Ricordate Il nome della rosa? Il venerabile monaco Jorge aveva avvelenato l’unica copia esistente del secondo libro della Poetica di Aristotele, quello che trattava della commedia, perché riteneva che far ridere la gente fosse Il Male: ecco perché noi possediamo solo il primo libro. Ma cos’era per Aristotele la comicità? Citando dalla Treccani, per «la comicità di un personaggio è determinata dal presentarsi di un suo difetto o errore, in quanto però esso non appare odioso e non suscita repulsione. L’origine del comico è comunque veduta sempre nell’avvertimento di una sorta di contrasto, di dislivello, si manifesti esso tra la cosa e lo spettatore, o tra la cosa reale e l’idea che altrimenti se ne possa avere.» Insomma, «ciò che è fuori tempo e fuori luogo, senza pericolo»: se infatti ci fosse pericolo passeremmo al tragico. Beh, vorrei lasciarvi qualche spunto di discussione su una diversa lettura della comicità: la tricotomia (che non c’entra col taglio dei capelli) che vi propongo non è probabilmente completa, ma ha il vantaggio di puntare verso una visione diversa.
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Big Data: cosa NON sono
Eccovi due storie apparentemente simili, avvenute a distanza di un secolo e mezzo. Intorno alla metà del XIX secolo, Londra era regolarmente colpita da epidemie di colera. Ai tempi non si conosceva ancora la causa della malattia, anzi non si immaginava neppure l’esistenza dei batteri: un medico, John Snow, ebbe però l’idea che potesse essere dovuta alla cattiva qualità dell’acqua. ALl’ennesima epidemia si mise così a fare una ricerca a tappeto per scoprire qual era la compagnia dell’acqua che serviva le case dove c’erano stati casi di colera – sì, allora c’erano compagnie concorrenti – e confrontando dati e date riuscì a scoprire la fonte contaminata iniziale da cui la malattia iniziò a propagarsi e mietere vittime. In questo modo in seguito si riuscì a bloccare i focolai di infezione sul nascere.
Nel 2009, quando arrivò l’allarme dell’influenza aviaria – il famigerato ceppo H1N1 – negli USA il CDC (centro per controllo e prevenzione delle malattie) avrebbe voluto monitorare i dati sulle persone colpite da influenza, ma si accorsero che i risultati erano sempre in ritardo di un paio di settimane, a causa dei problemi nel raccoglierli e smistarli. A Google decisero però un altro approccio: fecero un match tra le 50 milioni di ricerche più comuni sui suoi server e i dati delle ondate di influenza tra il 2003 e il 2008. L’idea è che chi ha l’influenza fa una ricerca su cosa può prendere per curarsi. Trovato un elenco di 45 stringhe di ricerca con la correlazione maggiore, iniziò a controllarli: i risultati vennero così ottenuti in tempo reale.
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il declino di Wikipedia
Il mese scorso ha suscitato parecchio scalpore un articolo sul MIT Technological Review intitolato “The Decline of Wikipedia”. L’autore, Tom Simonite, recupera un sacco di dati per mostrare come dal 2007 a oggi il numero di contributori a Wikipedia sia in costante calo, e sia sceso dai 51.000 di allora ai 31.000 attuali. Simonite raccoglie molti dati fattuali, come questo rapporto di Aaron Halfaker – rapporto finanziato dalla Wikimedia Foundation stessa, che ovviamente ha tutto l’interesse a sapere cosa sta succedendo. Il rapporto è arrivato anche in Italia: se volete sapere la mia posizione ufficiale col cappellino di portavoce di Wikimedia Italia la potete leggere su Wired, La Stampa, Treccani Magazine. E se volete sapere la mia posizione personale?
