“Viviamo nel migliore dei mondi possibili”. Chiunque abbia letto il Candido si ricorda certamente di come Voltaire abbia messo quell’affermazione sulla bocca di Pangloss come un tormentone, per irriderla. Magari però non sa che nasceva da una polemica con lo scienziato Maupertuis. Io l’ho scoperto leggendo questo libro (Ivar Ekeland, Il migliore dei mondi possibili : Matematica e destino [Les Meilleur des mondes possibles], Bollati Boringhieri 2014 [2001, 2004], pag. 298, € 13, ISBN 978-88-339-2530-1, trad. Carlo Tatasciore) dove Ekeland parte da Galileo e Huygens per mostrare come nell’era moderna la scienza sia venuta in soccorso della filosofia antica: il principio di minima azione, definito per l’appunto da Maupertuis, porterebbe a dire che il nostro universo è fatto così perché Dio (o la Natura, o semplicemente l’autoorganizzazione delle cose) non può che scegliere la via più breve per fare le cose.
Gran parte del testo è una bellissima cavalcata tra la storia della scienza e la filosofia della scienza, e fa scoprire tantissime perle matematiche, compresi gli errori dei grandi, che non si trovano certo nei manuali scolastici. Un po’ più debole la parte finale, dove l’idea che noi viviamo nel migliore dei mondi possibili è vista attraverso la biologia (l’evoluzione delle specie), l’economia (i mercati che si regolano da soli) e l’etica (il bene comune). Ekeland risponde alla domanda in modo negativo, mostrando come i controesempi abbondano e tutt’al più possiamo immaginare di vivere in un mondo localmente migliore, il che è già meglio di nulla.
La traduzione di Carlo Tatasciore lascia alquanto a desiderare. La scelta di prendere un esperto di filosofia per la traduzione è sicuramente da apprezzare, perché altrimenti si rischiava di non riuscire a spiegare i ragionamenti dell’autore. Ma quando si trova scritto che un triangolo è isoscele sebbene i due angoli alla base sono uguali, o si confondono i poligoni coi poliedri, c’è qualcosa che non va.
Archivi annuali: 2015
bar con annessa libreria
Ho letto questo articolo del Post e mi sono restati una serie di dubbi. Premessa: non conosco la libreria citata nell’articolo (che è dalla parte opposta di Milano rispetto a casa e ufficio) e le auguro ogni bene. Però mi sembra strano che si scriva come una grande novità che «i libri che provengono direttamente dalle case editrici più piccole […] vengono venduti con la formula del conto deposito», cosa che credevo fosse lo standard editoriale – anche perché altrimenti si ha poca voglia di occupare spazio in libreria per un libro magari poco conosciuto che non si sa se si venderà. È più probabile che appunto la differenza con le altre librerie indipendenti stia nel fatto che trattino direttamente anche con i piccoli editori.
L’altra cosa che mi torna poco è che «la tavola fredda porta il 60 per cento degli incassi totali». Io non ho nulla contro i bar nelle librerie, anzi li trovo una cosa davvero carina. Però a questo punto non è la libreria che ha un bar associato, ma è il bar che ha associata una libreria, il che non è molto bello per il concetto di libreria in assoluto, indipendente o di catena. Che ne pensate?
Giorgio Israel
Giorgio Israel è stata una di quelle persone con cui non sarei probabilmente mai andato d’accordo, ma di cui ho sempre letto con piacere gli interventi sulla didattica della scienza e in particolar modo della matematica. Molto meno noto di Piergiorgio Odifreddi e sicuramente di idee politiche opposte rispetto a lui (collaborando con Il Foglio e Tempi io lo credevo erroneamente cattolico…), tanto che se non ricordo male è stato consulente di un qualche governo Berlusconi, la sua prosa era sanguigna e irruente, ma trattava i temi con competenza e senza preoccuparsi di mandarle a dire a qualcuno. Roars ripubblica il suo ultimo articolo, tanto per farvi un’idea. Israel era insomma una di quelle persone che leggevi perché sapevi che ti avrebbe dato qualcosa, anche se magari poi rimanevi della tua idea. Ce ne vorrebbero tante, di persone così.
