Stampa ha deciso di passare una volta per tutte all’elettronico, aggiornando e rendendo liberamente scaricabile il proprio glossario di stile (Maurizio Molinari e Anna Masera (editor), Stile Stampa , La Stampa 2016, pag. 100, € 0, ISBN 9788865866597). Il glossario di stile è una specie di filigrana: serve infatti a unificare le grafie e le forme usate dalle varie persone che scrivono per un giornale o per una casa edtrice. Questo della Stampa è un po’ diverso da quelli cui ero abituato con le case editrici, perché comprende anche alcune note grammaticali generiche (su alcune delle quali non concordo: ma la grammatica italiana è spesso un terreno di lotta). La parte più divertente è leggere tra le righe e vedere far capolino tra i lemmi alcuni residui del passato (qualcuno si ricorda di chi fosse Mistinguett? Io non avevo proprio idea), il piemontesismo della Busiarda, e finanche la linea politica (specificare che la capitale di Israele è Gerusalemme aveva e ha un significato ben preciso). La digitalizzazione ha portato alcuni refusi, che ho provato a segnalare: chissà se verranno corretti, considerato che il bello degli ebook è che si aggiornano facili.

Le tre post-verità

A quanto pare, la parola di moda in questi ultimi scorci del 2016, anche se è nata più di vent’anni fa, è “post-verità”. Non so quanto la storia durerà: si sa che le mode passano molto in fretta. Questo è dunque il momento di fermarsi un attimo e cercare di capire cosa sia esattamente la post-verità; o meglio, cosa io ho capito essere. La cosa che non mi è saltata agli occhi – mi ci sono volute alcune settimane per metterla a fuoco – è che come capita spesso il termine viene usato per significare cose diverse. La cosa più peculiare è che in questo caso non sono due i concetti collassati nel parolone con cui riempirsi la bocca, ma tre, almeno in Italia. (Non ho verificato come post-truth venga trattata nel mondo anglofono).

Il primo concetto è quello che è probabilmente alla base del fenomeno, e nasce nel campo dei media. In pratica, mentre un tempo ci si poteva aspettare che giornali, periodici e televisioni – quelli seri, perlomeno – prima controllassero le notizie e poi le pubblicassero, ora le cose funzionano alla rovescia. La fretta di essere i primi, in un mercato nel quale i tempi sono sempre più frenetici, porta alla pubblicazione immediata di qualunque cosa arriva; se poi ci si accorge che la notizia era una bufala allora la si corregge, arrivando insomma alla verità a posteriori. Questo problema è diventato tanto più evidente quanto più i ricavi dei media, sia per il calo delle vendite che per quello parallelo della pubblicità, costringe i vari attori a una feroce lotta per accaparrarsi i pochi lettori rimasti e cercare di mantenersi a galla ancora per un po’. È praticamente impossibile per i lettori difendersi da questa deriva, che oramai è tracimata dai colonnini infami dei quotidiani online e ha inquinato anche la colonna di sinistra che una volta era quella delle notizie.

La seconda post-verità, che è quella assurta ultimamente agli onori delle cronache, è di tipo completamente diverso. Ora infatti non si scrive pensando eventualmente di correggere le cose a posteriori, nemmeno dopo che la falsità della notizia è stata dimostrata al di fuori di ogni dubbio: le notizie false sono invece un vero e proprio manifesto politico (non per nulla in inglese il termine è un aggettivo, e si parla per esempio di post-truth politics). L’idea orwelliana che sta sotto a tutto questo è che una bugia ripetuta a sufficienza diventa una verità, e quindi le bufale sono qualcosa che è successivo alla verità, che non è più importante. Da noi, a parte il click-baiting dei siti (pseudo)giornalistici ufficiali che in effetti a prima vista ha molti punti in comune ma spesso a una seconda occhiata rivela che gli scoop promessi sono poi notizie di scarso o punto interesse, questo tipo di post-verità si manifesta principalmente con una serie di siti (tipo il Fatto QuotidAIno e il GioMale, ma i primi esempi come il Corriere del Corsaro sono stati creati su Altavista) che scientemente pubblicano solamente notizie false. Sulle prime non avevo capito cosa stava succedendo. Ero convinto che questi siti cercassero di lucrare sul successo di Lercio – che scrive sì notizie false, ma con un chiaro intento umoristico e parodistico, riprendendo la definizione latina della satira “castigat ridendo mores” – per acchiapparsi un po’ di click e quindi di introiti pubbliicitari. Mi chiedevo insomma perché questi non fossero in grado di strapparmi neppure un mezzo sorriso. Dopo un po’ ho compreso che i proventi pubblicitari sono solo un sottoprodotto, utile per farsi un po’ di soldi e pagarsi le spese, ma secondario rispetto al loro vero scopo di propaganda destrorsa, quella che mira a fare INDIGNARE la gente (il maiuscolo è doveroso in questo caso, come chiunque può accorgersene vedendo quello che succede con i commenti aggiunti quando i post vengono condivisi). D’altra parte, quando l’altra settimana è stato dimostrato che in realtà tutti questi siti hanno un’origine comune non mi sono per nulla stupito, perché almeno quello mi risultava chiaro. Per questo tipo di post-verità noi utenti possiamo però fare qualcosa per limitare la diffusione. Anche senza vedere il nome del sito che le pubblica, le “notizie” riportate sono così malfatte che non ci vuole molto a capire che sono bufale. Ecco: cominciamo a non condividerle nemmeno per burlarci di chi ci casca o annunciare che sono false, e commentiamo brevemente nelle bacheche di chi le posta spiegando il motivo per cui la cosa non è vera. Se il postatore originale si arrabbia, lasciamo pure perdere, tanto costui è ormai perduto; se si accorge del suo errore abbiamo aggiunto un mattoncino alla verità senza post.

