I Beatles risvegliano l’italica stampa

Stamattina, guardando cosa c’era di bello nei feed, ho visto questo articolo della BBBC che raccontava del progetto Magical Memory Tour: in due parole, chiedere alla gente di raccontare un evento legato ai Beatles. In fin dei conti, quest’anno Liverpool è la capitale europea della cultura. Bene, con una rapidità encomiabile, sia Repubblica (stamattina) che Corsera (oggi pomeriggio) hanno tradott… ehm, ripreso l’articolo. Occhei, per la cronaca la versione del Corriere è leggermente diversa dall’originale. Sarebbe interessante fare una ricerca su quali sono le cose che colpiscono di più i giornalisti, non trovate?
Per la cronaca, non ne so abbastanza di neuroscienze per capire se l’affermazione riportata nell’articolo – che cioè i problemi con la memoria non sono tanto nella quantità di dati da salvare quanto nella difficoltà di rileggerli – possa essere dimostrata o no con questo approccio; ma sono sempre stato un convinto assertore del concetto di WOM (Write-Only Memory), quindi la cosa non mi stupisce.
Per i curiosoni, il mio ricordo legato ai Beatles risale a quando il Secondo canale RAI trasmise per la prima volta Yellow Submarine. Era un sabato sera autunnale (perché sul Canale nazionale c’era Canzonissima), direi del 1969, la trasmissione credo fosse Mille e una sera e mi appassionai così tanto da cercare di registrare con un Philips le canzoni, apprezzando soprattutto “Eleanor Rigby”. Magari adesso capite perché sono uscito fuori così.

do you speak English?

Come forse potete immaginare, uno dei punti deboli dei messaggi di phishing è la lingua usata per scriverli. Dato che la maggior parte dei phisher non sono di madrelingua inglese, hanno spesso dei problemi a scrivere un testo grammaticalmente corretto; è vero che credo che molti americani non si accorgano della differenza, ma non si sa mai, ed è sempre bene presentarsi al meglio.
Sono convinto che il messaggio di spam di stamattina sia proprio inteso a raggiungere tale scopo. Un sedicente signor “dare gawain” (che per la cronaca posta da un sito turco) mi chiede se sono interessato a un lavoro part-time:
«We will provide you with the texts for our employees with the important information and you will correct the texts as an english speaking person and send them back to us.»
Devo dire che se non fossi così pigro aprirei un’email usa-e-getta e risponderei all’amico, giusto per vedere cosa mi manderebbe!

_Galata – Museo del Mare_

Per la serie “evitiamo per quanto possibile la spiaggia”, domenica 17 agosto Anna mi ha gentilmente concesso di andare a Genova a vedere Galata, il museo marittimo. Il museo è grande. Molto grande. Ci abbiamo messo tre ore a visitarlo, per darvi un’idea. Il biglietto è adeguato, visto che costa dieci euro: nove con la Carta Più Feltrinelli, per la precisione. Non che nessuno ci abbia chiesto il biglietto, a dire il vero, né che ci siano guardie in giro: gli unici che ci è capitato di vedere sono stati alcuni alla bella mostra interna “La Merica” sull’emigrazione verso Ellis Island.
Galata è un museo di tipo didascalico, che racconta la storia delle navi e di riflesso del porto e di Genova dal 1400 al 1900. Ci sono dei reperti originali, soprattutto per quanto riguarda le armi, i libri e i dipinti di argomento navale, oltre che quelli raffiguranti il porto nei vari secoli; ma la parte più importante è sicuramente costituita dai diorama e dalle ricostruzioni, compresa quella di una galea di 40 metri studiata apposta per riempire uno dei locali dell’antica Darsena, dove il museo si trova. Ah, l’estetica è davvero bella, anche se la donna di casa che c’è in Anna mi ha fatto notare che ardesia sugli scalini e acciaio sui mancorrenti sono tanto belli, ma dovrebbero essere anche manutenuti. La multimedialità la fa da padrona, con voci che arrivano più o meno ovunque per integrare le spiegazioni dei numerosi cartelli (in italiano e inglese). Il museo di per sé dovrebbe essere pensato anche per i bambini, con un cartello all’ingresso che dice “lasciateceli qua, e tornate tra due ore”; e in effetti ci sono vari punti interattivi, come il “guida la barca verso Capo Horn”. Ma si sa che può capitare coi bambini: a un certo punto abbiamo sentito un improvviso rumore in una sala vicino a noi. Era nella “saletta dell”artista”, dove erano esposte alcune opere in terracotta di una tipa contemporanea. Diciamo che quando siamo poi passati noi di opere ce n’era una in meno, e c’erano un po’ di cocci in più. Se mi è concesso un giudizio critico, non è stata una grande perdita :-)
All’interno del museo c’è la solita caffetteria e il solito bookshop, ma anche una terrazza panoramica – senza un tetto, ma con vetri su tutti i lati – da dove è possibile vedere una parte del centro di Genova. Ultima raccomandazione: io non sono riuscito a trovare un guardaroba, e mi sono dovuto portare lo zaino per tutto il tempo. Non che fosse pesante, ma magari un turista “mordi e fuggi” potrebbe avere qualche problema!