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Unificazione delle masse 2.0
L’altra settimana era il compleanno di Stefano Epifani. Ci conosciamo dallo scorso millennio, e quindi ho il suo numero di cellulare: gli ho così mandato un messaggio, nel mio classico stile, scrivendogli «Che ne pensi se ti scrivo “buon compleanno”?» Spero di non ledere la sua privacy postando la sua risposta: «Penso che ti adoro, perhcé tra 1000 amici che scrivono su Facebook sono pochissimi quelli che si prendono la briga di usare un SMS!». Poi a dire il vero si è anche lamentato perché non voglio mai scrivergli qualcosa per Tech Economy, ma quella è un’altra storia (non ce la faccio fisicamente a scrivere tutto quello che dovrei scrivere… e per fortuna non mi capita spesso il blocco dello scrittore!)
Qualche giorno dopo era il compleanno di un mio ex-collega dei lontanissimi tempi in cui mi occupavo di riconoscimento della voce: non ho il suo numero di cellulare, ma un indirizzo di posta elettronica sì, quindi gli ho mandato due righe di auguri per email. La sua risposta (qui non è un grande problema di privacy, visto che non potete sapere chi sia): «Nonostante i nnumerosi “competitor” che hai, bombardati dalle notifiche di facebook (e simili) che ricordano il mio compleanno, sei sempre … il migliore!»
Avete trovato il punto di contatto?
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La regola 90-9-1
Su, per questa volta parlo di Wikipedia solo di striscio! La regola che dà il titolo a questo post è infatti molto più generale, e probabilmente anche falsa. Per partire, tanto per cambiare, affidiamoci a Wikipedia stessa, che racconta come nel 2006 Ben McConnell e Jackie Huba hanno coniato il nome “regola dell’1%” per segnalare come in una comunità solamente l’un percento dei membri contribuisce attivamente, mentre gli altri se ne stanno lì a guardare e sfruttare i contenuti: in inglese si parla di lurker. La regola è stata poi affinata aggiungendo un ulteriore livello: non si parla solo di lurker e contributori, ma questi ultimi sono a loro volta suddivisi in Veri Contributori che in effetti creano nuovo materiale e Aiutanti Contributori che si limitano a fare modifiche minori a quanto creato dai Veri Contributori. Questa tripartizione ha finalmente fatto nascere la regola di cui al titolo del post: il 90% di chi accede a un sito collaborativo non collabora per nulla, il 9% fa qualcosina, l’1% si fa il mazzo.
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Che cosa puoi fare per Wikipedia?
Parecchia gente (non moltissima, a dire il vero) sa che io contribuisco regolarmente a Wikipedia. Costoro pensano che io faccia chissà quali cose per l’enciclopedia: in realtà il mio impegno è molto limitato, per la mia cronica mancanza di tempo che mi impedisce di fare tutte le cose che vorrei. Qualche settimana fa ho però avuto un paio di “franchi scambi di opinione”, come si suol dire, che mi hanno portato a lavorare su Wikipedia e che secondo me possono essere più utili di cento FAQ per spiegare come funzionano davvero le cose, o per meglio dire come dovrebbero funzionare. Non credo che sia un caso che gli scambi arrivino dal “socialcoso fighetto”, Friendfeed, dove discussioni di questo tipo capitano tutti i giorni, grazie al connubio tra una massa di utenti relativamente ridotta e una quantità di rompiscatole (quorum ego) elevata.
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Quali fonti per Wikipedia?
Wikipedia è grande: ma ora ha bisogno di crescere. La battuta a effetto nasconde una realtà che non si può negare: è inutile che per esempio l’edizione in lingua italiana contenga più di un milione di voci, se poi la qualità di buona parte di esse è, diciamo, subottimale. Purtroppo non è possibile obbligare la gente a migliorare le voci esistenti, anziché creare voci nuove: è un sottoprodotto del fatto che contribuire all’enciclopedia (in questo caso nel senso di produrre materiale, non di finanziarla) è volontario, e ciascuno può fare ciò che preferisce. Penso però che possa essere utile sapere cosa si potrebbe fare per avere un prodotto sempre migliore: io sono ottimista e spero sempre che le cose possano andare meglio in futuro. Inoltre è sicuramente utile sapere come leggere le voci di Wikipedia: in questo modo è infatti possibile capire se e quanto fidarsi di quello che si legge, almeno come struttura generale.
