Quest’estate ho parlato di creatività. Dalla redazione di Voices mi è stato chiesto se io credessi che le tecniche per imparare a essere creativi funzionassero davvero: la mia risposta è stata un netto e convinto “nì”.
Avete presenti quelle pubblicità di prodotti che vi promettono di dimagrire / essere in piena forma / azzerare il colesterolo e così via, tutto con un asterisco? Asterisco che porta a una scritta in piccolo che spiega che “sì, è così se oltre ad assumere il prodotto si fa una corretta alimentazione / sufficiente moto / attenzione allo stile di vita”. Beh, probabilmente le tecniche per imparare a essere creativi hanno un asterisco simile, che dice “i risultati variano a seconda del vostro livello di creatività”. Come accennavo anche la volta scorsa, sono convinto che la creatività sia una dote che ciascuno di noi ha a livelli diversi, e la variabilità sia enorme; però almeno un minimo ce l’abbiamo tutti, e se impariamo le tecniche di base e ci alleniamo nel modo giusto possiamo svilupparla un po’. Non diventeremo dei nuovi Einstein, ma potremo comunque fare la nostra bella figura e risolvere i piccoli problemi di ogni giorno.
A proposito di piccoli problemi, eccovene uno proposto nel 1935 dallo psicologo Karl Duncker e che può aiutarvi a tirare fuori la vostra creatività. Siete in uno chalet, e avete a disposizione su un tavolo una scatoletta di cartoncino con una ventina di puntine da disegno, una candela e una confezione di fiammiferi svedesi. Come si può attaccare la candela al muro, senza bruciarlo (le pareti sono di legno)? La soluzione è a pagina 46… ehm, qui in fondo al post, per gli impazienti. Ma leggendo il resto del post forse vi può venire l’idea giusta.
L’ossimoro che almeno a partire dal secondo dopoguerra si è man mano affermato per quanto riguarda le tecniche per “creare creatività” è creatività sistematica. Lo so, a leggerlo così fa ridere: ma fa un po’ meno ridere – a qualcuno magari può persino far piangere… – quando si viene a sapere che la maggior parte degli studi a riguardo sono nati in ambiente tecnico-lavorativo. Insomma, quello che si voleva trovare era una sorta di industrializzazione della creatività, un po’ come gli oggetti di design costruiti in serie.
Storicamente il primo sistema di creatività sistematica è stato il TRIZ, nome che è un acronimo dal russo Teoriya Resheniya Izobreatatelskikh Zadatch, per i pignoli теория решения изобретательских задач: teoria della soluzione dei problemi inventivi. La storia degli inizi del metodo è, diciamo, interessante: il suo inventore, Genrich Saulovich Altshuller, iniziò nel 1946 una ricerca sistematica sulle invenzioni. Il suo lavoro, all’interno della Marina sovietica, era quello di verificare le innovazioni per presentarle poi all’ufficio brevetti; Altshuller pensò bene di cercare di capire quali fossero le similitudini nei progetti per ricavarne delle regole che rendessero più semplice ottenerne di nuove. Il suo lavoro fu bruscamente interrotto nel 1950, quando venne imprigionato in un gulag: le voci dicono che avesse scritto varie lettere a Stalin, spiegandogli i problemi che aveva riscontrato e il suo approccio rivoluzionario, e che il Piccolo Padre non abbia apprezzato quelle premure, ritenendo che l’unica rivoluzione possibile fosse la sua. Per sua fortuna, dopo che nel 1953 Stalin morì, Altshuller venne liberato, e continuò a lavorare sulla metodologia TRIZ… oltre che iniziare una nuova carriera come scrittore di fantascienza.
Il TRIZ è una metodologia molto pesante, anche perché ha come scopo quello di creare un modo algoritmico di arrivare alla creazione; tanto per dire, vi sono definiti 40 principi inventivi e 76 soluzioni standard. Penso sia chiaro a tutti che la sua applicazione non è esattamente banale, e così ci sono stati molti tentativi di semplificarlo, riducendo in minima parte la potenza ma rendendolo maneggiabile a una persona normale. Nulla di nuovo sotto il sole: gli informatici di una certa età sanno perfettamente che XML, rispetto a SGML, funziona quasi esattamente nello stesso modo. La differenza di base è che sono state eliminate molte caratteristiche poco usate per rendere più semplice la struttura del linguaggio permettendogli comunque di fare quasi tutto quello che faceva prima. Il risultato di questa semplificazione del TRIZ ha vari nomi, a seconda di chi lo vende… ehm, di chi tiene corsi per spiegare come e perché il metodo funziona: per esempio quello con cui io ho avuto indirettamente a che fare è l’ASIT. Il capostipite dei metodi light è però il SIT: l’acronimo sta per Systematic Inventive Thinking, insomma pensare in modo inventivo ma sistematico.