Festival della mente

Sfruttando il fatto che Sarzana è poi a tre quarti d’ora scarsi di macchina da Chiavari – ci saremmo anche andati in treno, ma non c’era nessun treno per il ritorno dopo le 22:30 – venerdì 29 agosto siamo andati per la prima volta a vedere il Festival della Mente, arrivato quest’anno alla quinta edizione. La gita era stata pianificata con congruo anticipo: solo venerdì perché sabato saremmo tornati a Milano, biglietti per Toni Servillo e Stefano Bartezzaghi acquistati via Internet prima di partire per le vacanze. Ottima scelta, tra l’altro, visto che entrambi gli eventi erano esauriti.
Innanzitutto, due parole su Sarzana. Avevo letto dei negozianti locali che si lamentavano per la scarsezza e il costo dei parcheggi nella ridente cittadina lunigiana. Sul secondo punto posso in parte dare loro ragione: i parcheggi in centro sono da 1.20 l’ora fino a mezzanotte. Risultato pratico: sono andato a caccia di un posto gratuito, che ho trovato all’enorme distanza di trecento – no, forse erano addirittura quattrocento metri dalla zona centrale. Avrei potuto fare di meglio impegnandomi un po’ di piu, ma non credo proprio ne valesse la pena. Sarzana è molto carina come cittadina.. tenuto presente che in un’ora la si è visitata tutta in lungo e in largo, se si esclude la Fortezza Firmafede che tanto non era accedibile causa appunto il Festival. In compenso l’organizzazione mi è parsa assolutamente inadeguata. Moltisimi volontari, tutti con la loro bella maglietta, su e giù per la città; ma per riuscire a ritirare i nostri biglietti abbiamo fatto dieci minuti di coda con due (2) persone davanti a noi, e a due ore buone dai primi eventi a pagamento. La mia sensazione, ma potrei sbagliarmi, è che quest’anno hanno voluto fare le cose in grande ed esagerato con l’offerta, senza essere preparati per un simile salto. Un altro esempio di questi problemi organizzativi lo si è visto per l’ingresso nella piaza d’armi della fortezza Firmafede, per sentire Servillo: arrivati alle 21:10, ci siamo fatti un quarto d’ora di coda per riuscire ad entrare, e quelli dietro di noi direi anche di più, tanto che si è iniziato con una ventina di minuti di ritardo. D’altra parte, il luogo era sicuramente molto suggestivo, ma onestamente mi chiedo come abbiano fatto a dare il permesso di mettere mille persone in un posto con una sola, stretta, uscita; se volete, il miracolo è che il deflusso è stato ordinato e non all’italiana.
Anche la cena, in uno dei tanti ristorantini del luogo, è stata mal gestita: saremmo stati noi che non avevamo espresso chiaramente la nostra necessità di fare relativamente in fretta (avevamo un’ora, comunque), ma nessuno ci ha detto che prendere una grigliata ci avrebbe fatto aspettare molto piu tempo che una banale pizza.
E gli interventi? Molto belli. Bartezzaghi è partito da Anassagora per affermare che nel gioco di parole in fin dei conti non si aggiunge nulla, ma si mettono le cose (le lettere) in modo diverso. Da lì è partito per un giro di concetti enigmistici e no, molti dei quali non certo noti al pubblico (la battuta dove tutti dicono “fa caldo” fino a che un inglese si alza e domanda “who is Aldo?” ha lasciato la platea silente, anzi puzzled) per arrivare a Don Chisciotte che quando si mette in testa come elmo una bacinella fa l’equivalente fisico di un gioco di parole e a Marcello Marchesi che nel tradurre la frase di Obelix si accorge che “sono pazzi questi romani” ha in sé l’acronimo SPQR. Chi è stato allora a fare il gioco di parole?
Servillo è bravissimo, e questo lo si sa già, anche solo recitando poesie. Ha inoltre una capacità incredibile di tenere avvinto il pubblico: quando prima di recitare la poesia su Napoli si è tolto la giacca e arrotolato le maniche, con una semplice alzata di spalle e un sorriso ha fatto partire un applausone. Però non ho capito esattamente la scelta delle poesie. “Appunti di viaggio” sarebbe dovuta essere una specie di giro d’Italia; invece dopo Genova, Napoli e Roma ha continuato con testi belli, ma senza una connotazione forte. Misteri.
In generale però, come accennato, una bella esperienza: anche uscire alle 23 e trovare tanta gente a girare tranquillamente e amabilmente per le vie è una cosa piacevole, e soprattutto ti fa capire come sia anche possibile non avere sempre e continuamente fretta!

_Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo_ (film)

[locandina]Posso confessarvelo, ormai: non avevo mai visto un film con Indiana Jones. Né al cinema, ma nemmeno in televisione. Non è che l’abbia fatto per spocchia: è che non guardo la tv, e al cinema debbo essere trascinato. Ma il 16 agosto Anna era in crisi di astinenza, e così ci siamo presi il treno da Chiavari a Sestri Levante per infilarci all’Ariston nella Sala 2 (probabilmente un tempo era la galleria, viste le dimensioni e la forma), trovare posto a tre metri dallo schermo e assistere allo spettacolo.
Ovviamente sapevo qualcosa della saga, almeno a grandi linee, quindi non potevo definirmi proprio del tutto vergine. Però non credevo si sarebbe potuti arrivare a un simile livello di suspension of disbelief. Non è tanto per la storia, un pastiche dove l’Eldorado si mischia all’alieno di Roswell e alla sezione parapsicologica dell’esercito russo (l’unica cosa reale, mi sa), e nemmeno per le capacità più o meno sovrumane di Harrison Ford e amici, capacità in fin dei conti che sono quelle per cui uno paga il biglietto: un po’ come nei film di James Bond. Già che nel 1957 una squadra russa prenda possesso di una caserma del Nevada senza che nessuno se ne accorga mi pare un po’ troppo, ma sfuggire a un’esplosione nucleare di test infilandosi in un frigorifero dalle pareti di piombo che viene lanciato via dall’esplosione?
È anche vero però che il film mi pare più che altro una parodia, col giovane Mutt che sembra dover fare il clone di James Dean, la colonnello russa che parla con un accento in stile “Ti spiezzo in due”, un inseguimento nelle vie di Harvard (o è Princeton?) in stile 007 e un duello alla spada nemmeno fossimo a un remake dei Tre Moschettieri. Dal mio punto di vista, sono tutte cose apprezzabili; però mi sa che Lucas e Spielberg siano arrivati alla frutta.

