Batteria kaputt

Ieri sera Anna ed io siamo andati a cena a casa di Loris. Siamo arrivati a casa sua, lasciando la macchina dove c’era spazio (quindi in divieto di sosta su una via chiusa: sulle strisce gialle di posti ce n’erano a bizzeffe, ma i pochi posti sulle blu erano tutti occupati) e cenato amabilmente. Usciti di casa, entro in macchina, giro la chiave e si spegne tutto. Non è che il motorino d’avviamento girasse a vuoto: non girava e basta. Il quadro elettronico ha iniziato a dare i numeri, pensando probabilmente di essere un succedaneo di un albero di Natale. Vabbè, penso, chiamo Loris e vedo se ha i cavi. Peccato che lui e Michi stessero riportando a casa Roberto, e lui avesse lasciato a casa il cellulare. Comincio a pensarci un po’ su, e mi viene in mente che il cellulare di Roberto ce l’avrei anche… in qualche email. Lancio la connessione gprs a gmail, recupero il numero, lo chiamo, ma oramai lui era già stato lasciato a casa: fortunatamente però Loris stava arrivando, e nonostante le sue gufate su come fosse successo la stessa cosa con la macchina della Michi e non ci fosse stato verso di farla partire la nostra 147 si è messa immediatamente in moto appena sono stati messi i cavi.
Anna è convinta che qualcuno avesse tentato di rubare l’auto e l’antifurto si fosse scaricato; secondo me è molto più probabile che le batterie al giorno d’oggi siano un sistema binario, e si sia scaricata di colpo, o per meglio dire non abbia più il voltaggio necessario per fare partire il motore. In effetti, dopo avere parcheggiato sotto casa – non siamo scesi nel box per evidenti ragioni – Anna ha provato a riaccenderla immediatamente e il risultato è stato esattamente quello di prima: buio totale. Quattro anni e mezzo mi sembrano una durata possibile per una batteria, così ad occhio: devo poi aggiungere che erano due o tre mesi che mi accorgevo che quando partivo i fari davanti erano leggermente tremolanti, almeno per i miei occhi – Anna diceva di non vedere nulla di strano, ma per questo tipo di cose un mezzo cecato come me è più adatto – e mi sa che fossero i primi sintomi dello schianto finale. Diciamo che c’è andata ancora bene.

Sembrava troppo bello

Ricordate il trasloco di Accenture dal palazzo dove c’è il nostro ufficio, con conseguente (?) liberazione di un bel posto per bloccare la bicicletta? Bene, venerdì sera la guardia mi ha intimato che a partire da oggi avrei dovuto lasciare la bicicletta sopra, quindi non coperta e in un posto che secondo me è l’ideale per un ladro che passi da quelle parti. Sì, è vero che finalmente hanno riparato il cancello che quindi resta generalmente chiuso, ma mi sa che la cosa non durerà a lungo. Secondo voi, è possibile denunciare il datore di lavoro se vi rubano la bicicletta (lucchettata, claro) in orario di lavoro?
p.s.: la rabbia maggiore è che le moto continuano a parcheggiare nel cortile interno.

