Archivi categoria: italica_stampa

La Stampa ritorna al copyright totale

Tanti anni fa La Stampa decise di pubblicare gli articoli – prima quelli di Tuttolibri dal 2006, poi dal 2015 tutti quelli del giornale online – con una licenza Creative Commons; la più restrittiva tra quelle licenze, visto che non era possibile un uso commerciale né modificare il testo, ma comunque una licenza che non si riservava tutti i diritti. Ora ha deciso di cambiare idea, come spiega Anna Masera: si ritorna al copyright classico.

La cosa non cambia per nulla la mia vita, a dire il vero, visto che non mi è mai capitato di copiare verbatim un articolo di un giornale. D’altra parte Masera lo esplicita anche: la decisione è stata presa «per uniformarsi alle altre testate del gruppo Gedi», e sapete bene come i De Benedetti siano sempre stati in prima fila nella lotta per mantenere bello stretto il controllo sulle notizie. Né si può dire che il quotidiano torinese abbia mai pensato di sfruttare l’idea di un giornale con i contenuti un po’ distribuibili. Parafrasando quanto dice il mio amico Marco Renzi, se vuoi sperimentare va bene, ma allora devi anche pensare a costruirti una comunità attorno, cosa che non si è certo vista. Insomma, la scelta di abbandonare le licenze CC merita rispetto e non c’è da alzare alti lai contro questa presunta perdita di libertà.

Quello però su cui dissento fortemente sono le motivazioni addotte. Masera non può venirci a dire che «etichetta vuole che sul web si condivida l’url e non il pdf o lo screenshot (foto dell’articolo), nel rispetto del modello di business scelto dall’editore.» La public editor della Stampa sa infatti benissimo che questo si poteva e si può fare anche con il copyright classico; anche la direttiva europea sul copyright, fin dalle sue prime bozze, ha sempre permesso l’uso del collegamento ipertestuale, con grave scorno di taluni per cui bisognerebbe pagare anche per il link. Ma credo che il massimo sia raggiunto dal caporedattore Alberto Infelise, che nel tweet in figura dimostra di non sapere affatto di che si parla. Vi consiglio di leggere il thread completo. Gli è stato educatamente spiegato che la situazione per quanto riguarda le copie di uso commerciale non cambierà né dal punto di vista legale – già prima erano vietate – né dal punto di vista tecnico – non è che scrivere “© RIPRODUZIONE RISERVATA” impedisca di fare copincolla; ma lui resta testardo sulle sue idee. Una delle mie massime di vita è di evitare di fidarmi di quanto un esperto afferma sui temi diversi da quelli da lui studiati; ma a certi livelli io comincio anche a dubitare di qualunque cosa dica…

Titolisti vil razza dannata – reprise

Ieri è stata pubblicata sul Giornale un’inchiesta riguardo a Wikipedia. (Che io sappia, non c’è un link, dovete fidarvi), con interviste al vostro affezionato titolare e a Frieda. Il testo dell’intervista riporta correttamente le nostre affermazioni, ve lo anticipo subito: il titolo no, come già successo altrove. Non mi lamento tanto della frase “L’enciclopedia del mondo è già vecchia”, dove la scelta del termine è ovviamente legata al punto di vista del quotidiano, ma al catenaccio che dice “Calano gli autori – l’aggiornamento dei testi è più lento e meno frequente”. Le statistiche di Wikipedia sono pubbliche. Nella figura vedete quella relativa agli editor attivi, mentre per le pagine modificate potete andare qui. È indubbio che dal 2013 al 2014 c’è stato un calo di contributori; ma da lì in poi il loro numero è rimasto costante, con fluttuazioni legate al mese dell’anno. Possiamo dire che il numero è “stagnante” come nel testo (di nuovo: la scelta dei termini non è mai neutra, ma non ho il diritto di sindacare) ma non certo in calo. Lo stesso per le modifiche: un matematico rompipalle come me può affermare che avere un numero stabile di modifiche e un numero crescente di pagine significa che si fanno meno modifiche per singola voce, ma lì si entra in un terreno più complicato, perché ci sono voci che naturalmente richiedono sempre meno modifiche man mano che si assestano. Quello che continuo a chiedermi è che cosa ci guadagnano i titolisti a scrivere qualcosa che poi viene smentito nel corpo dell’articolo…

Ah, il catenaccio termina con “L’utopia del sapere cooperativo è entrata in crisi” che è tecnicamente corretto ma un po’ fuori contesto; ha più senso unito alla mia frase “siamo una riserva indiana”. In pratica, la Rete di trent’anni fa non esiste più, e si viaggia verso l’individualismo e la ricerca affannosa di like personali; da qui la crisi del sapere cooperativo, che però è da misurarsi rispetto al totale degli utenti e non nei numeri assoluti che per l’appunto restano costanti. Riconosco però che questo concetto non si può certo riassumere in poche parole, quindi non mi preoccupo più di tanto!