la miniera di Gambatesa

Dopo un primo tentativo andato a vuoto il martedì prima – siamo arrivati troppo tardi per l’ultimo giro – giovedì 28 agosto Anna e io, insieme all’amico Alex, siamo andati a visitare la miniera di Gambatesa, anch’essa parte del parco regionale (molto diffuso… questa non è val d’Aveto, ma val Graveglia) dell’Aveto. Tralascio i problemi geografici: siamo comunque all’interno dell’appennino genovese, e a prima vista non sembra esserci una grande differenza. A seconda vista, però, qualcosa di diverso c’è. In effetti, raggiungere la miniera è relativamente facile. Per la precisione, è ben difficile perdersi, visto che ci sono indicazioni praticamente a ogni chilometro sulla strada a partire da Lavagna; l’unico guaio è che le strade nel comune di Ne – dove si trova la miniera – sono delle provinciali relativamente strette, e che ci sono svariate cave, meta di camion i cui autisti partono dal principio che loro sono più grandi e così salgono e scendono a velocità assolutamente invereconde. Spero che a un paio di autisti sia venuta un’orchite di quelle toste.
Ad ogni modo, sopravvissuti agli incontri ravvicinati con i camionisti e superata la frazione Pian di Fieno con il ristorante Teleferica e il bar Il Minatore, si vede sulla sinistra la strada privata per la miniera e si sale al piazzale a quota 530. Da lì, una scalinata e un sentiero ti portano al punto di partenza, a quota 550. Intermezzo storico: la miniera venne iniziata nel 1876, per ricavare il manganese a partire dalla brownite. Negli anni 1930 fornì quasi l’80% della produzione italiana del metallo; dopo la guerra però l’importanza della miniera andò via via scemando, e l’Italsider, che già stava per chiuderla quando si trovò una vena importantissima, alla fine degli anni 1970 rinunciò ai diritti. La miniera venne presa in carico da una cooperativa di minatori, che altrimenti si sarebbero trovati sulla strada. Non che facciano moltissimo: la produzione attuale è di 900 tonnellate di minerale grezzo l’anno, e i quattro minatori che lavoravano a dicembre 2000 quando la miniera fu aperta al pubblico sono rimasti in due… per pensionamenti, non incidenti sul lavoro!
La visita standard alla miniera (ce ne sono anche di altri tipi, ma devono essere prenotate in anticipo) dura un’ora e mezzo circa ed è preceduta da un filmatino che dovrebbe spiegare un po’ di cose. Ma la maggior parte delle spiegazioni arrivano dalla guida (noi abbiamo avuto Sergio) che porta il gruppo di visitatori nel cuore della miniera, con un trenino rumoroso più o meno come la linea gialla della metropolitana di Milano. Oltre a dover tenere a bada un gruppetto di bambini che ha fatto la visita con noi, Sergio ha mostrato come si vede la differenza tra la roccia di base, il diaspro, e le vene di brownite, e ha fatto un rapido racconto di come le tecniche di estrazione si sono evolute dalla fine del diciannovesimo secolo (mazzetta e polvere da sparo) al secondo dopoguerra (perforatrici ad aria compressa e acqua, e dinamite). Tra l’altro, sembra che il nome della miniera derivi dall’espressione usata dai minatori, che abitavano nei paesi più a valle, quando salivano di buon passo e si dicevano l’un l’altro “su, andiamo a gamba tesa, che arriviamo prima!” I corridoi si estendono per 25 chilometri, senza travature perché il diaspro è una roccia dura; devo però confessare che quando ce l’ha fatto notare mi è venuta una punta di preoccupazione!
La visita non è certo economica (11 euro), ma credo che ci sia anche un problema di circolo vizioso. L’apertura al pubblico è stata una scommessa in una situazione oggettivamente difficile, visto che l’entroterra ligure è generalmente negletto e snobbato, e non sono così certo che nonostante l’entusiasmo dei soci della cooperativa la scommessa sia stata vinta. Bisogna però aggiungere che in questo periodo stavano sfruttando i fondi europei per rimettere a posto e ampliare l’offerta; la volontà di continuare su questa strada è insomma ancora tanta. Certo che se gli uffici turistici sulla costa del Tigullio provassero a far presente ai turisti che non è sempre necessario stiparsi nelle cosiddette spiagge locali, il 2009 potrebbe anche essere più fortunato per Gambatesa!