A ciascuno le sue prediche

L’omelia di oggi di Eugenio Scalfari parla del suo collega, Joseph Ratzinger. Mi sembra giustissimo: come io parlo di chi mi pare, non vedo perché non possa farlo anche lui. Se non ho letto male il suo primo paragrafo, ce l’ha con Benedetto XVI: anche in questo caso non vedo nulla di male per avere le proprie opinioni, soprattutto quando sono discusse e spiegate.
Però al secondo paragrafo mi sono fermato. Non certo perché «Per certi cattolici il pensiero di un laico non credente può forse non avere rilievo alcuno o può esser tacciato di indebita interferenza» (testo che in effetti è ancora nel primo paragrafo :-) ), ma per questa sua frase: «Prima osservazione. L’enciclica porta un sottotitolo che indica i destinatari del documento: “Ai vescovi ai presbiteri e ai diaconi e a tutti i fedeli laici sulla speranza cristiana”. E’ strano che un’enciclica elenchi fin dal titolo i suoi destinatari.».
Se Scalfari avesse provato a farsi fare da qualcuno una ricerca ancorché minima sull’argomento, avrebbe scoperto che Ecclesia De Eucharistia, l’ultima enciclica di GP2, inizia con “Ai vescovi ai presbiteri e ai diaconi alle persone consacrate e a tutti i fedeli laici”. La penultima, Fides et Ratio, con “Venerati Fratelli nell’Episcopato, salute e Apostolica Benedizione!”. Banalmente, Deus Caritas Est, il precedente lavoro di Benedetto XVI, ha esattamente lo stesso inizio: “Ai vescovi ai presbiteri e ai diaconi e a tutti i fedeli laici sull’amore cristiano” (noticina mia: a questo punto mi immagino che la terza enciclica ratzingeriana sarà sulla fede :-) )
Ci si può lamentare che il papa parli (ufficialmente) solo alle sue pecorelle, anche se ho l’impressione che aggiungere “a tutti gli uomini di buona volontà” come Giovanni XXIII fece nella Pacem In Terris oggi verrebbe visto come un’ingerenza e non come un segno di attenzione; resta il fatto che non vedo perché perdere tempo a leggere una paginata di roba che fin dal suo inizio mostra che il nostro non sa esattamente di cosa stia parlando. Per queste cose bastano i blogh :-)

Teoria e pratica ATM

Confermo – è la seconda volta di fila che ci capita – che il 7 che dovrebbe passare il sabato sera davanti a Zara M3 in direzione centro alle 19:02 non esiste se non negli stampati ATM, o se esiste passa con almeno sette minuti d’anticipo. La cosa non sarebbe così grave, se non fosse che per arrivare allo Strehler alla 19:30 il tram successivo deve essere perfettamente in orario. Queste due volte è stato così, ma basta un semaforo perso o un imbecille che lascia la macchina male ed è finita… Ma tanto ATM dirà subito che non è colpa loro, su quello hanno una puntualità stratosferica.

Tre sorelle (teatro)

Ieri sera siamo stati allo Strehler per vedere questo dramma di Anton Cechov per la regia di Massimo Castri. Non che la pagina sul sito dica molto: tanto per dire, per sapere chi sono i vari personaggi occorre prendere il PDF della locandina.
Risultato? Avrei fatto molto meglio ad evitare. Innanzitutto, sono tre ore e mezza di spettacolo (ed è ancora accorciato rispetto alle quattro ore dell’esordio!), ma non tanto perché l’opera sia così lunga di suo: no, è proprio la regia che ha voluto cercare di convincere il – non eccessivamente folto, a dire il vero – pubblico che Cechov era in realtà un antesignano del teatro della seconda metà del XX secolo. Peccato che a questo punto me ne potevo andare a vedere Beckett, Pinter e Ionesco.
La scena è vuota, se non per un grosso tavolo in mezzo con relative sedie, e … le valigie, che tutti i personaggi hanno con sé, non so se per indicare le miserie della vita, la volontà di andarsene via – anche se poi le uniche che lo vorrebbero davvero rimarranno nella sperduta città di provincia russa – o chissà cos’altro. I personaggi ripetono le loro battute più volte, ma sembra più che altro che nessuno ascolti cosa dicono gli altri. Alla fine arriva anche una carrozzina stile Corazzata Potemkin, ma per fortuna non ci sono scalinate ma solo un pavimento un po’ sconnesso in pietra e quindi non ci sono danni al pupo.
Sul testo? Beh, sicuramente tutti i personaggi sono dei perdenti, non c’è nemmeno quel raggio di speranza che ha Il giardino dei ciliegi. Non solo tutti sono chiusi nelle loro piccinerie, ma non riescono nemmeno ad accorgersi che i loro sogni, se venissero realizzati, diventerebbero degli incubi: da un certo punto di vista, il sognare è l’unica cosa che li fa ancora vivere, per quanto male. Lancinante, ma non troppo diverso da quello che ci capita al giorno d’oggi.

