Il 5 ottobre 1962 la Parlophone pubblicò nel Regno Unito un disco a 45 giri etichettato R4949. Il brano inciso sul lato B si intitolava P.S. I Love You, mentre il lato A conteneva un brano lungo due minuti e ventidue secondi: Love Me Do. Nasceva così ufficialmente la leggenda dei Beatles.
Beh, non è che possiamo dire che la nascita sia stata proprio col botto: il singolo salì solo al diciassettesimo posto nelle classifiche di vendita britanniche, e anche questo probabilmente solo perché Brian Epstein comprò un numero non quantificato di copie che restarono per un po’ nei magazzini della NEMS. (Paradossalmente, quando venne ripubblicato nel 1982 ebbe un risultato molto migliore, raggiungendo la quarta posizione: negli USA arrivò al top di Billboard, ma solo perché venne ripubblicato dalla Capitol nel 1964). Insomma, per parlare di Beatlemania bisognerà aspettare il singolo successivo, Please Please Me.
Chi mi conosce da lungo tempo sa bene che io sono un beatlesiano puro e duro, e quindi forse si aspettava questo omaggio. Se mi conosce davvero bene, apprezzerà anche il mio ammettere che non è che Love Me Do sia chissà quale canzone: paradossalmente ritengo che P.S. I Love You sia migliore, e sarebbe stata la mia scelta come lato A. Il gossip dice che la scelta fu dettata da un accidente storico: qualche anno prima era già stata pubblicata un’altra canzone con lo stesso titolo, e a quanto pare era considerato cattiva pratica riutilizzarlo. Non che io ci creda: la storia dei Beatles è un perpetuo monito a non credere affatto alle testimonianze dirette delle persone (c’è un’intervista a George Martin che dà proprio questa spiegazione…), perché negli anni la gente tende a farsi la propria storia, nonostante in molti casi esistono testimonianze oggettive che mostrano il contrario.
Il brano musicalmente non è né carne né pesce. È una specie di skiffle, stile musicale che era stato in voga in Gran Bretagna alla fine degli anni ’50 e ormai era sentito come roba vecchia. Peggio ancora, non assomigliava neppure a quanto i Beatles suonavano dal vivo in quegli anni, cioè un misto tra rock’n’roll, cover di brani scritti originariamente per gruppi vocali femminili, pezzi da crooner come Till There Was You e qualche novelty song (avete mai sentito Mr Moonlight? È un’esperienza mistica). Mancano i coretti beatlesiani più o meno improbabili (per dire, in Please Please Me i due partono all’unisono, poi John fa una scala discendente mentre Paul mantiene la stessa nota. Cacofonia armonica, visto che a un certo punto c’è un intervallo di seconda minore, ma effetto pratico di una potenza incredibile), e il brano è stato preparato in maniera un po’ garibaldina. John lasciò infatti la parte vocale principale a Paul perché avrebbe dovuto cantare ancora una nota del ritornello mentre già stava attaccando l’armonica. Pete Best era stato appena fatto fuori dal resto del gruppo con la scusa che George Martin l’aveva sentito a giugno nel primo provino e non l’aveva apprezzato – a ragione: ascoltando quella versione. Ringo Starr era appena arrivato ma non era comunque piaciuto a Martin nella seconda prova del 4 settembre, così la settimana dopo venne relegato al tamburello nell’incisione che poi finì nel primo LP – e qua mi tocca dissentire. Secondo me, Ringo è stato l’elemento che mancava per completare l’alchimia dei Beatles: non solo dal punto di vista umano, ché sicuramente con tutte quelle primedonne ci voleva qualcuno più terra terra, ma anche musicalmente. Ringo era un metronomo umano: nessun volo pindarico, ma la base dove gli altri potevano amabilmente svettare.
Ma stiamo comunque parlando di Beatles: così anche in un brano minore come questo si possono scoprire tracce in nuce del genio dei quattro. Un musicista serio come Alan Pollack riesce a trovare cose incredibili persino qua: non tanto le note blues, che come dice il nome stesso sono abituali nel rhythm∧blues, quanto per esempio echi modali. La stragrande maggioranza della musica “leggera” composta negli ultimi tre secoli, diciamo da Bach in poi, è tonale: i brani di musica classica sono “in la bemolle maggiore” o “in re minore“. In precedenza, però, le cose non erano così ben definite, e c’erano scale musicali di tipo diverso, che alle nostre orecchie ormai abituate a una dieta armonica ristretta suonano un po’ strane… a meno che non siano contenute in brani dei Beatles. Chiaramente c’è una spiegazione molto semplice per tutto questo: Lennon, McCartney e Harrison non hanno mai avuto una formazione musicale scolastica, e inventavano pertanto successioni di accordi “strane” per vedere l’effetto che faceva, proprio come facevano i rinascimentali che stavano per l’appunto costruendo quello che oggi è il monolitico sistema armonico. George Martin, che di musica se ne intendeva, ebbe il buon senso di lasciarli andare per la tangente, limitandosi al più a smussare – no, si dice “arrangiare” – gli accostamenti che proprio non stavano né in cielo né in terra. Un altro elemento che compone la loro magia.
Alla fine di tutto, è vero che Love Me Do non è una gran cosa. Ma resta comunque la voglia di canticchiarla di quando in quando, con lo stesso sorriso che facciamo rivedendo i nostri primi testi pubblicati in giro. Col senno di poi ci accorgiamo che erano timidi, piatti, financo bruttini; ma sono pur sempre stati il primo passo per una sfolgorante carriera… Meglio così che un successo seguito dal vuoto, no?