Ve lo dico subito: non vi racconto come si fa a vincere al Superenalotto, ma non mi metto nemmeno a fare tutte le solite storie sui 622 milioni di schedine possibili, sul fatto che il modo migliore di vincere è non giocare, e che cento milioni di euro sono molto più di quanto possa ragionevolmente spendere qualcuno. Lo fanno già in tanti, e non mi sembra serva a qualcosa. Preferisco un approccio più pragmatico e non così distruttivo.
È chiaro che il Superenalotto, come tutti i giochi di azzardo, statisticamente fa guadagnare lo Stato e non certo i giocatori. Solo il 34.6% delle giocate viene redistribuito nel montepremi: quindi per ogni euro giocato in media mi dovrei aspettare di ritrovarmi meno di 35 centesimi. Per prima cosa, il conto è sbagliato; il jackpot continua a crescere con i soldi non vinti in precedenza, anche se comunque non ne vale la pena: giocare tutte le possibili combinazioni costerebbe 311 milioni di euro, giusto per dare un’idea. Ma quella della vincita media è però una statistica alla Trilussa; nient’altro che il numerino che esce fuori da una formula di Excel™ o del vostro foglio di calcolo preferito, e che nella vita reale può o meno essere importante.
Elwyn Berlekamp un giorno mise giù la cosa in questi termini: “Supponete di dover necessariamente lasciare l’isola dove vi trovate, ma non abbiate i soldi necessari per il volo: il biglietto costa 360 euro e voi ne avete solo 10. Se lì vicino c’è un casinò, la vostra migliore chance è andare e puntare i costri dieci euro su un numero secco. Tanto restare con dieci euro o al verde è solo lo stesso!” Detto in altro modo, un conto è il guadagno teorico atteso, ma all’atto pratico possono essere più importanti altre considerazioni. Insomma, se uno decide di andare dal tabaccaio a farsi le due schedine esattamente come potrebbe andare al bar a prendersi cappuccino e brioche non è certo un problema, sempre che sappia che quei soldi li ha probabilmente persi. Il vero problema è quando uno continua a giocare sempre più soldi per recuperare quelli persi nei concorsi precedenti; quello sì che è pericoloso, e spero nessuno dei miei lettori sia finito in questo vortice. Temo che spesso sia così: tra l’altro, rispetto all’ultima megavincita di fine 2008 si può notare come con un concorso in meno ci sia un montepremi maggiore di quasi il 10 percento. Semplicemente un sottoprodotto della crisi?
Veniamo al montepremi abnorme. A parte che dopo avere scoperto che a maggio in Spagna hanno vinto 126 milioni di euro ho vieppiù capito che ormai i cugini poveri siamo noi, tutti i commentatori che tuonano contro le grandi vincite partono da un assunto: che la gente giochi singolarmente la schedina. Sarà vero? Io non lo so, ma mi sembra abbastanza comune vedere ad esempio venti persone che si coalizzino per giocare venti colonne. Il risultato pratico è moltiplicare per venti la probabilità – infima, occhei – di vittoria, dividendo per venti l’eventuale vincita e facendo soffrire molto meno i vincenti della cosiddetta “sindrome della fortuna”.
Insomma, la matematica è sempre una cosa seria: non basta tirare fuori una formuletta perché le cose funzionino sempre perfettamente! (Per i curiosi: no, io non ho mai giocato al Superenalotto, e credo di aver giocato una volta al Totocalcio con mia nonna quando avevo dodici anni; come vedete, posso pontificare da perfetto ignorante!)
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Diversamente esclusive
2012 – fine del mondo (informatico)
Non c’entra nulla il calendario Maya, Giacobbo o le tempeste solari. Parlavo un paio di settimane fa con Loris e altri informatici, e mi dicevano che il webcast di Radio105 – non mi ricordo quale trasmissione, qualcosa tipo “viva la foca” – aveva raggiunto picchi di 6 gigabit al secondo di banda richiesta, e che di questo passo tra tre anni si sarebbe saturata Internet.