Di cotte e di crude (ristorante)

Ieri sera Anna ed io siamo andati a mangiare in questa “asticeria”. Il locale è in via Porro Lambertenghi 25 a Milano (telefono 02-6688455), e se non si sa che c’è si fa fatica a trovarlo: è un’unica vetrina, con dodici coperti in tutto. Anche la gestione è molto minimalista: Paolo Arrigoni fa tutto, dal cameriere al cuoco, oltre naturalmente ad andare a comprare tutte le derrate.
Come avrete probabilmente immaginato, il ristorante ha relativamente poche proposte, e l’astice la fa da padrona. Astice che vedete lì nell’acquario, roba che non è per deboli di cuore insomma. Naturalmente tutto questo ha il suo costo, e non pensate di cavarvela con meno di cinquanta euro a testa. Però il posto è grandioso se uno deve fare bella figura con una donna: il menu “per lei” è rigorosamente senza prezzi. Ah, tra i dolci il cannolo “aperto” è semplicemente spaziale.
Il più grande errore del proprietario? far fare il proprio sito Web a tale “milanocommunication s.n.c.”, col risultato che il sito non può essere visitato con Firefox.

quante gambe?

Leggendo God Plays Dice, ho trovato un link a questo indovinello (in inglese: in effetti qualche settimana fa Clelia mi aveva mandato la versione italiana, quindi immagino che sia sufficientemente vecchio). “C’è un bus con sette bambini, ognuno dei quali ha sette zaini; in ogni zaino ci sono sette gatte che hanno ciascuna sette micini. Quante gambe ci sono nel bus?” (nota: l’indovinello cambia ogni lunedì, quindi avete tempo solo il weekend per provare a risolverlo online!)
A differenza dell’indovinello della fiera di St Ives, qui non c’è trucco non c’è inganno; basta fare delle moltiplicazioni e delle addizioni e si arriva al risultato. Tra i “facts” dell’indovinello, ad esempio, viene specificato che i bambini hanno due gambe e i gatti ne hanno quattro (ok, in inglese “legs” funziona meglio: in italiano pensate a “gambe o zampe”), e che nel bus non c’è l’autista. Eppure in questo momento le risposte corrette sono solo il 16% del totale. Pur considerando il fatto che uno può sbagliare più volte prima di inserire la risposta corretta, e che molti avranno magari messo un numero a caso, resta il fatto che probabilmente più della metà di chi ha provato a rispondere ha dato una risposta sbagliata. Ma ancora peggio, leggendo il post di Isabel, sembra che tra i commenti ci sia gente che si sia lamentata perché “non è un problema matematico, ma di comprensione del testo” o perché “non è matematica, ma logica”.
Ribadisco che il problema, dal punto di vista aritmetico, è tranquillamente alla portata di un bambino in quarta elementare, e visto che è perfettamente lecito usare una calcolatrice non c’è nemmeno un problema di “sbagliare a fare i conti”. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate voi di tutto questo: siamo davvero messi così male?

Vittorio Magni

È morto improvvisamente lunedì mattina, anche se l’ho saputo solo adesso. La parte più “giocosa” dei miei lettori si ricorderà probabilmente di lui, e sennò non importa. Tanto qui è casa mia.
Ho conosciuto Vittorio ancora ai tempi di Fidonet, parliamo di quasi quindici anni fa. Prima solo per via telematica, poi anche di persona: quando ero a Roma per lavoro passavo spesso a trovare lui e Donatella, a fare due chiacchiere e spesso scroccare una cena. Una volta sono anche venuti a trovarci a Milano, e abbiamo scoperto che anche se lombardi si erano ormai abituati a salare le pietanze molto più di quello che facciamo noi.
Avete presente quando si dice “in rete non sai mai chi è quello dall’altra parte della tastiera”? Ecco, è verissimo. Vittorio, “OldVitt” come si firmava, era coetaneo di mio padre: classe 1934. Ingegnere nucleare, aveva lavorato letteralmente in mezzo mondo, ma da quando era in pensione si definiva vezzosamente “artigiano del legno” (no, lui diceva proprio “falegname”…). Ecco: a parte la sua simpatia e modestia innata, Vittorio era davvero “giovane dentro”. Sempre pronto a imparare cose nuove, e a discuterne piacevolmente (e in maniera intelligente, ma quello era sottinteso).
Addio. No: arrivederci.