Ci sono due punti fondamentali alla base del SIT. Il primo è che non si vuole inventare nulla da zero, ma lo scopo è di migliorare qualcosa che c’è già. Su questo direi che non c’è nulla di particolarmente strano, a meno che qualcuno creda davvero che la maggior parte delle innovazioni spuntino dal nulla: a giudicare da tutti i processi per violazione di brevetto, direi che questo non è proprio il caso. Il secondo punto, invece, è probabilmente meno intuitivo. SIT infatti parte dal modello del mondo chiuso. Detto in altre parole, quando si pensa come migliorare un oggetto non bisogna “pensare fuori dalla scatola” (think out of the box) come in genere si sente dire, ma occorre pensare all’interno della scatola. Si suddivide l’oggetto in un certo numero, né troppo piccolo perché si ha troppo poco a disposizione né troppo grande perché ci perderebbe, di parti logiche e si lavora su queste singole parti. La cosa ha una sua logica, ma ve la spiego dopo. Dopo che i punti fondamentali sono stati chiariti, si passa a definire alcuni strumenti che si possono applicare alle varie parti e che possono o non possono portare a una soluzione creativa. Ribadisco che la creatività non si inventa: tutti questi approcci aiutano a fare emergere la vostra creatività ma non sono garanzia automatica di successo.
La sottrazione prevede di togliere una componente (che si immaginava essenziale…) dall’oggetto, e vedere se si riesce a farne a meno, aggiungendo magari ulteriori funzioni a quello che c’è già. Per esempio, un modo per evitare che un tavolino balli perché il pavimento non è perfettamente piano è togliergli una gamba: visto che tre punti definiscono un piano il tavolino rimarrà fermo, anche se non necessariamente orizzontale. La moltiplicazione prevede di aggiungere una componente simile a una già presente: la piccola differenza rispetto all’originale è la parte creativa. Immaginiamo un contenitore di sottaceti in salamoia: per poterli prendere senza bagnarsi troppo si può pensare a un contenitore che si apra sui due lati (quindi l’ho moltiplicato…) e abbia un filtro in mezzo che lasci passare la salamoia ma non i sottaceti. In frigorifero si lascia il contenitore con i sottaceti in basso; quando lo si porta in tavola lo si rovescia, così il liquido filtra verso il basso e si possono prendere i sottaceti. La divisione prevede di suddividere quella che inizialmente pare una funzionalità univoca, per semplificare la costruzione. Se ad esempio si volesse avere un grande orologio (analogico) da parete, può essere più semplice dividere la funzione delle lancette da quella dei numeri; questi possono essere direttamente disegnati sulla parete, e ci si può così limitare a costruire il meccanismo delle lancette.
Continuando con gli strumenti sviluppati in SIT, abbiamo l’unificazione che consiste nell’aggiungere una nuova funzionalità a un oggetto che avete già: se prendete in mano il vostro “furbofono” (smartphone per gli anglofili), capirete subito di che si sta parlando. La dipendenza tra attributi consiste nel fare una lista degli attributi dell’oggetto, dividendoli tra quelli interni – e quindi direttamente gestibili da noi – e quelli esterni e non gestibili. A questo punto ci si mette ad accoppiare questi attributi e vedere se esce fuori qualcosa di interessante: rimanendo con il nostro furbofono, potremmo immaginare di aggiungergli un sensore che ascolti un segnale esterno, per esempio inviato a teatro o al cinema prima dell’inizio dello spettacolo, e che lo faccia automaticamente mettere in modalità silenziosa. Infine abbiamo la rottura della simmetria, usata in ASIT al posto della differenza di attributi; si prende una delle parti dell’oggetto e si vede se rendendola asimmetrica, e cioè non tutta uguale, si può migliorare l’oggetto stesso. Nelle biciclette del diciannovesimo secolo, prima di inventare la trasmissione con la catena, la rottura della simmetria tra le ruote permise di aumentare la velocità raggiunta a parità di pedalate fatte, semplicemente aumentando la dimensione della ruota anteriore cui erano attaccati i pedali.
Sono sicuro che leggendo questi esempi avete notato che il “pensare nella scatola” non significa affatto che gli unici usi ammessi per gli strumenti siano quelli della scatola stessa. In pratica SIT disaccoppia la complessità del mondo dalle conoscenze personali esterne all’oggetto vero e proprio, che sono quelle che portano alle soluzioni creative e non possono affatto venire automatizzate. Un altro principio che viene citato ma è difficile da spiegare a parole è quello del percorso a massima resistenza: visto che siamo abituati a fare le cose seguendo il percorso più semplice, provare invece esplicitamente a immaginare di fare le cose in maniera più complicata può suggerire nuove vie, che sperabilmente alla fine porteranno a una soluzione più semplice di quella iniziale, oltre che migliore.
Un approccio molto simile al SIT lo trovate anche su Creative Distraction: lì si può anche scaricare un cheatsheet (un compendio? come lo potremmo chiamare in italiano?) per ricordarsi delle tecniche possibili. A questo punto siete pronti per diventare il MacGyver del vostro condominio, o se preferite il bricoleur, come il buonanima di Franco Lucentini come era stato ricordato dal suo sodale Carlo Fruttero… ma di creatività e letteratura ne parliamo magari un’altra volta.
Ah, stavate aspettando la soluzione al problema? Beh, è semplice. Prendete le puntine, attaccate con esse la scatola al muro, e metteteci dentro la candela. La chiave per la risposta è stata considerare la scatola non per la sua funzione di base, contenere le puntine, ma con un’altra funzione. Banale, no?