A novembre ho fatto ben due presentazioni del mio Matematica in pausa caffè: una a Roma, nell’ambito della rassegna “Incontri con i numeri” parallela alla mostra Numeri che si tiene al Palazzo delle Esposizioni, e l’altra a Milano durante Bookcity. Le due presentazioni, pur avendo lo stesso tema, erano piuttosto diverse: la prima in una sala-auditorium, con il sottoscritto dietro una scrivania e le slide (minimaliste, come mia abitudine) proiettate, la seconda come una specie di intervista condotta da Andrea Gentile (autore di La scienza sotto l’ombrellone e le risposte ovviamente mie. Fin qui la teoria. La pratica?
Di per sé direi che il pubblico è stato sufficientemente soddisfatto, o perlomeno lo è stato il pubblico che è riuscito a sentirmi. No, non è che io abbia avuto una partecipazione così ampia da dover mandare via la gente. A Roma ci saranno state 120 persone, e la capienza della sala permetteva ancora di farne entrare ancora una quarantina; ma subito dopo l’inizio del mio intervento hanno chiuso le porte e impedito ai ritardatari – tra cui almeno due miei amici – di entrare. A Milano invece il problema è stato meteorologico. La mia location era infatti all’aperto, sotto i portici del Castello Sforzesco. Il posto sarebbe anche stato ambito: tanto per dire dopo di me c’era una presentazione di Andrea De Carlo condotta da Giancarlo Carofiglio. Ma la pioggia battente e le raffiche di vento hanno messo a dura prova la volontà del pubblico, nonostante le copertine in pile gentilmente messe a disposizione.
Peccato, perché secondo me la chiacchierata è venuta bene. Spero di avere fatto passare il concetto che la matematica è innanzitutto un modo diverso di vedere le cose, e solo in un secondo momento la serie di conti e formule che a scuola cercano di insegnarci, non sempre con risultati eclatanti. Intendiamoci: non sto affatto dicendo che conti e formule non siano importanti, né che non siano da studiare. Il mio punto di vista è un altro, che potrei definire “matematica qualitativa”: se volete, un salto indietro di 2500 anni per tornare al tempo degli antichi greci, prima di Euclide. Le formule non servono a nulla se non si ha nessuna idea di come si usano: siamo uomini o computer? Io credo che l’odio per la matematica derivi proprio da questo, che a scuola capita sin troppo spesso di associare la matematica a un rito magico – e fin qui potrebbe anche essere simpatico – che però non porta alcun risultato visibile. Iniziamo a far vedere dove entra in gioco la matematica e mostriamo la via che si può percorrere; a questo punto forse farà un po’ meno paura.
Questo post ce l’avevo in canna da un pezzo: oggi sul Post è uscito un pippone (o meglio, la traduzione di un pippone) di Douglas Corey, docente di matematica presso la Brigham Young University nello Utah. In “Ma a cosa mi serve la matematica?” Corey racconta tante cose, che generalmente condivido, e può dunque essere un ottimo contrappunto alle mie farneticazioni personali. l’unico punto su cui mi sento di dissentire è quando racconta dei professori che vogliono che gli studenti imparino a memoria formule, definizioni, teoremi e simili mentre questi rispondono che “si tratta di una perdita di tempo perché possono sempre cercare quelle cose, quando ne hanno bisogno”. Corey parla della “fallacia del fare affidamento sulla possibilità di cercare le cose, senza impararle”; io credo che la fallacia sia fare affidamento sulla possibilità di cercare le cose, senza averle intuite. La cosa è molto diversa: puoi dimenticare l’enunciato esatto di un teorema, ma se hai capito di cosa tratta allora allora sai dove andare a cercare. (Tornando all’onfaloscopia che mi riesce sempre molto bene, è quello che faccio di solito io, visto che la mia memoria è notoriamente un crivello e dimentico tutto). Voi che ne pensate?
Ultimo aggiornamento: 2014-12-03 23:41