Ma a quanto pare noi in Italia abbiamo un terzo tipo di post-verità, come evidenziato dall’intervista del Garante Antitrust (che ha a che fare con la materia?) in un’intervista al Financial Times (perché non a un quotidiano italiano?). Nell’intervista, Giovanni Pitruzzella lancia l’idea di una regolamentazione a livello europeo, con un non meglio identificato ente pubblico – su questo è stato esplicito, deve essere pubblico – che dovrebbe controllare, mettere un bollino di non-verità ed eventualmente far rimuovere le bufale. Come spero vi siate accorti, siamo arrivati a un livello completamente diverso. Non importa più sapere cosa è verità e cosa no; quello che conta è che ci sia un Fratellone che faccia una scelta per noi e ci liberi dal fardello di usare il nostro raziocinio per discernere le notizie. Le bufale sono insomma una banale scusa per potere censurare, con il consenso del popolo tutto. La verità diventa così una verità di Stato. Non fosse che Beppe Grillo con la post-verità del secondo tipo ci campa, verrebbe voglia di essere al suo fianco quando denuncia il fatto… Invece mi limito a lavorare in parallelo ;)

(ah: Carlo Felice Dalla Pasqua ci ha ricordato che Pitruzzella non è nuovo a queste esternazioni, e in effetti aveva già usato il Corrierone)

Quizzino della domenica: 2017

[ATTENZIONE! quizzino corretto]

In una successione di 2017 numeri di due cifre, sapete che tutti sono multipli di 21 oppure di 19, e che la cifra delle unità di ciascun numero della successione è la stessa della cifra delle decine del numero successivo. Se l’ultimo numero della successione è 42, qual è il primo?

(un aiutino lo trovate sul mio sito, alla pagina http://xmau.com/quizzini/p224.html; la risposta verrà postata lì il prossimo mercoledì. Problema tratto da Andrew Liu, Arithmetical Wonderland)

_Il mio Leo Longanesi_ (libro)

[copertina] Non ho ben capito perché nella sua lunga introduzione Pietrangelo Buttafuoco abbia dovuto ripetere alcune delle frasi di Longanesi che sono poi riportate in questo libro (Leo Longanesi, Il mio Leo Longanesi, Longanesi 2016, pag. 255, € 18,60, ISBN 9788830444942). Capisco invece perché la scelta che ha fatto dei lunghi brani qui presenti è forse un po’ troppo tendente alla politica: ma qui devo concordare, perché il coinvolgimento in politica di Longanesi, dal fascismo all’antifascismo di destra, è sempre stato molto importante. Penso comunque che la lettura di queste pagine possa permettere a tutti di leggere una prosa incredibilmentecontemporanea a più di sessant’anni dalla sua prematura morte, e dalle battute spesso fulminanti, come si può anche vedere nella raccolta delle ultime pagine.

Chiude MATE

Con un’immagine (nemmeno un post…) sulla pagina Facebook e una cancellazione totale della sua esistenza dal sito di Centauria, ho scoperto che con il 2017 MATE chiude le pubblicazioni: l’ultimo numero insomma è l’8, di dicembre, pubblicato il 20 novembre. Il motivo della chiusura, sempre a detta del comunicato, sembrerebbe essere la mancanza di inserzioni pubblicitarie; evidentemente non si aspettavano di andare in pareggio con le copie vendute, ma a questo punto mi chiedo su quali inserzionisti pensavano di puntare.

