Capisco perfettamente che non si può parlare solo e unicamente della guerra in Ucraina. Però forse Repubblica poteva evitare di dedicare un articolo al libro di Carlo Gaudio, che non contento di essere primario di cardiologia alla Sapienza ha una carriera parallela di scrittore. Nella sua ultima opera, L’urlo di Moro, pare ci spieghi con dovizie di particolari che nelle prime lettere scritte da Aldo Moro durante la sua prigionia avremmo potuto scoprire dove era detenuto: bastava anagrammare alcune frasi. Così per esempio la frase “Che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato” diventa “E io so che mi trovo dentro il p.o uno di Montalcini n.o otto”, mentre “Io poso gli occhi dove tu sai e vorrei che non dovesse mai finire” sarebbe “O forse che io dovevo essere chiuso prigione di via Montalcini”.
Non che ci sia qualcosa di male nel pensare che Moro abbia cercato di inviare messaggi in codice. Peccato però che dovremmo immaginare che sapesse dove si trovava (evidentemente si era guardato in giro mentre lo portavano nel primo covo, oppure qualche brigatista si è lasciato scappare un “certo che un covo come questo di via Montalcini 8 fa proprio schifo”…). Ma soprattutto di anagrammi di un’intera frase ce ne sono così tanti che con un po’ di pazienza, e soprattutto lavorando a posteriori, si può trovare davvero di tutto. Senza scomodare Bartezzaghi, ricordo che la frase di Galileo SMAISMRMILMEPOETALEUMIBUNENUGTTAURIAS, che lo scienziato pisano scrisse come anagramma di ALTISSIMUM PLANETAM TERGEMINUM OBSERVAVI (“Ho osservato il pianeta più alto trigemino”: data la bassa risoluzione del suo telescopio, credette che Saturno avesse due satelliti anziché gli anelli), fu letto da Keplero come SALVE UMBISTINEUM GEMINATUM MARTIA PROLES (“Salve, prole di Marte, gemelli furiosi”).
Non essendo Moro uno stupido, insomma, non avrebbe mai pensato di inviare informazioni per mezzo di un anagramma: se davvero sapeva dove si trovava, sarebbe stato molto più sensato usare un acrostico, magari preceduto da un’espressione che sua moglie avrebbe immediatamnte trovato strana, tipo un vezzeggiativo sbagliato. Scervellarsi per tirare fuori un anagramma più o meno sensato può al più andare bene nella trama di un romanzo alla Dan Brown…

![[scala reale]](https://i0.wp.com/xmau.com/wp/notiziole/wp-content/uploads/sites/6/2022/04/q578a.png?resize=400%2C296&ssl=1)
Scrivo su Wikipedia dal 2004. Questo significa che ero presente durante praticamente tutta l’evoluzione dell’enciclopedia, e anche se non posso dire di ricordarmi sempre tutte le minuzie dei template e delle regole e regolette varie so comunque come muovermi. Questo significa però che mi risulta difficile comprendere come Wikipedia venga vista “da fuori”. Ben vengano dunque i libri come questo, dove Enrico Marello (professore di diritto all’università di Torino) guarda l’enciclopedia dal suo punto di vista e poi racconti cosa sia successo – nel bene ma anche nel male – quando ha fatto fare alcuni lavori a due gruppi di studenti. La versione elettronica del testo, secondo lo spirito wikipediano, è stata rilasciata con una licenza CC-BY-SA, tanto che ce ne siamo immediatamente appropriati e ora il libro è anche disponibile su Wikisource, la biblioteca (libera!) dei progetti Wikipedia. È ovvio che dal punto di vista di Marello c’è un’enorme differenza tra i testi presenti in Wikipedia e quelli della letteratura giurisprudenziale (e ci mancherebbe altro, aggiungo io), e che la qualità di quei testi è spesso molto bassa (purtroppo, aggiungo di nuovo io). Però alla fine Wikipedia non ne esce così male, pur notando alcuni punti deboli legati alla struttura editoriale non esistente. Ma a parte le conclusioni, ritengo che tutto il testo sia da leggere da parte di chi non ha mai scritto su Wikipedia, per capire come ci si può accostare senza troppi rischi di essere rimbalzati via dai cattivi utenti… che poi spesso sono solo troppo oberati di lavoro per avere il tempo di dare spiegazioni comprensibili.