duecento volte di più

Non so quanti di voi abbiano sentito della polemica sui costi di frutta e verdura, con nientemeno che la Banca d’Italia che è andata a dire che i prezzi rincarano in media del 200% dal produttore al consumatore.
Ora, questo valore del 200% è una cosiddetta “media di Trilussa”: se si legge l’articolo, il tutto dipende da quanti passaggi intermedi vengono fatti. Si può avere “solo” l’80% di rincaro, o superare il 300%. Vabbè, ci dobbiamo accontentare di queste imprecisioni. Ma c’è molto di peggio.
Sabato 23 agosto, il TG3 delle 19 che non aveva nulla di meglio da fare si è lanciato con un servizio al riguardo. Purtroppo ho solo l’audio a disposizione (un grazie a Layos che è riuscito a recuperarmi al volo il tutto in condizioni precarie: non essendo a casa sua ha solo ottenuto un formato .ivr che nessuno di noi è riuscito a vedere… ma tanto basta ascoltare). La signora o signorina Francesca Ferrucci è stata mandata a fare interviste da qualche parte, e fermava le persone dicendo questa frase: «Lo sa che la frutta che compra lei la paga duecento volte di più di quanto viene pagata al produttore?» Non duecento percento: duecento volte di più. Vivendo noi in un paese di innumerati, nessuno le ha risposto “vuol dire che queste pesche a tre euro il chilo vengono pagate al produttore un centesimo e mezzo al chilo?”, e nessuno in fase di montaggio ha suggerito alla signora o signorina di doppiarsi la frase. Tanto siamo in agosto, avranno pensato.
Capito perché la matematica rimarrà sempre negletta?

L’allegra compagnia del sogno (libro)

[copertina] Quando si inizia a leggere questo romanzo (James G. Ballard, L’allegra compagnia del sogno [The Unlimited Dream Company], Fanucci – Vintage, ottobre 2007 [1979], pag. 255, € 16, ISBN 978-88-347-1353-2, trad. Luca Briasco) la prima domanda che ci si fa è “ma cosa si era fumato Ballard quando lo scrisse?”, seguita subito dalla constatazione che è fin troppo ovvio che ai tempi nessuno pensò di prenderne i diritti per l’italiano. Blake, il protagonista, è un erotomane con tendenze omicide, oltre a una serie di altre turbe psichiche, il che significa che tutta la storia, visto che è narrata in prima persona, risulta schizofrenica e inabile per varie decine di pagine a focalizzarsi su un racconto coerente… il che oggettivamente è indice di bravura. Il sobborgo della Grande Londra chiuso tra un’ansa del Tamigi e l’autostrada, dal quale Blake pare non poter più sfuggire dopo essere precipitato (e morto?) con il superleggero che aveva rubato, assomiglia quasi a un territorio inesplorato popolato da una tribù sconosciuta. Man mano che il testo scorre ci si avvicina a una certa comprensione della storia, anche se il tutto continua ad avere un’aria ben poco reale, con Blake che diventa un dio molto locale per tutta la popolazione fino all’epilogo, con i suoi fedeli che prima l’ammazzano e poi vengono portati in cielo (letteralmente) da lui. In definitiva, se vi piace lo stile di Ballard e l’immaginazione erotica (ben tradotta) il libro vi andrà benissimo, altrimenti lasciate perdere. Ah, a pagina 27 la parola “ani” era in realtà “anni”, ma il correttore di bozze deve essere stato trascinato :-)