Fin qua nulla di strano, ai tempi di Usenet si sarebbe detto “film at eleven”; quello che però è a mio parere demenziale è il motivo per cui le cose stanno andando così. Semplificando all’estremo, ci sono due modi diversi di mandare dati a molte persone contemporaneamente. Il primo è usare un indirizzo speciale che può essere condiviso da più persone, e inviare i dati alla “come viene viene”, senza preoccuparsi di verificare che siano arrivati (multicast UDP). Il secondo prepara un canale per ogni persona, e verifica che i bit arrivino tutti regolarmente all’utente finale (flash embedded, in TCP). È ovvio a tutti che ennuplicare una trasmissione che stanno vedendo tutti è solo una perdita di banda; è meno ovvio che la verifica dei dati non serva, ma se ci pensate un attimo non state scaricandovi un file ma guardando un programma dal vivo, e quello che si è perso non lo si può certo recuperare.
Ma allora perché non si usa il primo sistema? È forse troppo recente? Macché, funzionava già trent’anni fa. Peccato però che i vari firewall aziendali sono configurati per eliminare i pacchetti UDP, e quindi chi trasmette è costretto a fare un’operazione assolutamente illogica e costosa: il tutto per mostrare le qualità intrinseche del mercato, che sceglie automaticamente le migliori soluzioni!
Le Tigri di Telecom (libro)
Questo libro (Andrea Pompili, Le Tigri di Telecom, Stampa Alternativa 2009, pag. 369, € 16, ISBN 978-88-6222-068-2) è il resoconto fatto in prima persona da uno dei dipendenti coinvolto nello scandalo delle intercettazioni Telecom. Evidentemente è una visione di parte: non entro nel merito della vicenda, non conoscendo le persone coinvolte né avendo seguito più di tanto le vicende giudiziarie collegate, ma trovo naturale che Pompili racconti la sua versione dei fatti. Dal punto di vista della prosa, la prima parte del libro è piuttosto pesante, anche perché “spiegare il mondo hacker” a mio parere è qualcosa di assolutamente inutile, un po’ come spiegare cosa succede in un rapporto sessuale. Perlomeno l’autore sa di che si parla, il che non è poco. La seconda parte, con il precipitare degli eventi, è invece sicuramente più scorrevole; non so se per i temi trattati o perché dopo un po’ uno impara a scrivere meglio (a me capitò così, ad esempio :-) )
Sui fatti raccontati, posso assicurare che la disorganizzazione interna era assoluta, e solo negli ultimi due anni si ha un controllo puntuale su chi accede ai dati in esercizio; l’altra cosa che mi sento di aggiungere è che è effettivamente strano che alla fine sia calato completamente il silenzio sulla vicenda, come se in effetti fosse solo stata usata per coprire una guerra interna ed esterna a Telecom. Può essere insomma utile leggerlo per rinfrescarsi la memoria e ricordarsi di non prendere mai per oro colato quello che la stampa scrive; anche nelle migliori loro intenzioni, non è detto che sappiano la verità.
Il signor Brugola
Avete presente le brugole? se mai avete comprato qualcosa all’Ikea non potete certo dire di no. Io avevo passato più di un terzo di secolo felice e spensierato, ma alla fine sono stato costretto a comprarmene qualche set, anche perché sulla bicicletta ti servono sempre.
Bene: ho casualmente scoperto che la brugola si chiama così perché è stata inventata dal Egidio Brugola, fondatore della Brugola OEB Industriale (che se facesse il sito anche in italiano sarebbe meglio) di Lissone.
