Il giorno del pi greco

Oggi è il 14 marzo. Una data che a noi italiani non dice di per sé molto: volete mettere domani, con le Idi di Marzo? Ma gli americani hanno tutto il diritto di pensarla diversament. Con la scusa che loro scrivono le date alla rovescia, prima il mese e poi il giorno, per loro oggi è il 3.14… e pertanto il Giorno del Pi Greco, quel numero che ha la pessima abitudine di comparire per ogni dove senza nemmeno avere la buona creanza di essere non dico razionale ma almeno algebrico. E gli americani fanno sempre sul serio! Nel 2009 c’è stata una risoluzione del Congresso USA che

1. sostiene la designazione di un Pi Day e la sua celebrazione in tutto il mondo;
2. riconosce l’importanza dei programmi educativi di matematica e scienze della National Science Foundation; e
3. incoraggia scuole e insegnanti a festeggiare tale giorno con attività appropriate che istruiscano gli studenti sul pi greco e li attirino verso lo studio della matematica.

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Addio alle enciclopedie?

Diciamocelo: l’annuncio urbi et orbi della Britannica, che il mese scorso ha comunicato che non verrà più stampata l’edizione cartacea dell’enciclopedia, non è proprio stato un fulmine a ciel sereno. D’altronde, secondo i dati forniti dall’amministratore delegato di Encyclopaedia Britannica Inc. Jorge Cauz, l’edizione cartacea ha fornito l’anno scorso l’un percento dei ricavi, contro il 15% ottenuto dagli abbonamenti web e iPad. (l’altro 84%, per i curiosi, è dovuto a prodotti specifici per studenti e simili… La cultura si direbbe paghi solo indirettamente)
Risparmieremo insomma qualche albero. Nemmeno poi tanti, però: la tiratura per i 32 volumi dell’ultima edizione cartacea, quella 2010, è stata infatti di 12000 copie, ma ne sono state vendute solo ottomila. Le altre al più potranno diventare oggetti di collezione, anche perché sono un po’ troppo costosi per essere usati come sgabelli o scalette come insinuavo in questa vignetta.

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I veri limiti di Wikipedia in italiano

Luca Sofri si lamenta – in maniera educata, diciamocelo – sulla qualità dell’edizione in lingua italiana di Wikipedia. Cito la parte principale del suo post:

«il tasso di contenuti autopromozionali, parziali, sbrigativi e superficiali è imbarazzantemente troppo alto, e rende l’affidabilità e utilità complessiva imparagonabile a quella del servizio in inglese. La maggior parte delle pagine dedicate a personaggi contemporanei sono evidentemente compilate da loro stessi, da loro uffici stampa o da loro fans, in totale mancanza di obiettività e, quel che è peggio ancora, di capacità di scrivere in italiano.
E anche pagine su temi altri vengono vessate da letture faziose e da curve, si tratti di travaglismi o allevismi o sa Dio cosa.»

In poche righe Sofri ha mischiato vari punti che sono sì collegati tra loro, ma nemmeno poi troppo; provo a cercare di dipanare la matassa offrendo la mia visione di parte.
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Cos’è la creatività?

Lo scorso marzo Douglas Hofstadter ha mandato al gruppone dei suoi amici-di-studi una mail dal titolo “some rubbish about creativity, courtesy of the WSJ”, il cui testo conteneva solamente il link a questo articolo di Jonah Lehrer, dal titolo “How To Be Creative”. Hofstadter non è che mandi mail a ogni piè sospinto, e così molti gli hanno risposto, chi dicendosi d’accordo con lui (per esempio Melanie Mitchell e in parte Scott Kim) e chi come Daniel Dennett si è invece messo ad argomentare in maniera differente, probabilmente per divertirsi a vedere la reazione. Doug ha radunato le risposte, ha aggiunto le sue controdeduzioni a Dennett, e la storia è finita qui, tranne un post scriptum quando un mese dopo ci ha spedito un link a un articolo del Guardian che faceva una recensione non proprio positiva (“a scathing review”, scriveva Hofstadter) del libro di Lehrer. In effetti il suo articolo nel Wall Street Journal era più che altro una automarchetta per il libro Imagine che Lehrer aveva scritto…
Occhei, saranno trent’anni che Hofstadter studia la creatività, spesso con idee non esattamente mainstream; e in seguito ho scoperto che nel mondo accademico ed editoriale Lehrer ha dei giudizi diciamo non sempre entusiastici. Ma quello che aveva scritto è tutto da buttare? E cos’è effettivamente la creatività? (Ve lo dico subito: la risposta a questa domanda io non la so mica)
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Calcolatori e alfabeti

Vi è mai capitato di andare all’estero, finire in un Internet Point, e scoprire con orrore che la tastiera su cui scrivete non è quella giusta? L’esperienza di non trovare le lettere al punto giusto è scioccante, e io che ho una certa qual età ricordo con terrore il periodo alla fine degli anni ’70 in cui le RELAWIONI datate l)/% si sprecavano, visto che mi toccava passare dalla macchina da scrivere con una tastiera QZERTY e i numeri che venivano digitati come maiuscole ai miei primi(tivi) computer che avevano la tastiera QWERTY e mancavano di lettere accentate. Ma la storia di come interagiamo con i caratteri del PC è molto più complcata: iniziamo a vedere la parte relativa ai charset, cioè agli insiemi di caratteri che dovrebbero rappresentare quanto si può scrivere in una lingua.
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Social Business Forum 2012. E ora?