Stavolta tratterò di Wikipedia e delle fonti, un tema che entra spesso prepotentemente in scena in casi molto diversi, da chi si lamenta perché non può scrivere le “sue” informazioni nelle voci – ci sono stati casi eclatanti come quello di Philip Roth, ma vi assicuro che richieste e minacce al riguardo sono quotidiane – a chi invece si lamenta perché ci sono scritte cose che a loro non piacciono: c’è chi va in tribunale come Cesare Previti (al momento si è arrivati a un’assoluzione in primo grado della Wikimedia Foundation) o la famiglia Angelucci (in quattro anni non è ancora stata emessa alcuna sentenza). Ma anche senza andare nelle aule dei tribunali ed evitando di parlare di politici ancora in vita, ci sono voci, come quella su Tesla che spesso vedono una campagna a colpi di riscritture.
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Minacce, diffamazione, oblio, web. Come trovare una quadra
La scorsa settimana, dopo le minacce arrivate per email al Presidente della Camera Laura Boldrini e all’intervista a Repubblica che è seguita, sembrava che stesse per arrivare una legge speciale per i reati che avvengono via web. Qualche giorno dopo Boldrini ha affermato di essere stata fraintesa – tra l’altro, quand’è che si riprenderà la buona abitudine di dire “non sono stato capace a spiegarmi bene”? perché la colpa dev’essere sempre di chi ascolta? – ma intanto la discussione c’è stata eccome, e io che ho imparato dal buonanima di Giulio Andreotti che a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca spesso non vorrei che tutto questo fosse un ballon d’essai per fare davvero accettare all’opinione pubblica l’idea che la Rete debba essere strettamente regolamentata: il perché dell’avverbio lo spiego dopo. Potete leggere un’analisi molto articolata di Fabio Chiusi sui pericoli insiti in questa deriva; io preferisco cambiare punto di vista.
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Effetto Streisand, intelligence e Wikipedia
Nel 2003 l’attrice e cantante Barbra Streisand intentò una causa contro il fotografo americano Kenneth Adelman, chiedendo un risarcimento di cinquanta milioni di dollari per danni. Motivo? Adelman aveva fotografato la villa di Malibu della Streisand, e pubblicato le foto nel sito Pictopia, violando la privacy dell’attrice. Non pensate a fotografie come quelle di Villa Certosa con Silvio Berlusconi e ospiti: Adelman stava lavorando a un progetto per documentare l’erosione delle coste della regione, e la villa della Streisand era presente insieme a chissà quante altre cose. La Streisand perse la causa, e tra l’altro si scoprì che la sua villa era già ben visibile nelle mappe satellitari pubblicamente disponibili: ma il vero risultato fu che decine di migliaia di persone andarono a vedere le foto incriminate, e con ogni probabilità la stragrande maggioranza di loro non si sarebbe mai interessata alla cosa se non ci fosse stata quella denuncia. Da allora venne coniato il termine effetto Streisand per definire tutti i tentativi di censura che ottengono il risultato opposto a quello voluto. Che c’entra tutto questo con Wikipedia? Adesso ci arriviamo.
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Ognuno al suo posto
Il bello dell’Internet è che nel calderone della rete possono improvvisamente spuntare notizie che non sono state lette al momento della loro pubblicazione, ma che possono essere tranquillamente commentate dopo mesi perché non sono “di moda” e quindi si può ancora fare un commento senza venire immediatamente tacciati di gerontofilia. L’articolo in questione è stato pubblicato lo scorso luglio dal Corsera, ed è intitolato Quando il lettore (e non il critico) certifica la qualità del libro; si racconta di come Einaudi abbia riportato nella quarta di copertina di un suo libro il giudizio (anonimo) che una lettrice aggiunse su Amazon. Il mio giudizio critico usa le parole che avrebbe detto Ezio Greggio: “tavanata galattica”. Ma non essendo io Greggio, mi metto anche ad argomentare.
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