Titolisti, vil razza dannata

Una decina di giorni fa si è scoperto che una voce di Wikipedia creata nel 2004 era falsa, o più precisamente partiva da una base reale (un campo di concentramento a Varsavia nella seconda guerra mondiale) ma aveva “trasformato” il campo in uno di sterminio. Quel falso storico era presente in varie edizioni linguistiche: l’articolo più visitato era come capita spesso quello sulla Wikipedia in lingua inglese, ma c’era anche una versione in lingua italiana. Fin qua nulla di davvero nuovo, purtroppo: Wikipedia è uno dei terreni preferiti dai revisionisti, in questo caso polacchi.

Martedì scorso il Corriere ha pubblicato un seguito dell’articolo, dove parlo anch’io con il cappellino di Wikimedia Italia. La settimana scorsa ero stato al telefono quaranta minuti abbondanti: diciamo che se avessi potuto rivedere il mio virgolettato avrei suggerito qualche modifica, ma nel complesso direi che il mio pensiero è stato riportato correttamente. Wikipedia non è una fonte primaria, il che significa che si deve fidare di quanto scrivono altre fonti che si spera siano valide; in caso di guerre di edit si cerca di evitare il più possibile di andare a una votazione, perché la verità non si decide a maggioranza; ma anche che non possiamo sapere se un utente bannato all’infinito si è reiscritto con un altro nome e ora si comporta in maniera costruttiva. (Occhei, non ho aggiunto che all’atto pratico ci accorgiamo subito dallo stile di interazione di chi si tratta… È inoltre vero – o almeno questo è il mio punto di vista – che quando si scopre che qualcosa ampiamente creduto è falso è meglio lasciarlo scritto, indicando che è falso e le fonti che dimostrano la falsità, rispetto a cancellarlo. I complottisti diranno comunque che le fonti riportate sono fabbricate ad arte, ma non rischiamo che qualcuno magari in buona fede aggiunga di nuovo le informazioni errate.

Peccato che poi ci sia il titolo (ben spalleggiato dal catenaccio). Titolo:

Wikipedia e la bufala sul Polocausto: «Meglio gli errori che un controllo dall’alto». Così funziona l’enciclopedia libera

Quello che io affermo è che un comitato redazionale (“controllo dall’alto”, se volete dirlo così) porta inevitabilmente ad avere un punto di vista specifico nelle voci, che può essere o no corrispondente alla verità. Possiamo fare il classico esempio: la voce “Fascismo” nella prima edizione della Treccani era stata direttamente scritta da Mussolini. Il modello “dal basso” di Wikipedia è diverso, non migliore di quello di un’enciclopedia standard; è probabilmente più prono ad avere errori, che però per la massima parte durano relativamente poco. (Nel caso in questione, non credo che la bufala del campo di sterminio fosse solo citata su Wikipedia).

Ma quello che è peggio è il catenaccio:

Il portale, costruito dall’opera di volontari, non ha mai introdotto alcun sistema per prevenire le storie false. «La comunità è sempre riuscita a mantenere l’equilibrio nelle opinioni»

Fatevi una domanda e datevi una risposta, direbbe Marzullo. Quali sono i sistemi per prevenire storie false? Quello che tipicamente si usa (ehm, diciamo si dovrebbe usare, visto quello che troviamo in giro) è il non pubblicare nulla fino a che non c’è una ragionevole certezza di verità. Wikipedia ovviamente non fa così, visto che non ci sono controlli a priori sull’inserimento di contenuti: ma un meccanismo c’è, ed è quello dei template di avviso citati del resto nell’articolo: voce da controllare e mancanza di fonti.


Questi avvisi hanno più di dieci anni di esistenza (anche se non c’erano ancora quando è stata creata la voce sul cosiddetto campo di sterminio di Varsavia) e sono nati proprio per aiutare l’utente ignaro. È vero che chi scrive su Wikipedia non è di solito un esperto, ma se è abbastanza bravo può notare che c’è qualcosa che non torna e segnalare così a tutti di fare attenzione. Poi ci sarà sempre chi non legge gli avvisi, ma c’è anche chi inoltra sempre bufale così malfatte da far pensare che tanto parlare con lui è tempo perso.

Bene, lasciamo Wikipedia e torniamo ai titolisti dei giornali. Cosa succede se il lettore che è come sempre di fretta non legge l’articolo ma si limita al titolo? Si fa un’idea del tutto sbagliata di quello che succede. E qui non ci si può neppure appellare alla solita scusa “non c’è abbastanza spazio”, perché il catenaccio ha più libertà. Capite perché io affermo sempre che i titolisti saranno i primi ad andare al muro quando ci sarà la rivoluzione?

Guai a postare link!