Milano ha ospitato lo scorso 4 e 5 giugno presso il Marriot Hotel il Social Business Forum 2012, appuntamento organizzato da OpenKnowledge e giunto alla quinta edizione, con un crescente successo di pubblico: quest’anno, tra Free e Premium Conference, i partecipanti iscritti al convegno sono stati 1600. La partecipazione è stata ampia anche tra gli exhibitors – come usuale in questo tipo di convegni, gli sponsor hanno uno spazio a disposizione per presentare le proprie soluzioni ai possibili clienti – e soprattutto c’era un interessante mix tra i “giovani” che probabilmente di socialcosismo ne masticano abbastanza e gli “anziani” che sono quelli che le aziende (unopuntozero…) le devono fare andare avanti e hanno bisogno di capire come farlo al meglio, soprattutto di questi tempi. La struttura delle giornate è stata particolare, considerando che entrambe le mattinate sono state dedicate a keynotes mentre i pomeriggi si dividevano tra i case studies per chi aveva l’iscrizione business e la free conference aperta a tutti. In un certo senso si è dunque perpetuata la dicotomia tra “giovani” e “anziani” a cui accennavo prima.
Detto tutto questo, qual è il commento di un vecchietto come me, che di esperienza di social business ne ha pochina ma se si parla di social networks in generale è sulla breccia da almeno un quarto di secolo? Diciamo che mi sarei aspettato molto di più. Prendiamo l’intervento iniziale, direttamente da OpenKnowledge e che quindi ha dato l’impronta principale alla conferenza: le 59 tesi per il Social Business Manifesto. Avrete già capito che il nome è stato scelto apposta per indicare la volontà di iniziare un cambio di paradigma, esattamente come Lutero fece con le “sue” tesi appese sulla porta della cattedrale di Wittenberg il 31 ottobre 1517; magari siete anche più svegli di me e avete subito capito che il numero 59 non è stato scelto a caso, ma è speculare al luteriano 95. La presentazione è stata molto carina e finanche filosofica: Emanuele Scotti e Rosario Sica che si palleggiavano tesi e antitesi, queste ultime esemplificate da spezzoni di film o più in generale di video che mostravano appunto come non si dovevano fare le cose. Però il matematico che c’è in me ha subito rabbrividito leggendo la prima tesi, insomma quella principe: «Il caos è una semplicità che non siamo ancora riusciti a vedere.» Bella frase. Frase sicuramente a effetto. Peccato che sia essenzialmente sbagliata, anche se magari letteralmente corretta. Chi ha davvero letto qualcosa della teoria del caos, sa che il vero concetto è esattamente l’opposto: le leggi che creano il caos possono essere semplici, ma conoscere le leggi non ti permette comunque di ricavare il risultato, che è caotico per definizione.
Fuor di metafora, la mia sensazione è che oramai chi fa comunicazione ha abbastanza chiaro quali potrebbero essere i vantaggi di un approccio sociale ai processi aziendali, e il concetto sta lentamente percolando anche su chi è a capo delle aziende. Quello che manca, o almeno io non sono ancora riuscito a vedere, sono però soluzioni davvero funzionali e funzionanti. Un esempio che è sicuramente saltato agli occhi di tutti i twitteristi è stato per esempio #meetFS. Ferrovie dello Stato, per volontà credo diretta dell’amministratore delegato Mauro Moretti, ha pensato bene di radunare un certo numero di VIB (Very Important Blogger, ma mi dicono che adesso il termine da usare è “influencer” per raccontare loro cosa sta facendo il gruppo, spiegare la differenza tra le varie aziende che lo compongono e via discorrendo. Il tutto avrebbe dovuto portare a molto traffico: non tanto per i post dei singoli blogger quanto per lo sciame di twit correlati. Qual è stato il risultato pratico? Lo sciame c’è stato, ma era quello di un gran numero di vespe che vedendo l’hashtag vi si sono subito accodati per ribadire quello che sanno tutti coloro che hanno la sventura di viaggiare con il trasporto ferroviario regionale. Moretti magari ha anche ragione a dire che il trasporto locale è pagato dalle regioni, e se sono le regioni a non mettere i soldi loro possono farci poco; in ogni caso il messaggio però non è certo passato. Ma torniamo a #smb12.
La tesi che Scotti e Sica basano su un loro studio, che cioè l’adozione delle tecnologie collaborative è in forte crescita (si raddoppia, anche triplica rispetto all’anno scorso), con i dipendenti che ormai si aspettano i social tool e una serie di benefici in tutto l’ecosistema aziendale, è direi condivisibile. Che il tutto generi anche valore in marketing, operazioni, innovazione pure. Comincio a scuotere la testa quando però balzano alle conclusioni, che applicando le tecniche social si arriva a una nuova organizzazione che potremmo chiamare “connected enterprise”. Non perché non possa essere vero, ma perché la logica conseguenza di ciò è che il middle management come lo intendiamo fino ad ora non esisterebbe più, e dovrebbe totalmente reinventarsi. Sì, ci sarebbe sempre un middle management. Banalmente, su dieci idee che arrivano dal basso ne funziona sì e no una. È vero che cinque di quelle idee vengono già cassate direttamente dal basso, il mondo social è bravo a trovare velocemente i punti deboli evidenti e lo fa molto più in fretta di una singola persona; ma i punti deboli non evidenti sono sono così facilmente notati, e soprattutto non si può chiedere a un semplice dipendente di avere una visione ampia di tutta l’azienda perché altrimenti non sarebbe un semplice dipendente ma un dirigente o almeno un funzionario. Ma vi rendete conto della difficoltà di riciclare in qualche modo i capetti? Per me è impossibile. E finché non ci si rende conto di questa impossibilità non si andrà mai troppo avanti: i muri di gomma sono fatti così.
L’altra cosa che ho notato – ma qui magari sono stato sfortunato e ho seguito le sessioni sbagliate – è che quasi tutti gli intervenuti, oltre a essere pronti a elogiare le proprie soluzioni sociali “since 2011”, tendevano a concentrarsi sul customer care: un buco nero aziendale, ne parlavamo anche sopra a proposito di Trenitalia, ma un modo riduttivo di vedere le cose. Pochi si sono addentrati nella gamification; ancora meno sull’usare tecniche social all’interno dei processi aziendali, e non verso il pubblico; nessuno che abbia anche solo provato a parlare di ricerca e sviluppo social. Anche in questo caso, è vero che nel breve periodo probabilmente è dal customer care che si ottengono i maggiori risparmi; ma proprio la delicatezza delle soluzioni proposte dovrebbero rendere più cauti gli innovatori… senza contare che non di solo social vive l’azienda. Quando Leonardo Mangiavacchi, il responsabile Customer Operation Mobile Telecom Italia, ha cominciato a spiegare che dopo la prima fase di ingresso in Facebook e Twitter ora ci si sta riorganizzando per evitare che ci siano tecnici fissi su un singolo canale, Emanuele Quintarelli che moderava la tavola rotonda ha chiesto che si rientrasse in tema. Eppure la mattina stessa John Hagel aveva mostrato come la gente (gli utenti, i clienti) non sono mica incollati a un singolo mezzo per comunicare! Tutti noi usiamo Facebook, LinkedIn, Twitter e a seconda di dove ci troviamo cambiamo modo di comunicazione, e non facciamo fatica ad adeguarci al mezzo. Perché non si dovrebbe fare la stessa cosa per rispondere a una richiesta? A seconda di come la cosa prosegue si potrebbe cambiare canale; volete mica cambiare anche operatore?
In definitiva, iniziative come il Social Business Forum hanno indubbiamente un loro perché, ma non danno ancora risposte chiare e complete (non dico definitive, nulla è definitivo!). Speriamo nel 2013, Maya permettendo!

