Milano ha ospitato lo scorso 4 e 5 giugno presso il Marriot Hotel il Social Business Forum 2012, appuntamento organizzato da OpenKnowledge e giunto alla quinta edizione, con un crescente successo di pubblico: quest’anno, tra Free e Premium Conference, i partecipanti iscritti al convegno sono stati 1600. La partecipazione è stata ampia anche tra gli exhibitors – come usuale in questo tipo di convegni, gli sponsor hanno uno spazio a disposizione per presentare le proprie soluzioni ai possibili clienti – e soprattutto c’era un interessante mix tra i “giovani” che probabilmente di socialcosismo ne masticano abbastanza e gli “anziani” che sono quelli che le aziende (unopuntozero…) le devono fare andare avanti e hanno bisogno di capire come farlo al meglio, soprattutto di questi tempi. La struttura delle giornate è stata particolare, considerando che entrambe le mattinate sono state dedicate a keynotes mentre i pomeriggi si dividevano tra i case studies per chi aveva l’iscrizione business e la free conference aperta a tutti. In un certo senso si è dunque perpetuata la dicotomia tra “giovani” e “anziani” a cui accennavo prima.
Detto tutto questo, qual è il commento di un vecchietto come me, che di esperienza di social business ne ha pochina ma se si parla di social networks in generale è sulla breccia da almeno un quarto di secolo? Diciamo che mi sarei aspettato molto di più. Prendiamo l’intervento iniziale, direttamente da OpenKnowledge e che quindi ha dato l’impronta principale alla conferenza: le 59 tesi per il Social Business Manifesto. Avrete già capito che il nome è stato scelto apposta per indicare la volontà di iniziare un cambio di paradigma, esattamente come Lutero fece con le “sue” tesi appese sulla porta della cattedrale di Wittenberg il 31 ottobre 1517; magari siete anche più svegli di me e avete subito capito che il numero 59 non è stato scelto a caso, ma è speculare al luteriano 95. La presentazione è stata molto carina e finanche filosofica: Emanuele Scotti e Rosario Sica che si palleggiavano tesi e antitesi, queste ultime esemplificate da spezzoni di film o più in generale di video che mostravano appunto come non si dovevano fare le cose. Però il matematico che c’è in me ha subito rabbrividito leggendo la prima tesi, insomma quella principe: «Il caos è una semplicità che non siamo ancora riusciti a vedere.» Bella frase. Frase sicuramente a effetto. Peccato che sia essenzialmente sbagliata, anche se magari letteralmente corretta. Chi ha davvero letto qualcosa della teoria del caos, sa che il vero concetto è esattamente l’opposto: le leggi che creano il caos possono essere semplici, ma conoscere le leggi non ti permette comunque di ricavare il risultato, che è caotico per definizione.
Fuor di metafora, la mia sensazione è che oramai chi fa comunicazione ha abbastanza chiaro quali potrebbero essere i vantaggi di un approccio sociale ai processi aziendali, e il concetto sta lentamente percolando anche su chi è a capo delle aziende. Quello che manca, o almeno io non sono ancora riuscito a vedere, sono però soluzioni davvero funzionali e funzionanti. Un esempio che è sicuramente saltato agli occhi di tutti i twitteristi è stato per esempio #meetFS. Ferrovie dello Stato, per volontà credo diretta dell’amministratore delegato Mauro Moretti, ha pensato bene di radunare un certo numero di VIB (Very Important Blogger, ma mi dicono che adesso il termine da usare è “influencer” per raccontare loro cosa sta facendo il gruppo, spiegare la differenza tra le varie aziende che lo compongono e via discorrendo. Il tutto avrebbe dovuto portare a molto traffico: non tanto per i post dei singoli blogger quanto per lo sciame di twit correlati. Qual è stato il risultato pratico? Lo sciame c’è stato, ma era quello di un gran numero di vespe che vedendo l’hashtag vi si sono subito accodati per ribadire quello che sanno tutti coloro che hanno la sventura di viaggiare con il trasporto ferroviario regionale. Moretti magari ha anche ragione a dire che il trasporto locale è pagato dalle regioni, e se sono le regioni a non mettere i soldi loro possono farci poco; in ogni caso il messaggio però non è certo passato. Ma torniamo a #smb12.