Anche se ho comprato tutti i numeri usciti per sostenerla, non è che la rivista mi abbia mai attratto più di tanto: la mia sensazione è che tendesse più a cercare di essere l’equivalente di Voyager. C’erano degli articoli interessanti, ma in generale mi pareva che si cercasse di stupire il lettore con effetti speciali, come se più che di matematica si parlasse di magia. Intendiamoci: non pensavo affatto a una rivista in cui si facesse matematica, per quanto semplice la si potesse presentare. È chiaro che l’idea era quella di un rotocalco, e di per sé lo capisco anche. Ma almeno dare un’idea di cosa sia in pratica davvero la matematica poteva esserci, no?

Prendiamo l’ultimo numero uscito, per esempio, e lasciamo da parte le mie idiosincrasie personali, tipo la rubrica Lo Smatematico e il giallo matematico; a me non piacevano, ma avevano comunque un loro senso. Le news matematiche iniziali erano come al solito più o meno matematiche (a meno che voi non siate pitagorici e pensiate che tutto sia numero), ma sicuramente mancano di un link di approfondimento alla notizia originale, come appunto se non fosse importante far capire quanto stupire. L’intervista (in questo numero a Cabezón) è stata come quasi sempre un punto positivo, perché permette di far capire cosa fa un matematico; il day-by-day sul problem solving è sufficiente, a parte il riquadro gossip… ehm, celebrities, come anche quello su Micmath: ma mi hanno lasciato un po’ l’amaro in bocca. Molto bella l’intervista a Simone Lepore, del tutto inutile (matematicamente parlando…) l’esperimento sull’altezza.

Veniamo ora allo speciale, in questo caso sui risparmi. Secondo voi, se uno trova scritto «Tali modelli sono basati sulla specificazione di un processo stocastico esogeno che governa l’evento default: tipicamente si assume che si tratti di un processo di tipo Poisson e spesso si ipotizza che il tasso di recupero sia esogeno al modello», uno che non sappia già di che si parli capisce qualcosa? Se l’idea era “abbiamo mezza pagina per scrivere un articolo, perché sennò diventa troppo complicato”, tanto vale lasciare perdere. Che ci siano pezzi come il paradosso dell’agente immobiliare che siano molto più chiari non basta ad apprezzare il tutto.

La parte sulle università mi pare più che altro una marchetta; la pagina di didattica sugli equivoci geometrici era interessante, come anche il paradosso dei troppi antenati; la parte di storia dei matematici (Abel, Peano e Cardano in questo numero) era sicuramente adatta al taglio della rivista, mentre per Lamarr avrei almeno aggiunto qualche dettaglio sul FHSS; l’articolo su Joyce (ciao Popinga!) era carino. Comoda la pagina sulle uscite librarie, del tutto inutili le due pagine sulle fiabe sonore, e infine i giochi confesso di non averli mai provati (ne devo già cercare troppi per i quizzini), ma penso fossero comunque un buon asset.

In definitiva un risultato che sarebbe potuto andare bene per il numero 1, ma che almeno a mio parere arrivati al numero otto mostra di non aver trovato una propria strada. Né mi pare di aver mai visto il tentativo di chiedere ai lettori cosa fare; può darsi che abbiano cercato un campione di non-lettori (che è l’altra cosa che si può immaginare per creare una linea editoriale vendibile), ma ovviamente non lo so. Chissà se ci sarà mai un altro esperimento di questo genere…

Piero Torasso

Il giorno di Natale è morto Piero Torasso. Il nome non vi dirà molto, a meno che non siate informatici torinesi: Torasso è stato uno dei primi laureati in informatica a Torino, dove poi ha presto avuto una cattedra che ha mantenuto fino alla fine. (Nota: la prima facoltà di informatica in Italia è stata a Pisa nel 1969: sono poi seguite Udine, Salerno e appunto Torino nel 1971)
Il campo di studi di Torasso è stato l’intelligenza artificiale, materia sulla quale teneva l’omonimo corso universitario che ho “seguito” anch’io mentre prendevo la seconda laurea in informatica. Le virgolette stanno a significare che non ho mai seguito una lezione a informatica, per il banale motivo che stavo lavorando: mi limitavo a presentarmi agli esami e sperare in bene. In questo caso, Torasso mi chiese tra le altre cose di parlare di un sistema di inferenza, di cui ovviamente mi sono scordato il nome, basato sulle proprietà “is-in” e “has-attribute”, o qualcosa del genere. Io me ne ricordavo una sola, e sono andato avanti per un po’ con lui che cercava di farmi usare la seconda e io che facevo equilibrismi per usare sempre solo la prima: col senno di poi, avrei dovuto capire che quei sistemi avevano dei problemi di base se potevano essere usati in modo diverso dal voluto :-) Ad ogni modo alla fine ho preso 29, che da un certo punto di vista è una medaglia al valore…