Ve l’avevo già detto, vero, che da grande farò il tuttologo? Al momento, se dovessi mettermi a scrivere il mio curriculum, tra le cose che ho fatto potrei annoverare l’avere tradotto due libri di Douglas Hofstadter. Non Gödel, Escher, Bach: quando uscì l’edizione italiana ero poco più che ventenne e molto meno sicuro di me stesso, tanto che rimasi stupito che qualcuno avesse avuto il coraggio di tradurre il libro che avevo assaporato in lingua originale. Poi sono passati gli anni, ho conosciuto personalmente Hofstadter, e un giorno mi trovai una sua email che mi chiedeva se potevo dare un’occhiata alle bozze del suo Concetti fluidi e analogie creative, perché gli sembravano un po’ strane. Andò a finire che io venni promosso a traduttore; il risultato non deve essere poi stato così malaccio, visto che quando Hofstadter cedette i diritti per la traduzione in italiano di I Am a Strange Loop (da noi Anelli nell’io) mise come clausola la possibilità di scegliere i traduttori, e io ho così fatto parte del “Traditrio”, come lui ci soprannominò affettuosamente. Diciamo insomma che non ho competenze specifiche nel campo, però qualche cosa posso sempre dirla, no?
Come prima cosa, ricordo a tutti quella che forse può sembrare una banalità ma non lo è affatto: non esiste un concetto di traduzione che vada bene per tutto. A seconda delle necessità, la traduzione sarà diversa. Prendiamo per esempio la traduzione tecnica: in questo caso, quello che importa non è tanto la qualità della prosa, quanto la certezza di veicolare correttamente le informazioni. Da un certo punto di vista, potremmo dire che è il livello più semplice di traduzione: in fin dei conti abbiamo da pensare “soltanto” a una cosa. Naturalmente non è così facile: basti pensare alle istruzioni che arrivano con certi gadget made in China e che sembrano poesie ermetiche, oppure ai piccoli problemi che vedete nell’immagine qui sotto (l’app è PicsArt, il fotografo GePs) legati al fatto che qualcuno ha deciso che “Delete” si poteva tradurre come “Cancella” scordandosi di aver tradotto “Cancel” come “Cancella”. Il guaio è che la traduzione non può essere mai uno-a-uno, anche senza tenere conto delle differenze di struttura grammaticale tra le lingue: ogni parola porta con se una nuvola di concetti, e le nuvole non coincidono mai esattamente tra le due lingue. Chissà, forse gli approcci biecamente statistici di Google Translate potranno portare a qualche risultato nella traduzione tecnica, anche se ho il sospetto che non si arriverà mai a un’accuratezza davvero buona; oppure prenderà sempre più piede l’approccio di Ikea e simili che evitano le parole e si limitano ai disegnini. D’altra parte i software CAT (Computer Aided Translation) sfruttano proprio l’approccio statistico per aiutare i traduttori a mantenere un lessico coerente, lasciando però a loro l’ultima parola :-).
Tornando ai libri di Hofstadter, almeno a quelli che ho citato all’inizio del post si passa a un livello superiore. Infatti c’è comunque un contenuto tecnico che deve essere reso correttamente: per esempio c’è la dimostrazione del teorema di indecidibilità di Gödel che è già difficile da seguire di suo, figuriamoci se si inizia a parafrasarla. Ma poi c’è un secondo livello, che è quello dello stile della prosa del nostro, quello che si era appunto perso nella prima traduzione di CFAC. Hofstadter ama scrivere in prima persona e mostrare le cose; una traduzione anche formalmente corretta ma dove tutto il testo è scritto in modo impersonale non è la stessa cosa. Certo, in questo caso abbiamo il problema dell’io narrante, che non si capisce più se sia l’autore o il traduttore: ma è buona norma che il traduttore sia il più invisibile possibile, e quindi lasci il lettore con l’idea che sia effettivamente l’autore ad aver scritto il testo in una lingua che non è la sua (dell’autore, non del lettore!) Con Hofstadter c’è poi ancora una complicazione: i giochi di parole che semina allegramente all’interno del testo. Tradurre un gioco di parole, o un proverbio se per questo, è un compito impossibile. Il meglio che si riesce a fare è spesso trovare un gioco di parole che possa farne le veci. Ma per fare questo occorre spesso allontanarsi e di molto dal senso letterale: e come si fa se il senso letterale è importante e deve essere preservato? Semplice: ci si mette con tanta, tanta pazienza a camminare sul filo e trovare per ogni riga qual è il minimo tradimento che si riesce a fare rispetto all’originale, tirando gentilmente la traduzione da una parte o dall’altra fino ad arrivare a un risultato finale accettabile… secondo gli alti standard hosftadteriani. Ah, mi sono dimenticato di dire che per esempio nei suoi libri non si va a capo a metà di una parola; ma per evitare righe con le parole troppo spaziate lui – e dunque i traduttori – prendono la bozza, guardano come la pagina appare esteticamente, e poi cambiano una parola qua e là per un migliore effetto scenico.
Ma anche senza giochi di parole ci sono traduzioni ben complicate: quelle delle poesie e dei poemi. Un poeta ha una serie di vincoli: la struttura del suo testo e le rime. Ma ha anche vincoli meno visibili, che sono quelli del suono delle parole: anche se un sinonimo ha lo stesso numero di sillabe e la stessa accentazoine, non è affatto detto che lo si possa sostituire impunemente. E come fa allora il povero traduttore? Spesso decide di eliminare un vincolo, e limitarsi – si fa per dire – a seguire gli altri. Passare a un testo in prosa è a mio giudizio troppo limitante, ma forse usare versi liberi, con ritmica ma senza rima, può essere un buon compromesso. Per curiosità, qui ho trovato la resa del primo verso dell’Inferno, «Nel mezzo del cammin di nostra vita», in varie traduzioni ufficiali:
In my middle of my lifetime
Midway in human life’s allotted span,
Halfway through our trek in life
Midway the path of life that men pursue
Halfway along the path of this existence
In the middle of this mortal life
At midpoint of the journey of our life
Upon the journey of our life midway
When I had journeyed half of our lifes way
Midway in our lifes journey, I went astray
Halfway along the road we have to go
In the midst of my journey through this life of ours,
Una bella varietà, vero?
Chiudo il cerchio tornando a Hofstadter. Il suo libro Le Ton Beau de Marot parla a livello di base della traduzione di una poesia (28 versi trisillabici) del famosissimo poeta francese rinascimentale Clément Marot; la poesia viene tradotta una settantina di volte nel testo, per la cronaca. A un altro livello il libro spiega cos’è la traduzione letteraria, almeno dal punto di vista di Hofstadter; a un altro livello ancora c’è il racconto della malattia e della morte della sua prima moglie, avvenuta proprio in quegli anni. Ed è proprio per quest’ultima ragione che Hofstadter ha specificato all’interno del libro che non vuole affatto che venga tradotto in altre lingue: non tanto per l’impossibilità del compito – fidatevi, si può fare praticamente di tutto – quanto perché il testo è troppa parte di sé per riuscire a pensare che l'”io” narrante in un’altra lingua non sia lui stesso. Non è affatto semplice, tradurre.