Io e Anna ci facciamo qualche giorno di ferie. Le trasmissioni riprenderanno giovedì 3 giugno, salvo eccezionalità.
ho perso il telefonino
Mercoledì sera alle 19:30 da Feltrinelli in duomo ce l’avevo, perché ho risposto a Loris. Giovedì mattina in ufficio non ce l’avevo, ho pensato di averlo lasciato a casa, e invece nulla. Il mio Siemens A45, comprato quasi due anni fa con l’algoritmo “qual è il telefono che costa di meno?”, si è volatilizzato.
Poteva andarmi peggio, pensando a tutti i gadget che ho nel mio marsupio, comunemente detto “borsellino di Eta Beta”. Il modello era vecchio, si scaricava subito, e la scheda aveva sì e no due euro di traffico. Inoltre, non occorre più fare denuncia: la signorina Incoronata al 190 mi ha bloccato la carta, e con sette euro e cinque minuti la signorina Loredana del Mediaworld al Fiordaliso mi ha dato una nuova Sim. Adesso cercherò un nuovo telefonino, sempre con lo stesso algoritmo :-)
C’entra poco, ma ho scoperto che trovare il numero di telefono del conservatorio di Milano – uno dei posti dove ho verificato se per caso fosse stato trovato il telefonino: come ho detto non era un modello che valesse la pena tenere – non è banale. Per i posteri, è 02.76211011.
Viktoria Mullova e Il Giardino Armonico (concerto)
Una decina di giorni fa Anna mi fa “guarda, c’è questa famosissima violinista che suona al conservatorio! Andiamo?” Non che io l’abbia mai sentita nominare, ma come dirle di no? Così mercoledì sera eravamo in coda (corta) alla biglietteria per prenderci i nostri due biglietti. Anna era stata molto attenta a non dirmi che il mercoledi precente ci sarebbe stato un altro concerto della Mullova, incentrato però su Bach. A lei il Giovanni Seb. non piace.
I biglietti non sono esattamente economici: venticinque euro. E anche gli eventuali ridotti sono a 20 euro. Nulla da stupirsi pertanto che nella sala un dieci per cento buono dei milleseicento posti fosse vuoto, e soprattutto che l’età tipica dei melomani andasse dai sessanta in su, salvo qualche ragazzotto probabilmente studente al conservatorio stesso. Il programma vedeva la Mullova suonare con Il Giardino Armonico, nome che a differenza di quello della solista mi diceva qualcosa: il repertorio era sempre barocco, con un concerto grosso di Händel, un concerto di Sammartini e ben quattro di Vivaldi. La mancanza di un programma di sala e la mia memoria non più ferrea come un tempo ci ha fato prendere una bella tampa, quando ci chiedevamo chi fosse la Mullova. È vero che eravamo apollaiati in cima e si vedeva tutto piccolo, ma ci siamo rimasti male quando abbiamo scoperto che all’inizio semplicemente non c’era. Dire che ce lo potevamo aspettare, visto il solito balletto “gruppo entra, applauso; maestro entra, applauso; pezzo suonato, applauso; mestro esce, applauso; maestro rientra, applauso; solista entra, applauso“.
La descrizione della Viktoria: braccia rubate alla palestra, come faceva notare Anna. Muscoli ben scolpiti, che non tolgono nulla alla sua abilità virtuosistica, ma non sono neppure un sottoprodotto delle ore di studio. Il direttore d’orchestra Giovanni Antonini è invece uno di quelli che ama apparire sempre: per il concerto di Sammartini ha tirato fuori un flauto – a me sembrava un piccolo: indubbiamente era diritto e non traverso – e si è messo a dirigere mentre suonava. Non che quelli del Giardino Armonico avessero bisogno di un direttore d’orchestra: uno dei concerti di Vivaldi, quello col liuto solista (menzione particolare a questo concerto RV.93 in re maggiore, davvero bello!), se lo sono gestiti autonomamente e senza alcuna sbavatura.
Vengo alle note di colore, che tanto sono le uniche che vi interessano. Tra i vari movimenti c’era sempre una serie di scatarrate che nemmeno in pieno inverno, si vede che non ci sono più le stagioni di una volta. L’unico momento in cui hanno applaudito fuori tempo è stato dopo il primo movimento del Grosso Mogul, il concerto in re maggiore RV.208 di Vivaldi; la prontezza degli zittii è confrontabile con quella delle strombazzate di clacson quando il semaforo scatta al verde. Invece Anna è rimasta esterrefatta di vedere parecchia gente alzarsi alla fine dello spettacolo, per non dire di quelli che si sono fiondati giù dopo il primo bis e si sono poi visti prendere qualche posto a caso per il secondo. A suo parere, non è corretto – ha usato termini più pesanti, a dire il vero – nei confronti di chi ha suonato ed è ancora lì sul palco andarsene via in quel modo, sembra che il concerto abbia fatto loro schifo. A me sa tanto che il pensiero di questi sia “abbiamo pagato, quindi facciamo quello che ci pare”.
