Ieri il Corriere della Sera ha pubblicato un instant book che raccoglie “centinaia di vignette, da tutto il mondo, ad opera di dilettanti e professionisti dell’immagine disegnata”, disegnate dopo la strage a Charlie Hebdo e i cui proventi sarebbero stati destinati al settimanale francese. Tutto bene? Macché.
Come prima cosa, il lavoro di editing è stato fatto alla bell’e meglio, prendendo le immagini a bassa risoluzione dalla rete e addirittura fotografando una vignetta di Leo Ortolani (che racconta la cosa su Facebook: per darvi un’idea, le immagini stampate dovrebbero avere una risoluzione tripla di quelle a video per avere una qualità confrontabile. Ma quel che è peggio è che al Corriere non è venuto in mente a nessuno che forse (forse…) sarebbe stato non solo opportuno ma anche necessario contattare gli autori, considerando che esiste ancora quell’arcaico istituto del diritto di autore. E dire che tutti gli articoli del Corriere – ma anche quelli degli altri quotidiani italiani – terminano con la frasetta magica “© RIPRODUZIONE RISERVATA”. Inutile dire che gli autori delle vignette non l’hanno certo presa bene: oltre a Ortolani, segnalo Giacomo K. Bevilacqua, Roberto Recchioni, e Jenus, che fa anche notare un particolare che mi era sfuggito: un omaggio a persone ammazzate per cercare di censurare le loro vignette in cui le vignette scomode sono state preventivamente censurate in onore della “libertà di stampa”. Ciliegina sulla torta: la frase all’inizio del libretto, “L’editore dichiara la propria disponibilità verso gli aventi diritto che non fosse riuscito a reperire.”
Attenzione! Qui il problema non è certo quello dei soldi, come qualcuno potrebbe ingenuamente pensare. Non è neppure quello del mancato riconoscimento della proprietà intellettuale: detto in altri termini, presumo che le vignette pubblicate nel libro siano state correttamente attribuite agli autori, perlomeno a quelli più importanti (c’è sempre chi è considerato di serie B, se non addirittura serie C, e finisce nel limbo dell’Autore Ignoto). Il vero punto chiave è lo stabilire quali sono i diritti di coloro che creano contenuto, quello che noi persone normali chiamiamo “proprietà intellettuale” anche se i talebani del copyleft come Richard Stallman e Lawrence Lessig non amano il nome. Come forse sapete, il concetto di copyright (“diritto di fare copie”) nasce in tempi relativamente recenti, venendo convenzionalmente fatto risalire alla promulgazione nel 1709 dello Statuto di Anna. L’idea di base era quella di tutelare l’autore di un’opera, che poteva cedere (a pagamento) i diritti di pubblicazione a un editore sapendo che dopo quattordici anni tali diritti sarebbero tornati in mano sua. In tre secoli le cose sono cambiate molto, con i diritti economici che sono man mano passati dagli autori agli editori: avete mai sentito parlare del Sonny Bono Act? Un tentativo di raddrizzare la barra ed equilibrare diritti e doveri degli utilizzatori è quello delle licenze Creative Commons. Anche qua i risultati non sono propriamente eclatanti: non avete idea degli sforzi per cercare di spiegare che testi e immagini da Wikipedia sono usabili senza pagare, ma ci sono delle regole da rispettare.
Nel caso del Corriere e delle vignette, però, la situazione è ancora diversa, e il problema va ben oltre il quotidiano di via Solferino. Come qualcuno dei disegnatori coinvolti ha fatto notare, magari qualcuno non aveva nessuna voglia di ritrovarsi pubblicato così in quel libro, per tutta una serie di motivi: da “ho promesso a mia nonna sul suo letto di morte che non avrei mai pubblicato una vignetta su un progetto di un gruppo editoriale italiano” a “ho disegnato la vignetta in un contesto specifico e inserirla in un altro contesto non rende più la mia idea originale”; da “mi andava benissimo che la mia vignetta fosse pubblicata, ma nella versione a qualità maggiore, non presa così che sembra che io non sia neppure capace a disegnare” a “di vignette sulla vicenda Charlie Hebdo ne ho fatta più di una, e secondo me quella più valida non è quella che è stata pubblicata”. Detto in altri termini, quello che mi pare manchi sia un modo per dare a un autore la possibilità di stabilire come vuole che la sua opera sia diffusa quando non ci sono diritti economici che si vogliono sfruttare. Se l’idea vi pare stupida, pensate a come vi sentireste se qualcosa scritto da voi venisse usato – indicando chiaramente l’autore – in una pubblicazione neonazista, oppure per par condicio su un manifesto trozkista.
La semplicità che si ha nel copiare e incollare ha insomma generato tra i tanti nuovi problemi anche quello della difficoltà – forse avrei dovuto scrivere impossibilità – di avere il controllo dell’uso dell’accoppiata “nome-idee”. Se ci pensate, è esattamente l’opposto di quello che è l’uso attuale del copyright: paradossalmente riprende gli stessi problemi che ebbe Shakespeare, che non voleva inizialmente pubblicare il testo delle proprie opere per evitare che compagnie rivali potessero rappresentarle ma fu costretto a farlo dopo che alcuni editori trascrissero più o meno fedelmente il testo ascoltato e pubblicassero brutte versioni con il nome del bardo di Stratford-on-Avon. Un conto è la libertà di circolazione delle idee, che permette a chiunque di costruire qualcosa di nuovo sfruttando quanto pensato da tante persone e cercando una propria nuova strada. Un conto è il doveroso riconoscimento di chi ha detto, scritto, disegnato, composto qualcosa. Ma credo che sia anche importante poter dire chi può appropiarsi del mio nome, che è cosa diversa dell’appropriarsi delle mie idee; e questo al momento non mi pare sia un tema molto considerato. Chissà se l’affaire Charlie Hebdo potrà essere un punto di partenza!