Le cose Apple costano più di quelle non Apple. Questo è un fatto. Le cose Apple sono un ecosistema chiuso. Anche questo è un fatto. Poiché le cose Apple sono un ecosistema chiuso, in genere funzionano meglio e durano di più, quindi a conti fatti il loro costo maggiore si ammortizza. Non so se questo sia un fatto, ma per amor di discussione posso accettarlo come tale. Il guaio è che il tutto non basta.
I nuovi iPhone 7 non hanno il jack audio: gli auricolari (AirPods) si connettono via Bluetooth al telefono. Occhei, gli AirPods costano (in USA) 159 dollari, ma volete mettere la comodità? L’unico problema è che a questo punto è molto facile perderne uno, il che significa andare da Apple e pagare altri 69$ (fanno uno sconto, a quanto pare). Sembrerebbe chiaro che c’è dello spazio per l’iniziativa privata, e in effetti a fine anno scorso un’azienda chiamata Deucks aveva sviluppato un’applicazione chiamata Finder for AirPods, che permette (un po’ a fatica) di trovare l’AirPod perduto: il tutto per 3,99$. Un bel risparmio. Peccato che dopo aver approvato l’app, dopo una decina di giorni Apple ha deciso di eliminarla dal suo store, senza dare alcuna spiegazione.
Se volete, la spiegazione è arrivata dopo qualche settimana, visto che pare che la versione beta di iOS 10.3 abbia un aggiornamento della funzione Find My iPhone che ritroverà anche gli AirPod. Quindi non si può dire che l’app sia stata rimossa perché Apple vuole farsi tanti soldi sostituendo AirPod. Resta però il fatto che un ecosistema chiuso è una dittatura, che sia o no “per il bene dell’utente”. A me la cosa non piace affatto: voi fate come credete, io non mi offendo mica.
Il cartello a destra è apparso ieri sera sulle porte degli ascensori qui in ufficio. (Stamattina una manina pietosa ha corretto la “E” finale di “ASCENSORE”, ma questo non è importante). Uno si chiede “cos’è, gli ascensori sono entrati in agitazione e non vogliono fare gli straordinari?” ma la risposta come al solito è molto più prosaica.
Che cosa ha a che fare una signorina poco vestita nella copertina di questo vecchio pamphlet (Giampaolo Dossena, Le contrappuntiste nelle aiuole, Comix-Vallardi 1994, pag. 32, ISBN 9788876863141), un emulo dei Millelire di Stampa Alternativa, che ho ritrovato facendo ordine in casa? Beh, Giampaolo Dossena era una persona serissima e proprio per questo capace di evocare immagini licenziose anche quando parla di giochi di parole da un punto di vista scientifico. In quel periodo Dossena aveva appena pubblicato il Dizionario dei giochi con le parole, e questo libretto poteva in un certo senso essere considerato un teaser: un modo per pubblicizzare l’altro prodotto, condensando un paio dei concetti del libro maggiore per incuriosire i potenziali acquirenti. Beh, garantisco che la cosa era venuta bene, nel senso che queste poche pagine rendono l’idea dello stile di Dossena. Una nota personale: quando Dossena prende posizione contro la terza scuola di pensiero, quella che se non trova una parola con una certa configurazione prova a generarne una, e scrive «Non è da escludere che entrino in uso ‘nettafilobus, semifactotum, compilarebus’», sta citando il sottoscritto che gli aveva mandato questi termini nel 1982, quando io ero uno studente liceale e lui teneva la rubrica di giochi di parole su Tuttolibri. No, regolapickup e soprattutto contracchewinggum non sono creazioni mie: io avevo anche caposervitù e videotabù, oltre a un regolagrisù che non ho più ritrovato. Anch’io ho un limite.
Io ho 