Passata è la festa
All’inizio del mese abbiamo avuto nella nostra bellissima sede di Rozzano le assemblee di Telecom, Tim e TIMedia, non so esattamente in che ordine. In effetti, come ho già raccontato, il pian terreno dell’edificio che ci ospita ha un centro congressi, che non ho mai visto ma deve essere simpatico; e in questi tempi di ristrettezze mostrare di non andare a cercare chissà quale sede quando si ha una soluzione in casa è sempre una mossa fine. Abbiamo avuto così per qualche settimana operai che montavano pannelli bianchi e rossi in compensato col logo aziendale, riverniciavano i muri, tagliavano l’erba, piantavano aiuole fiorite e posavano la moquette sui corridoi. Infine l’età dell’oro: tripudio di auto blu con relativi autisti, guardie del corpo in verde, parcheggi requisiti. Niente Afef, peccato.
La settimana successiva ci siamo ancora trovati un po’ di gente esterna; sempre nell’ottica di ottimizzare gli investimenti, sono state dedicate un paio di mattinate alla premiazione dei dipendenti con 25 e 30 anni di anzianità di gruppo.
Poi anche questa età dell’argento è terminata, e si sono ripresentati gli operai, per immagazzinare ordinatamente tutto quanto era stato piazzato nelle settimane precedenti. Si vedevano fogli appiccicati man mano sui manufatti (sì, anche la moquette!), con la destinazione prevista da qualche parte in Lombardia, da Bergamo a Cesano Maderno. La Restaurazione era pronta a dispiegarsi, come dopo Waterloo. E proprio come la Restaurazione, qualcosa non è però tornato come prima.
La mensa è rimasta dimezzata, con la parete in cartongesso che separa la parte riciclata come sala stampa; peccato che l’ingresso sia rimasto dall’altra parte del muro, e che per entrare in mensa adesso occorra uscire e infilarsi dal retro. Se non lo sai rimani spiazzato: anche ieri ho dovuto guidare un paio di consulenti che già temevano di saltare il pranzo.
Poi ci sono i posti per handicappati. Li avevano disegnati così bene, e sono solo due. Oramai sono definitivamente occupati da due auto, una delle quali lascia in bella vista un permesso forse vero di ingresso (ma senza poter sostare!) all’interno dell’ospedale nonsoquale che il nostro guidatore probabilmente considera un passepartout per ogni dove. L’altra è direi meno ipocrita, e si limita a parcheggiare senza aggiungere nemmeno un finto foglio. A Rozzano capita anche di questo.
Binario – triste ma non solitario
Milano era una città basata sul binario del tram. Credevo che Torino fosse l’esempio primario, ma una volta arrivato qua mi sono ricreduto. Anche in zone relativamente periferiche si vedono ancora pezzi di binari che iniziano e finiscono nel nulla o contro un’aiuola, e che presumibilmente sono stati lasciati là perché non valeva la pena di toglierli. Altre volte non ci sono tracce dirette, ma un bravo archeologo nota che gli onnipresenti lastroni di pietra del selciato formano esattamente il disegno di due coppie di binari. Sì, dimenticavo: viette dove adesso si direbbe passi a stento un’auto erano a doppio senso. Non parliamo poi del centro: tutte le vie sembrano essere state solcate dalle sferraglianti vetture.
Tutto questo rende ancora più incredibile quello che capita adesso, con tragitti obbligati nei dintorni del duomo percorsi da più linee, con tutti i disagi relativi. Ieri sera, mentre pedalavo tornando a casa, sul lato opposto di via Broletto c’erano un’ambulanza e un’auto della polizia ferme, con una lettiga sul marciapiede. Sul resto di via Broletto c’erano i tram amabilmente in attesa: non che avessero grandi scelte, visto che non esistono altri binari lì intorno. Mah: visto che cose simili non capitano tutti i giorni ma quasi, forse ci si potrebbe pensare su…
eugenetica pelosa
In questi giorni c’è stata la polemica su una sentenza di un giudice di Catania che non aveva permesso la verifica degli embrioni prima di un impianto, per verificare che non fossero talassemici: i genitori sono infatti entrambi portatori sani. Per la cronaca, l’impianto è stato fatto, ma l’embrione non è attecchito.