Calcolatori e codifiche

Quando ho parlato di calcolatori e alfabeti ho barato. Più precisamente, ho omesso di parlare dei vari insiemi di caratteri che assomigliavano vagamente all’ASCII, nel senso che lettere e numeri stavano al loro posto ma altri caratteri no. Chi è vecchio come me forse ricorda ancora l’Apple ][, con i suoi caratteri in negativo (ma solo maiuscoli! O erano quelli lampeggianti? Chi se lo ricorda più…) Chi ha giusto qualche anno in meno invece dovrebbe riuscire a ricordarsi il font semigrafico dei primi PC IBM: la cosiddetta “code page 437“, che per mezzo di magheggi vari permetteva anche di usare le posizioni riservate ai caratteri di controllo per fare le cornicette. E comunque Windows aveva la sua propria codifica a otto bit, Windows-1252 (no, non ne avevano provate altre 1251! Semplicemente, i vari Windows 125x corrispondono logicamente agli ISO-8859-y, e permettono di scrivere in alfabeti diversi da quelli latini standard). Anche Apple andava avanti per conto proprio, e fino a OS X aveva il suo charset, Mac OS Roman. Ma anche ora che siamo più o meno tutti d’accordo a usare Unicode in una versione o nell’altra non è che le cose funzionino così bene…
[una schermata tipica di un gioco Apple - da http://www.fadden.com/techmisc/cassette-protect.htm] [Il font dei primi PC IBM - da Wikipedia, File:Codepage-437.png]
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Fotografare i monumenti: sembra facile!

