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eupnoico

L’altra domenica Anna ha portato Cecilia al pronto soccorso pediatrico (no, nessun problema grave, era un codice bianco; solo che prima di portarla aveva proprio un’aria abulica…). Nel referto c’era scritto che il paziente era “eupnoico”. Anna mi chiede “che vuol dire?”, io rispondo “boh, però se inizia con eu- vuol dire che è qualcosa che va bene”; salgo a consultare il vocabolario (cartaceo) e scopro che la parola non esiste, ma c’è “eupnea” che significa “respirazione regolare”, dal che deduciamo che il respiro era regolare.
D’accordo, ci saremmo forse potuti arrivare da soli pensando all’apnea. D’accordo, a casa nostra anche quando non usiamo l’internette non ci mancano certo i tomi di riferimento. Ma cosa costava scrivere nel referto “respiro regolare”, che magari qualcun altro con un referto simile si tranquillizzava, invece che chiedersi quale brutta malattia il suo pargolo avesse? Sono proprio cose che non capisco.

Ultimo aggiornamento: 2010-02-24 07:00

Cinquanta parole: ma quali?

Sabato scorso La Stampa pubblicava un articolo su un’iniziativa di Zanichelli per indicare “le 50 parole italiane da salvare”. Bella cosa, ma…
Innanzitutto chi ha letto l’articolo sul cartaceo ha potuto vedere la lista delle parole in formato grafico, ma chi lo legge via web non solo non ha a disposizione l’immagine, ma non si trova nemmeno un link al sito della Zanichelli dove c’è la lista (per la cronaca, l’ho trovata qua) Questo è il solito problema dell’italica stampa, che non riesce ancora a pensare né in termini di fruizione web né in quelli di interconnessione; mi sa che non si possa fare molto.
Aggiungo però anche un commento sul merito dell’articolo. Dire che i termini desueti nelle coppie di non-esattamente-sinonimi restano «nella disponibilità di un manipolo ristretto di aristocratici del linguaggio» non è che abbia chissà quale senso. Se quei termini non sono nemmeno nella conoscenza passiva della gggente, insomma se non sanno proprio cosa vuol dire, allora è come se non esistessero già più. Altrimenti sono comunque destinati a morire, proprio perché non c’è massa critica per perpetuare la sfumatura diversa del significato. Ma credo che sia più importante confutare la logica nascosta dietro la frase «il parlare di tutti i giorni è affidato a non più di 2.500 parole che da sole esauriscono l’80% di tutti i nostri enunciati». La frase credo sia corretta; ma non mi sembra un problema. Magari qualche esperto di linguistica computazionale mi smentirà, e forse potrei verificare da solo il tutto con qualche opera classica; ma non mi sembra così strano che poche parole costituscano la gran maggioranza dei nostri discorsi. Sì, ci sarà tutto il discorso della coda lunga, ma mi preoccuperei di una lingua per cui conoscendo 2500 parole si possa comprendere solo un terzo di quelle presenti in un articolo di giornale; ci sarebbe troppa diversità per impararla seriamente.
ps: Non c’entra nulla, ma una mia foto è stata citata (con fonte) nel blog della Zanichelli sull’osservatorio della lingua italiana. Ce n’è anche una di Licia.

Ultimo aggiornamento: 2010-02-08 12:27

teletrasporto di parole

La settimana scorsa Martino mi segnalò questo articolo del Corsera, che non merita di restare nell’oblio. Non mettiamo becco sull’esperimento, ma sull’italiano sì. Già l’incipit, «Nei fantascientifici esperimenti di teletrasporto che Star Trek ci ha già fatto conoscere nella dimensione fantastica ora gli scienziati tentano il colpo grosso», non è male: il senso è più o meno chiaro ma la frase zoppica vistosamente. Il meglio è però, almeno a mio giudizio, la frase «L’impresa è ardua ma già è sulla carta preparata»: una via di mezzo tra una poesia di Sandro Bondi e un bigliettino della fortuna…. o forse l’esperimento non riguardava una sferetta di silicio ma le parole di un testo!