La sentenza di per sé non farebbe una grinza: il giudice deve applicare la legge, e la legge 40/04 dice appunto questo. Quello che trovo preoccupante è che al giudice non sia passato per l’anticamera del cervello di sollevare un’eccezione costituzionale: anzi, ha ribadto che la legge “non autorizza un uso dell’aborto come strumento selettivo dei feti, con riferimento alla loro salute”
Siamo onesti: la legge sulla fecondazione assistita non solo è una schifezza, ma è anche completamente idiota. Se infatti la signora fosse rimasta incinta e avesse scoperto che il figlio sarebbe stato talassemico, non avrebbe avuto alcuna difficoltà ad abortire, “per gravi rischi alla salute psichica della madre”.
Occhei, probabilmente avrebbe dovuto pagare per andare in una clinica privata dove l’obiezione di coscienza viene tacitata a suon di euro, ma avrebbe potuto farlo. Solo che non ci sarebbe stata l’etichettina “eugenetica”, e allora sarebbe andato tutto bene.
Io sono generalmente contrario all’aborto. Trovo la legge 194 ipocrita nella formulazione, a partire dalla sua prima frase e continuando con l’assoluta mancanza di veri consultori: sarò ingenuo, ma mi sembra che sarebbe più semplice prevenire per quanto possibile. Però credo che il modo in cui è stata applicata in questi anni, salvo i problemi di cliniche pubbliche e private di cui parlavo sopra, sia in linea con quanto ci si sarebbe dovuto aspettare da una legge. Cambiare surrettizialmente le carte in tavola in questo modo è non solo ancora più ipocrita, ma anche vergognoso. Mi viene da pensare che qualcuno immagini “sì, ma se la donna abortisce poi sta più male, e così impara…” Pensieri edificanti, vero?
(ah: Barbara mi fa notare che c’è una raccolta di firme per un referendum abrogativo. Eppure non ne ho sentito parlare, e sì che in genere queste notizie le sento. Com’è?)
Come vengono letti i libri sacri (parte I)
Premessa: spesso nelle mie notiziole scrivo di cose che non conosco, da Vero Tuttologo quale io sono. Questa volta è peggio del solito, e su un argomento anche più ostico e finanche pericoloso. Se qualcuno vuole commentare e correggere, sarà il benvenuto; evitate però scomunica e fatwa, grazie! Aggiungo anche che non intendo affatto dare giudizi di merito: a dire il vero, non lo ritengo nemmeno possibile, perché la fede non può per definizione essere definita scientificamente.
Il tema che inizio oggi a trattare è semplice da esporre: come fanno le grandi religioni rivelate a venire a patti con il testo dei loro libri sacri? Se li si legge attentamente, infatti, si scoprono molte contraddizioni interne, e passi difficili da trattare: questo non è esattamente bello, per un’opera ispirata da Dio/YHWH/Allah. Ma gli uomini sono ingegnosi, e hanno trovato varie soluzioni, che presento in due puntate.
Una soluzione molto elegante – uso il termine in senso matematico: poche ipotesi ad hoc – è quella che afferma che la Divina Parola è quella che è stata scritta, e nessuno può cambiarla. Se non erro, anche gli ebrei ortodossi seguono questa linea di pensiero, ma essa è portata alla massima estensione dagli islamici, per cui il Corano è la Parola definitiva di Allah, che non dirà più nulla.
Ciò porta a una serie di conseguenze niente affatto banali. Innanzitutto, non è possibile tradurre la parola sacra. Per molti secoli le versioni del Corano in altre lingue sono state vietate, e ancora adesso non sono considerate valide: la preghiera è sempre in arabo. Corollario? I musulmani devono conoscere l’arabo, tanto che spesso si definiscono sbrigativamente “arabi” tutti gli islamici. Vaglielo a dire a un indonesiano o a un nigeriano, o se per questo a un arabo cristiano! Questa cosa porta indubbiamente dei vantaggi: anche se gli accenti sono molto diversi, due islamici in genere possono comprendersi tra loro. Ma in un certo senso questo è anche un blocco per lo sviluppo della lingua: se il testo sacro è quello, le parole non possono cambiare significato nel tempo.
Un altro corollario meno immediato è che eventuali contraddizioni nel testo sacro non danno alcun problema. Allah è grande, e può cambiare idea quanto vuole. Le sue vie sono per noi imperscrutabili: dobbiamo semplicemente essere sottomessi e tenerci solo l’ultima sua Parola come quella definitiva.
Facile? Mica tanto. Innanzitutto, non c’è nessuna certezza che Egli non cambi ancora idea e non invii un nuovo profeta che aggiorni quanto detto a Maometto. Presumo che questo sia semplicemente un atto di fede. Dove invece la ragione la deve necessariamente fare da padrona è nella scelta di quale tra le due Parole discordanti nel testo è quella da scartare, perché anteriore. Eh sì, le Sure del Corano, tranne la prima, non sono ordinate temporalmente ma per lunghezza decrescente; l’esegesi cerca di valutare quale possa essere il loro ordine.