Eravamo 5 amici al bar … / Ero un Leoncino di Mompracem (libro)
Il libro che ha concluso la serie Sfide matematiche (Dario Zaccariotto e Dario De Toffoli, Eravamo 5 amici al bar … / Ero un Leoncino di Mompracem, RBA Italia 2009 [2000, 2001], pag. 141, € 9,99) sono in realtà due! Il primo, del solo Zaccariotto, raccoglie vari “problemi a griglia” pubblicati sull’edizione domenicale della Stampa: sono i problemi che La Settimana enigmistica definisce “prove di intelligenza” in cui occorre assegnare persone varie loro caratteristiche che collimino con gli indizi dati. Io personalmente trovo questo tipo di problemi noiosissimi, e l’unica cosa di un minimo interesse sarebbe scrivere un progbramma per farli risolvere al PC, quindi li ho saltati senza nemmeno pensarci troppo su. Diversa sorte per i problemini della seconda parte del libro, sempre apparsi sulla Stampa. Non sono certo problemi complicatissimi, e alcuni sono dei classici: però sono sempre piacevoli da leggere e risolvere mentalmente.
Naturalmente poi occorre capire se la logica (non necessariamente matematica) sia davvero interessante per la maggior parte della gente, ma si andrebbe un po’ troppo lontano!
Ho accusato le gatte ingiustamente
Quest’inverno, a un certo punto mi sono accorto che il mio PC non aveva più il “mouse clitorideo”, quello che sta in mezzo ai tasti della tastiera. Non che lo usassi mai, ma mi dava fastidio vederlo così: fortuna che Anna si è comprata un netbook Dell, così ho aggiunto dodici euro all’ordine e ho preso due tappini. L’idea che mi ero fatto è che le nostre simpatiche gatte, che amavano acciambellarsi sul PC bello tiepidino dopo il mio esagerato uso, l’avessero tirato via per giocare.
La scorsa settimana mi sono accorto che il clitomouse non c’era di nuovo più. Dopo aver sacramentato il puro necessario e prima di mettere l’ultimo tappino, ho fatto un po’ mente locale: col caldo che sta facendo, un gatto non è certo così stupido da mettersi a prenderne ancora di più. Chiedo ad Anna di domandare a Regina se per caso, quando viene a fare i lavori di casa, si mette anche a pulire la tastiera del pc, e la risposta è stata affermativa. Dopo aver ulteriormente sacramentato, mi chiedo due cose: (a) perché bisogna pulire la tastiera di un PC? (b) Con quale foga la pulisce, per riuscire a tirare via quell’aggeggio? Sì, lo so che è bravissima a spaccare le cose, ma se ogni tanto azionasse il cervello probabilmente riuscirebbe ad avere notevoli margini di miglioramento…
(sì, ho capito: il PC deve stare chiuso quando non è usato)
Il caso dei libri scomparsi (libro)
Questo libro (Ian Samson, Il caso dei libri scomparsi [The Case of the Missing Books], Tea Narrativa 2008 [2005], pag. 312, € 10, ISBN 978-88-502-1635-2, trad. Claudio Carcano) mi era stato segnalato da qualcuno come bellissimo; il qualcuno è fortunato che io non mi ricordi chi sia, perché altrimenti non lo farei più amico. La storia di per sé non è un gran che, con il protagonista londinese Israel Armstrong, bibliotecario mezzo ebreo e mezzo irlandese, che va in Ulster per un lavoro e scopre che le cose non sono esattamente come pensava lui, visto che non solo la biblioteca è circolante ma i libri sono scomparsi. Ma il peggio è che proprio non sono riuscito ad appassionarmi alle disavventure di Armstrong, il classico sfigato che per caso riesce ad avere un colpo di fortuna. Non basta l’indubbio amore per i libri che pervade il libro a far salire il voto.
Due note sulla traduzione italiana. Innanzitutto, non ha senso mettere decine e decine di note a piè di pagina – anzi a fondo libro – per spiegare chi erano Irving Berlin e Dewey: la probabilità che un lettore italiano non li conosca è esattamente la stessa che siano ignoti a un lettore inglese. La seconda cosa è una sensazione, e potrei sbagliarmi. In una delle gite di Armstrong a Bullygullable (qui la nota non c’era…) i locali parlano con un accento molto affettato e arcaico. Mi chiedo se è lo stesso tipo di accento dell’originale!