Ultimo aggiornamento: 2009-12-30 07:00

presidio

La Camera del Lavoro Metropolitana di Milano (la parte CGIL, non so bene come funzioni al suo interno) scrive:
«A seguito dell’uccisione di alcuni nostri soldati a Kabul abbiamo indetto un presidio
(stiamo lavorando perché sia unitario) oggi dalle ore 17.30 alle ore 19.00 in Piazza San Babila».
Io avevo imparato che un presidio è una guarnigione militare stanziata da qualche parte o più in genere un gruppo che sorveglia un luogo; sindacalmente si può fare ad esempio un presidio davanti a un’azienda che minaccia la chiusura. In senso figurato, “presidio” può significare “tutela, salvaguardia”. Il tutto non mi pare c’entri una cippa con i nostri soldati morti a Kabul. La lingua italiana vorrebbe che si tenesse una manifestazione per chiedere il ritiro delle truppe (immagino che la CLMM non voglia fare una commemorazione dei connazionali defunti); ma l’italiano non è più molto di moda.
Qualcuno vuol fare un presidio a difesa della nostra lingua?

Ultimo aggiornamento: 2009-09-17 16:01

barocchismità

C’è una caratteristica della lingua italiana che mi è sempre stata sullo stomaco. Sembra infatti che non si possa usare una parola semplice, ma la si debba complicare. Così non abbiamo un problema, ma una problematica; il tema diventa subito una tematica; la scansione di un documento è per forza una scannerizzazione, e non si usa nulla, perché lo si deve utilizzare. Infatti abbiamo l’utilizzatore finale, mica l’utente finale!
Lo so, basta aprire il dizionario e scoprirei che tematica e problematica significano “insieme di temi / problemi”. Potrei fare il figo, tirare fuori le mie reminiscenze latine e parlare di verbi intensivi e frequentativi, quelli che si formano a partire dal supino di un altro verbo e quindi sono allungamenti vecchi di duemila anni. Ma la cosa non mi piace comunque, perché la mia impressione è che la gente usi (“utilizzi”) le parole più lunghe perché crede così di dire qualcosa di più importante. A me una cosa del genere sembra davvero triste: coprire con paroloni l’incapacità di avere qualcosa da dire davvero. Ma non per nulla il barocco qui in Italia ha prosperato.

Ultimo aggiornamento: 2009-07-09 07:00

come sbagliare l’etimologia

Ieri mattina, mentre sentivamo il giornale radio con le devastanti notizie sull’influenza suina – devastanti nel senso che cercano disperatamente di montare un caso che al momento non c’è e non sembra nemmeno essere vicino – Anna mi chiede “Ma virulento e virus hanno la stessa etimologia?” Io, con la sicumera che vi è ben nota, dico “mannò! virus è una creazione moderna, mentre virulento arriva da vis, forza”.
Poi sono andato a verificare. Ho così scoperto che virus è una parola latina che significa “veleno” (come anche venenum, del resto), e che virulento deriva appunto dal tardo latino virulentum, coniato appunto a partire da virus. Insomma, ho sbagliato su tutta la linea… ben mi sta.

Ultimo aggiornamento: 2009-05-04 07:00

Non gli dette più retta?

Segnalo, via Fausto Raso, che la Dante Alighieri ha preparato una nuova serie di esercizi sulla lingua italiana. Lui è molto più pignolo di me, e si lamenta perché scrivere “morí” invece che “morì” sia considerato errato; è vero che le edizioni Einaudi usano indicare che la i è una vocale acuta, ma il segnaccento generalmente utilizzato è quello grave. Inoltre la Dante Alighieri si occupa dell’italiano come lingua straniera: probabilmente è meglio fare in modo che gli ispanofoni tengano a mente che mentre nella loro lingua tutti i segnaccenti sono acuti (áéíóú) da noi non è così. (Poi possiamo chiederci che tastiera usa Fausto Raso, visto che in quella italiana la i accentata è “ì” e non “í”; sono io che ho la tastiera virtuale US-International e quindi nessuna lettera accentata)
Più grave, invece, vedere come la forma “dette” per il passato remoto del verbo dare non è considerata valida. Il De Mauro riporta “diede o dette”. Il Garzanti riporta “diede o dette”. Insomma, non toglieteci le poche certezze della scuola elementare!

Ultimo aggiornamento: 2009-04-09 10:17