Passando agli ebrei, il discorso si fa un po’ più difficile. La maggiore antichità della lingua ebraica rispetto a quella araba, o perlomeno alla versione usata da Maometto, dà indubbiamente un vantaggio tecnico. Addirittura nei secoli scorsi alcuni studiosi affermarono che l’ebraico è sta la prima lingua parlata dall’umanità, prima di Babele; diventa pertanto naturale che YHWH l’abbia usata per donarci la Sua Parola. Per questa stessa ragione, alcuni tardi libri biblici che erano stati scritti in aramaico non sono stati ammessi nel canone ebraico: e a volte mi chiedo come abbiano fatto ad ammettere qualcosa oltre la Torah. Un esempio interessante è dato dalla Versione dei Settanta. Essa è la traduzione in greco della Bibbia: non esattamente quella usata adesso dagli ebrei, perché a quel tempo non era ancora stato codificato il canone. Questa versione aveva una sua ragione d’essere: gli ebrei si erano espansi nel bacino mediterraneo, e iniziavano ad esserci gruppi di lingua greca, che avevano difficoltà con l’ebraico. Non è così strano, visto che persino in Palestina c’erano comunità ellenistiche; basti pensare agli apostoli Andrea e Filippo, i cui nomi non sono semitici ma greci, e a santo Stefano. Lì ci sarebbe da fare una digressione sulla separazione tra giudeo-cristiani semiti ed ellenici, ma andrei fuori strada.
Tornando alla nostra Bibbia dei Settanta, sorse indubbiamente il problema di stabilire se la Parola fosse ancora quella reale. La leggenda se la cava affermanto che i settanta studiosi tradussero ciascuno per conto proprio i libri sacri, e quando si riunirono scoprirono che tutte le versioni erano identiche; più prosaicamente credo che da lì iniziò quella che è una caratterstica precipua degli ebrei, e cioè la discussione rabbinica. di nuovo, la logica dietro questo modo di operare non è affatto stupida, e si può riassumere così: “La Parola di YHWH è quella, ma l’uomo è limitato e non può sempre riuscire a metterla per scritto correttamente; altrimenti sarebbe anch’egli divino. Compito del rabbi e del rav è studiarla – più corretto amarla – per riuscire a comprenderla, naturalmente con il Suo aiuto. Il Talmud, con le discussioni non sul testo biblico ma sui commenti dei Maestri, assume improvvisamente un senso diverso: il processo di interpretazione della Parola è continuo, e anche le discussioni passate contengono la scintilla divina. Inoltre il problema “perché YHWH non parla più” viene risolto anche in questo caso elegantemente: man mano che l’uomo cresce ha bisogno di meno “aiutini”. Si parte con i miracoli, per passare ai profeti (“parlo per”), ai maestri e infine ai commentatori e agli esegeti.
Fidarsi così del testo scritto della Parola porta però anche a un altro effetto: la Cabala. Lo studioso cabalistico parte dal testo nudo e crudo – e l’ebraico è la lingua divina! – e afferma che il significato è intrinseco in quelle lettere, che forse devono essere disposte in modi diversi (Arthur Clarke non vi ricorda nulla?), o banalmente rese vive (il Golem). Non pensiate che questo sia limitato agli studiosi di ebraico, o ai maghi: andate ad esempio a cercare l’Ars Magna di Raimondo Lullo, che sicuramente è stato influenzato dalla Cabala. Insomma, in questo caso il testo sacro non ha “contraddizioni” per definizione: a noi sembra che ci siano delle contraddizioni, ma è solo perché noi non siamo degli iniziati, e quindi non sappiamo come deve essere letto.
Per cosa fanno i cristiani, vi rimando alla prossima puntata!
sondaggi UDC
Ho provato a fare il sondaggio promosso sul sito UDC e intitolato “Vogliamo un mercato del lavoro più competitivo?”. Aveva il gran vantaggio di essere veloce: cinque domande con possibili risposte “totalmente d’accordo”, “parzialmente d’accordo”, “contrario”, “totalmente contrario” e il bel quadrante “liberismo / assistenzialismo – sinistra / destra”, con loro ovviamente al centro.
La mia affinità è risultata dell’80%; per curiosità, risulto leggermente a destra e leggermente liberista.
A questo punto ho voluto fare una controprova: su un altro PC ho rifatto il sondaggio, rispondendo sempre “alla diccì” (parzialmente d’accordo, se non l’aveste capito). Sono risultato affine al 79%, pendente a sinistra ma perfettamente centrato sull’altro asse. Devo dire che sono restato deluso: non ci sono più i democristiani di una volta.