Io non li capisco quelli che per affettazione festeggiano il giorno del Sol Invictus al posto del Natale, dicendo che i cristiani hanno rubato la festa. Non che non sia vero, ma è un po’ dura essere ipertradizionalisti quando non si sa affatto come gli antichi romani festeggiavano quel giorno. E poi il giorno giusto sarebbe il 22, mica il 25! Tutta colpa di Giulio Cesare che aveva messo troppo giorni bisestili nel calendario, e così quando i cristiani hanno fissato ile varie festività si sono trovati il Sol Invictus un po’ più avanti del solstizio. E che ci potevano fare, poveretti, che tanto non è che uno si accorga che il solstizio c’è già stato? Te lo tieni il 25 dicembre e amen.
Ma non capisco neppure quelli che vogliono mantenere le tradizioni. Passi fare il presepe, che comunque ha “solo” sette secoli di vita; per due terzi dell’esistenza del cristianesimo nessuno ha mai fatto un presepe, ma la tradizione vince sempre. Ma prendiamo la canzone natalizia per antonomasia: non “Adeste fideles”, che almeno è latina, e nemmeno “Oh Happy Day”, gospel composto poco più di quarant’anni fa e qui in Italia inevitabilmente collegato a uno spumante che non so nemmeno quale sia perché a me lo spumante non piace e lo champagne peggio ancora. No, sto pensando a “White Christmas”. Irving Berlin, anzi Israel Isidore Baline, la scrisse nel 1941. Uno magari si chiede “ma come fa un ebreo a scrivere una canzone sul Natale?” e la risposta è semplice: di Natale in quella canzone non c’è nulla. Per quello che si canta potrebbe tranquillamente essere un Happy Hanukkah, se non fosse per il banale problema che il nome della festa ebraica che cade a dicembre ha una sillaba di troppo e quindi gli avrebbe rovinato tutta la metrica. La metrica sì che è una cosa importante. Diciamocelo: per Berlin l’unica cosa che conta nel Natale è il suo essere bianco. Per sua fortuna lui non se ne stava in Florida o in California – per non dire nell’emisfero sud del pianeta – ma sono certo che in tal caso avrrebbe contribuito all’invenzione della neve artificiale, e nella peggiore delle ipotesi si sarebbe circondato di quelle sfere di vetro che quando tu le rovesci e scuoti sembra che all’interno scendano (lievi) i fiocchi di neve. La guerra fredda era in realtà la guerra innnevata, e le granite non dovevano asolutamente avere coloranti artificiali; avete mai visto voi della neve vedre o marrone? (A Milano quella marrone sì, ma non credo che Berlin abbia mai fatto una gita a Milano) Insomma, se festeggiate Natale a causa di White Christmas limitati a festeggiare la canzone che è meglio.
A proposito di colori, non che babbo Natale sia tanto meglio. Lui era inizialmente di pessimo carattere, probabilmente perché avrebbe preferito starsene a Copacabana al caldo invece che nel freddo intenso dei boschi del nord Europa; e soprattutto non era vestito di bianco e rosso, ma di verde. L’unica cosa buona è che non era un verde padano (o islamico o irlandese, se per questo) ma un verde scuro, quale appunto è il colore degli alberi nelle foreste scandinave. E poi? È forse passato qualche daltonico che ha confuso i colori? Macché. È il risultato marchettaro della Coca-Cola®, dove qualche creativo ha pensato bene di riciclare il vecchio iracondo, dargli una risata imbecille ho-ho-ho e un tiro di renne capitanate da Rudolph (chiara allusione a Rodolfo Valentino, anche se non so chi si sdilinquisca per una renna), e infine vestirlo dei colori aziendali. “Vorrei cantare insieme a te, in magica armonia…” Festeggiate, festeggiate, e soprattutto beatevi delle vostre radici che vi permettono di seguire la tradizione!
Perché insomma quello che molti di noi dovrebbero accettare una volta per tutte è che il Natale per loro ha solo un Vero Significato: preparare il Post Sotto l’Albero. (No, io non c’entro: tutto questo l’ho scritto a ferragosto!)