Non fate finta di niente: lo sapete anche voi che l’anno inizia il primo settembre, e non a Capodanno. Quest’anno addirittura il centro-nord ha avuto i famigerati temporali-di-fine-estate in ritardo, e così anche le condizioni meteorologiche hanno segnato il passaggio al nuovo ciclo annuale.
Anche nel mondo di Wikipedia settembre sta diventando un mese importante: quello di Wiki Loves Monuments, che in soli tre anni si è trasformato da un’iniziativa olandese a un concorso europeo prima e mondiale adesso. L’edizione 2012 vede per la prima volta partecipare anche l’Italia: avete tempo fino a fine mese per caricare le vostre foto dei monumenti in concorso, seguendo le regole qui indicate. Niente di complicato: la partecipazione è libera e gratuita, e gli unici vincoli sono di usare un indirizzo email valido per essere contattabili e di rilasciare le immagini con una licenza libera, la CC-BY-SA che permette a chiunque di riutilizzare l’immagine, anche modificata e/o per uso commerciale, purché l’autore originale venga citato e si lascino gli stessi permessi. Un’immagine vale mille parole, dicono: questo vale anche per Wikipedia, sia perché la stessa immagine può essere usata nelle pagine di tutte le lingue in cui è scritta l’enciclopedia che perché è più improbabile che un’immagine sia tacciata di punto di vista non neutrale (sì, può capitare, ma bisogna mettercisi di buona lena)
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Per Wikipedia non sono io quello che sa di più di me?

Venerdì scorso corriere.it ha pubblicato un articolo, che dovrebbe anche essere apparso sabato sull’edizione cartacea, raccontando della querelle tra lo scrittore americano Philip Roth e l’edizione in lingua inglese di Wikipedia: trovate il resoconto anche sul Post, anche se forse coi vari passaggi lì si è persa una distinzione fondamentale che rende più complicato capire la vera ragione della diatriba.
Roth ha scritto una lettera aperta a Wikipedia e l’ha inviata al New Yorker, che naturalmente l’ha pubblicata senza indugio. Nel testo, Roth dice che un non meglio identificato “amministratore di Wikipedia” si è rifiutato di eliminare un riferimento all’interno della voce sul suo libroThe Human Stain” (tradotto in italiano come La macchia umana); un suo intermediario aveva cercato di togliere la parte di testo in cui si affermava che l’ispirazione per il protagonista del libro era giunta dalla figura del critico letterario Anatole Broyard, ma senza riuscirci. Il sysop avrebbe inoltre più o meno affermato “capisco il suo punto per cui è l’autore ad avere l’ultima parola sulle interpretazioni della propria opera, ma se non c’è una fonte secondaria questo a Wikipedia non interessa”.
La cosa divertente è che se adesso uno consulta la pagina in questione, trova le affermazioni di Roth, insieme alla citazione della fonte secondaria: l’articolo del New Yorker. Abbastanza idiota, vero? Beh, non propriamente. Qui nel seguito vi spiego un po’ più nel dettaglio cosa è successo, e poi faccio qualche considerazione più generale sulle politiche di Wikipedia, non solo quelle legate alle voci, Un doveroso grazie va a Luca Martinelli e Cristian Consonni che hanno scavato e recuperato un po’ di dati.
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Amami, su!

Il 5 ottobre 1962 la Parlophone pubblicò nel Regno Unito un disco a 45 giri etichettato R4949. Il brano inciso sul lato B si intitolava P.S. I Love You, mentre il lato A conteneva un brano lungo due minuti e ventidue secondi: Love Me Do. Nasceva così ufficialmente la leggenda dei Beatles.
Beh, non è che possiamo dire che la nascita sia stata proprio col botto: il singolo salì solo al diciassettesimo posto nelle classifiche di vendita britanniche, e anche questo probabilmente solo perché Brian Epstein comprò un numero non quantificato di copie che restarono per un po’ nei magazzini della NEMS. (Paradossalmente, quando venne ripubblicato nel 1982 ebbe un risultato molto migliore, raggiungendo la quarta posizione: negli USA arrivò al top di Billboard, ma solo perché venne ripubblicato dalla Capitol nel 1964). Insomma, per parlare di Beatlemania bisognerà aspettare il singolo successivo, Please Please Me.

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