La tesi che Scotti e Sica basano su un loro studio, che cioè l’adozione delle tecnologie collaborative è in forte crescita (si raddoppia, anche triplica rispetto all’anno scorso), con i dipendenti che ormai si aspettano i social tool e una serie di benefici in tutto l’ecosistema aziendale, è direi condivisibile. Che il tutto generi anche valore in marketing, operazioni, innovazione pure. Comincio a scuotere la testa quando però balzano alle conclusioni, che applicando le tecniche social si arriva a una nuova organizzazione che potremmo chiamare “connected enterprise”. Non perché non possa essere vero, ma perché la logica conseguenza di ciò è che il middle management come lo intendiamo fino ad ora non esisterebbe più, e dovrebbe totalmente reinventarsi. Sì, ci sarebbe sempre un middle management. Banalmente, su dieci idee che arrivano dal basso ne funziona sì e no una. È vero che cinque di quelle idee vengono già cassate direttamente dal basso, il mondo social è bravo a trovare velocemente i punti deboli evidenti e lo fa molto più in fretta di una singola persona; ma i punti deboli non evidenti sono sono così facilmente notati, e soprattutto non si può chiedere a un semplice dipendente di avere una visione ampia di tutta l’azienda perché altrimenti non sarebbe un semplice dipendente ma un dirigente o almeno un funzionario. Ma vi rendete conto della difficoltà di riciclare in qualche modo i capetti? Per me è impossibile. E finché non ci si rende conto di questa impossibilità non si andrà mai troppo avanti: i muri di gomma sono fatti così.
L’altra cosa che ho notato – ma qui magari sono stato sfortunato e ho seguito le sessioni sbagliate – è che quasi tutti gli intervenuti, oltre a essere pronti a elogiare le proprie soluzioni sociali “since 2011”, tendevano a concentrarsi sul customer care: un buco nero aziendale, ne parlavamo anche sopra a proposito di Trenitalia, ma un modo riduttivo di vedere le cose. Pochi si sono addentrati nella gamification; ancora meno sull’usare tecniche social all’interno dei processi aziendali, e non verso il pubblico; nessuno che abbia anche solo provato a parlare di ricerca e sviluppo social. Anche in questo caso, è vero che nel breve periodo probabilmente è dal customer care che si ottengono i maggiori risparmi; ma proprio la delicatezza delle soluzioni proposte dovrebbero rendere più cauti gli innovatori… senza contare che non di solo social vive l’azienda. Quando Leonardo Mangiavacchi, il responsabile Customer Operation Mobile Telecom Italia, ha cominciato a spiegare che dopo la prima fase di ingresso in Facebook e Twitter ora ci si sta riorganizzando per evitare che ci siano tecnici fissi su un singolo canale, Emanuele Quintarelli che moderava la tavola rotonda ha chiesto che si rientrasse in tema. Eppure la mattina stessa John Hagel aveva mostrato come la gente (gli utenti, i clienti) non sono mica incollati a un singolo mezzo per comunicare! Tutti noi usiamo Facebook, LinkedIn, Twitter e a seconda di dove ci troviamo cambiamo modo di comunicazione, e non facciamo fatica ad adeguarci al mezzo. Perché non si dovrebbe fare la stessa cosa per rispondere a una richiesta? A seconda di come la cosa prosegue si potrebbe cambiare canale; volete mica cambiare anche operatore?
In definitiva, iniziative come il Social Business Forum hanno indubbiamente un loro perché, ma non danno ancora risposte chiare e complete (non dico definitive, nulla è definitivo!). Speriamo nel 2013, Maya permettendo!