L’altro giorno su Repubblica (rectius, Robinson) c’è stato il ricorrente articolo che mette in guardia l’ignaro lettore dal pericolo di postare (caterve di) foto dei propri figli. Per la cronaca, l’autore dell’articolo, Vittorio Lingiardi, è professore ordinario di psicologia dinamica. Chi mi conosce sa che io non posto praticamente mai le foto dei miei gemelli, e quando le faccio li riprendo di schiena e soprattutto in situazioni di cui in futuro non avranno nulla da preoccuparsi: quando saranno maggiorenni, poi saranno affari loro come gestirsi. Insomma, non ho nulla da dire sulla tesi dell’articolo: ma sul contenuto sì.

Troviamo frasi come queste: «Come documenta il New York Times, cresce il numero dei bambini e degli adolescenti che, risentiti per la violazione della loro privacy, hanno deciso di affrontare i genitori.» «Intervistata sul Guardian, una mamma dice che pubblica le foto dei suoi bambini per “dimostrare di essere una brava mamma”.» «Ho letto che, secondo uno studio condotto nel 2015 dall’associazione inglese Parent Zone, un bambino attorno ai 5 anni è già protagonista di almeno mille foto postate dai genitori.» «La Francia è corsa ai ripari, con una legge sulla privacy che consente ai figli, una volta adulti, di denunciare i genitori per avere condiviso immagini in rete senza il loro permesso.» Cos’hanno in comune queste frasi? Semplice: non hanno nessun link.

Non ho dubbi che Lingiardi quei siti li abbia letti o almeno scorsi. Ho anche presente che Robinson esce (anche) su carta, dove si fa più fatica a mettere i link. Ma continuo a trovare inqualificabile che nella versione in rete questi link non ci siano. Sarà magari vero che il 90% dei lettori tanto non saprebbe leggere articoli in una lingua diversa dall’italiano, e che non è difficile per i cognoscenti trovare i link (uno, tre, quattro; mi manca l’articolo del Guardian). Ma questo non significa nulla. Scopo di un giornale dovrebbe anche essere quello di fare da punto di partenza per successivi approfondimenti: da noi questo è impossibile.

Libero (ma non dal reggiseno)

L’altro giorno Libero è riuscito a scrivere un articolo dall’inequivocabile titolo “Sea Watch, Carola Rackete senza reggiseno in Procura: sfrontatezza senza limiti, il dettaglio sfuggito a molti” e con incipit “Sfrontatezza politica e sfrontatezza personale.”. Cosa è successo? La capitana della Sea Watch 3 si è denudata in pubblico? Macché. Aveva semplicemente una maglietta sotto la quale non portava reggiseno.

Ammetto di non avere idea della comodità o meno di quell’indumento, ma mi pare anche che indossarlo o meno sia una scelta della signora. La maglietta in questione era comunque accollata, quindi non c’era proprio nulla da vedere… se non evidentemente per l’ignoto articolista di Libero. Io non ho partecipato alla colletta per acquistare una Sea Watch 4, ma se serve posso contribuire all’acquisto di qualche paio di “occhiali a raggi X” dalla Same Govj…

Font buttati lì

Perché il titolo a sinistra nella home page di Repubblica è scritto con una font senza grazie (sans serif), mentre quello di destra usa una font con grazie? Domanda intelligente. L’unica risposta che io mi sono dato è che il secondo è a pagamento mentre il primo no, e quindi si sia voluto distinguerli in questo modo. Mah: io non sono certo un grafico, ma una cosa del genere per me è davvero un pugno nell’occhio. Voi che ne pensate?

Ultimo aggiornamento: 2019-05-15 10:07

La diffusione dei quotidiani

Invece che parlare del titolo odierno di Libero, Marco Mazzei ha pensato bene di pubblicare gli ultimi dati sulla diffusione (cartacea + elettronica) dei quotidiani italiani. Era un po’ che non guardavo cosa succedeva, e in effetti di cose ce ne sono. Il Corriere della Sera ha ripreso di gran lunga il primo posto, e diffonde il 30% di copie in più di Repubblica: in compenso la Gazzetta dello Sport è molto scesa, pur restando il quinto quotidiano più letto. Il Sole-24 Ore ha ripreso la terza posizione dopo lo scandalo delle copie gonfiate. Il Fatto Quotidiano è in caduta libera, anche se quello messo peggio è Tuttosport. Ma quello che è più interessante è che ormai Avvenire si trova saldamente al sesto posto, con un numero di copie vendute molto importante nell’asfittico panorama italiano. Insomma, essere all’opposizione e non filogovernativi aiuta ;-)

Ultimo aggiornamento: 2019-01-23 18:28

Ancora inversioni a O

un'inversione a 360 gradi Cinque anni fa, Pietro mi aveva segnalato una “virata a 360 gradi”, che come potete immaginare non serviva a molto. Mentre nel frattempo c’è chi preferisce esagerare e andare a 370 gradi, stavolta Piero ha notato che è stata La Stampa ad annunciare “un’inversione a 360 gradi” (qui una versione salvata su archive.is).

È proprio vero: davanti ai numeri i cervelli si obliterano.

Ultimo aggiornamento: 2018-12-17 09:29