Ultimo aggiornamento: 2015-09-25 12:26
Sembra facile timbrare un biglietto
Ieri dovevo fare un po’ di viaggi, compreso il tratto Repubblica-Porta Venezia, e visto il meteo mi sono preso un biglietto giornaliero. Al mattino faccio il cambio a Repubblica e timbro il biglietto sul passante: tutto ok. Alle 13:30 arrivo a Porta Venezia (lato VIII novembre): l’unica timbratrice che accetta i biglietti elettronici aveva sul display l’indicazione “Solo tessere”, quindi entro dal passaggio sempre aperto. Arrivo a Repubblica, ritimbro il biglietto lato metropolitana. Alle 14:30 sono di nuovo a Repubblica, faccio passare il biglietto sul passante e me lo sputa dicendo “Biglietto già convalidato” (tecnicamente corretto, ma a me avevano detto che il procedimento corretto consiste nel timbrare ogni volta). Vabbè, un passaggio aperto c’è comunque: entro e prendo il passante. Alle 17:30 riprendo il treno a Porta Venezia, senza nemmeno controllare se per puro caso avessero riparato la timbratrice, e vado fino a Porta Garibaldi. Arrivo, timbro il biglietto per uscire e mi dice qualcosa tipo “Senso errato”. Lì a fianco c’era un addetto Trenord che probabilmente stava multando una persona: in un momento in cui si era fermato gli mostro il biglietto e cerco di spiegargli la situazione, lui manco mi guarda e mi dice “l’ultimo tornello” (che effettivamente era ad accesso libero).
Non è che ci sia qualcosa che non funziona?
Ultimo aggiornamento: 2015-09-24 14:09
Tanti auguri liberi!
Ero convinto di avere scritto della storia di Happy Birthday a luglio, quando era uscito questo articolo di Ars Technica, ma non ne trovo traccia: quindi ne parlo oggi, quando ormai la notizia – come la canzone – è di pubblico dominio: un giudice americano ha sentenziato che il copyright sulla canzone non è valido, per la rabbia della Warner/Chappell che a quanto sembra ci guadagnava due milioni di dollari l’anno e l’avrebbe fatto almeno fino al 2030. Poi, si sa, magari il copyright si sarebbe ancora allungato…
Il punto di base è che testo e musica della canzone erano stati pubblicati ben prima che la sedicente autrice Patty Hill chiedesse il copyright nel 1935. La melodia è del 1891 e nasceva come un saluto scolastico tra studenti e insegnante; il testo di “tanti auguri” è di poco posteriore. La cosa più divertente è che tutta la causa legale è nata perché la regista Jennifer Nelson girò un documentario sulla canzone e si vide chiedere 1500 dollari per i diritti d’uso. Nelson dev’essere una rompipalle di prima categoria (amo quella donna a priori) e così dopo aver girato il documentario aprì una causa che è appunto terminata con il giudice che ha affermato che il copyright del 1935 si applica solo all’arrangiamento per pianoforte.
Tutto bene? No. Il brano è nel pubblico dominio solo negli USA: per l’Unione Europea il copyright scadrà solo a fine 2016. Per il momento potete cantare “Perché è un bravo ragazzo”, che è sicuramente nel pubblico dominio.
Yogi Berra
Io sapevo che Yogi Berra, morto ieri, era una miniera di aforismi che – diciamo – non venivano fuori proprio come previsto. Sapevo anche più o meno che era stato un campione di baseball (e anche un allenatore vincente). Quello che non sapevo proprio è che era di origini italiane e soprattutto che diede il nome all’Orso Yoghi. Certo, se uno ci pensa su “Yogi Berra” e “Yogi Bear” sono evidentemente simili. Però…
P.S.: Grazie a Language Log, aggiungo un elenco di aforismi di Yogi Berra e l’obituary del NYT.
Ultimo aggiornamento: 2015-09-23 16:32
più presidenzialisti del presidente
Più che condannare (in primo grado) Umberto Bossi per vilipendio al capo dello Stato, avrei pensato a un non luogo a procedere per incapacità mentale. A parte le battute, dare del terrone non mi pare più insultante come un tempo: già quel tipo di reato è un retaggio dei tempi in cui c’era il re, ma in questo caso mi pare proprio esagerato.
Ma quello che è peggio è che – se questo articolo dice il vero – la denuncia non partì da Napolitano ma da tante querele da parte di cittadini per cui evidentemente il senso dello Stato è così alto che non solo non ruberebbero neppure un centesimo di tasse ma perdono tempo e soldi per querelare. Mah.
Ultimo aggiornamento: 2015-09-23 12:58
Lavori pubblici
Questa foto non è stata scattata sul percorso della Parigi-Roubaix, ma in piazza VIII novembre a Milano. Oggi ci sono degli omini che rimettono a posto i cubetti di porfido sul marciapiede che si erano man mano staccati nel tempo, e un cartello che spiega che si tratta di una “riqualificazione urbana”.
Quel marciapiede è però in pratica un parcheggio (abusivo). Esistono parcheggi abusivi peggiori, questo non dà nemmeno (troppo) fastidio, anche se mi sarebbe piaciuto che anche lì come dall’altro lato della piazza ci fossero venti metri di pista ciclabile per farmi arrivare in ufficio senza fare il giro dell’oca come oggi; ma visto che tanto diventerebbe una pista da scooter, tanto vale lasciarci le auto.
Ma allora, perché non mettere un po’ di asfalto e amen?
Ultimo aggiornamento: 2015-09-22 21:23