Archivi categoria: socialcosi e internet

Tartinville e Google

Nel mio socialino di nicchia ci si è messi a parlare del metodo di Tartinville per le disequazioni di secondo grado (fidatevi: non ne volete sapere nulla. Nemmeno io ne avevo mai sentito parlare, e così ho cercato di scoprire chi fosse questo Tartinville. Ho così ingenuamente chiesto al signor Google “Tartinville wikipedia”, ottenendo come primo risultato quello mostrato qui sopra. Tutto bene? No.

Se uno va ad aprire quella pagina scopre che di Tartinville non v’è traccia. Però Google sa lo stesso che Tartinville è un matematico francese: evidentemente ha usato altre informazioni semantiche che aveva: sia per la nazionalità – mica è così facile per una macchina immaginare che Tartinville sia un cognome francese – che su di me, evitando di mostrarmi il fotografo Bernard e la coreografa Françoise (in alternativa, ci sono state in passato molte ricerche; Google ha verificato chi cliccava dove e ha parsificato il contenuto di quelle pagine). Che poi la parola “wikipedia” gli abbia fatto perdere il lume della ragione e quindi non abbia verificato se effettivamente il nome fosse ivi presente è un dettaglio. Questa espressione di intelligenza artificiale a voi forse non sembra chissà che cosa, ma a me fa molta più paura di un campione mondiale di go.

Ah: per la cronaca “il mio” Tartinville di nome fa Arthur.

Ultimo aggiornamento: 2020-01-21 15:19

Una visita lampo al Louvre

Google mi ha mostrato la cronologia dei miei spostamenti. (Considerando che mi sa che tanto se li salva comunque, direi che è fondamentalmente inutile dirgli di non salvarli). Bene: secondo lui lo scorso giugno avrei fatto una gita lampo al Louvre. Ma soprattutto in ventinove minuti sarei tornato in treno da Parigi fino a Chiavari.
No, non correggo i dati, come Mountain View spera. Nessuno mi obbliga a farlo e io non ci guadagno nulla, anzi. Però devo dire che questo dato spurio mi stupisce (e mi preoccupa), ma mi stupisce ancora di più vedere che non ci sono stati controlli automatici per toglierlo…

Ultimo aggiornamento: 2020-01-08 17:52

Chiariglione e la storia di MPEG

mpeg

(dal sito di Leonardo Chiariglione)

Ogni tanto sui giornali si legge di Leonardo Chiariglione, “il babbo dell’MP3”. Non sono in molti però a sapere che MP3 era solo un pezzetto della suite di protocolli MPEG, studiati per codificare i video in maniera ottimale: tecnicamente si dovrebbe parlare di MPEG 1 Layer 3 (quello audio), ma ai tempi le estensioni dei file erano al più lunghe tre caratteri e quindi l’abbreviazione ha preso piede.

Chiariglione ha fatto la sua carriera in CSELT, e per una serie di buffe circostanze ho sempre avuto un ufficio vicino al suo, il che aveva senso quando io ero nel gruppo “voce” e lui era a capo di quello “immagini”, ma forse un po’ di meno quando io sono passato a fare Internet ed eravamo tutti finiti in un open space dove ogni tanto lo si sentiva gridare al telefono “Hai! Hai! Hai!” (Chiariglione parla correntemente giapponese, e come sapete i giapponesi sono abituati a dire di sì anche se la risposta corretta sarebbe stata “no”.) Ad ogni modo, a parte i pettegolezzi, Chiariglione è indubbiamente stato la forza trainante del movimento MPEG, comprese alcune scelte che probabilmente non conoscevate, come il fatto che i codec MP3 fossero sotto copyright (dei tedeschi del Fraunhofer, almeno per l’Europa) e richiedevano pertanto una licenza d’uso; questo nasceva per convincere la grande industria a investire nella tecnologia, sapendo che avrebbero potuto guadagnare. Ad ogni modo, qualche mese fa Chiariglione ha scritto un ebook che racconta la storia tecnica e politica di MPEG: se siete interessati potete andare sul suo sito e scaricarla. Buona lettura!

“tre o quattro settimane”


Tra gli annessi e connessi dello smarrimento del mio portafoglio, c’è stata anche la necessità di cambiare la carta Fìdaty dell’Esselunga. Sono passato in negozio, e in cinque minuti avevo la carta nuova dove erano già anche stati inseriti i pochi punti che erano in quella vecchia (in genere è Anna che usa la sua tessera per le spese). La settimana dopo mi è capitato di dover comprare due cose: guardo lo scontrino, vedo che segna tutti gli acquisti, immagino che io debba rifare la trafila della dematerializzazione, e quindi vado sul sito.

Arrivo, mi dice che non ci sono carte associate – e vabbè, potrebbe essere comprensibile – ma non trovo come aggiungere la nuova tessera. Provo il motore di ricerca interno, ma è di quelli che non servono assolutamente a nulla. Memore del fatto che scrivere all’assistenza darà risposta in un mesetto, provo il numero verde: peccato che non sia riuscito a immaginare una successione di numeri che mi permettesse di parlare con un operatore. Alla fine ritorno sul sito, e scopro la faq mostrata qui in cima.

Qualcuno mi spiega perché occorrono tre-quattro settimane per completare un’operazione fatta in cinque minuti in negozio per tutte le cose che servono davvero? Il numero della nuova carta deve essere miniato in oro dai monaci tibetani che gestiscono il sito?

Trump e la Web Tax

In tutta la storia sulla riunione per commemorare i settant’anni della Nato, forse non ha avuto molta eco la minaccia di Trump di imporre dazi alla Francia (e a seguire a Italia, Turchia e Austria) in ritorsione alla Web Tax approvata dai transalpini.

Sì, lo sappiamo tutti che Trump ha poche idee ma fisse, e una di queste è quella dei dazi. E sappiamo anche tutti che i giganti del web pagano ben poche tasse, e soprattutto non le pagano in Italia o in Francia. Però la situazione complessiva è un po’ più complicata, se non ricordo male (e se mi ricordo male so benissimo che ci sarà qualcuno che mi correggerà). Uno dei punti fondamentali del commercio elettronico USA è che non paga la “sales tax”, a differenza di quanto accade in un qualsiasi negozio fisico. Ricordo che alla fine dello scorso millennio c’era stato un tentativo di togliere questo privilegio, tentativo che è stato prontamente rintuzzato. Ecco che quindi per un americano vedere uno stato, anche estero, che ti chieda delle tasse su un bene comprato online è un’eresia. Il fatto che a guadagnarci siano le aziende americane è bello, ma secondario.

Il guaio è che da un lato questa situazione non dovrebbe esserci, ma dall’altro risolverla significherebbe avere un vero coordinamento mondiale, e non mi pare che la cosa sia in vista… Insomma, aspettatevi tempi ancora più interessanti.

Ultimo aggiornamento: 2019-12-05 16:43

Basta con le modeste proposte

Ieri Pierluigi Ricolfi ha scritto un editoriale intitolato “La civiltà del silenzio/ Una modesta proposta per combattere l’odio sul web”. Direi che è arrivato un po’ in ritardo, non tanto rispetto a Jonathan Swift quanto a Christian Rocca che questa primavera ha pubblicato il pamphlet Chiudete Internet – una modesta proposta (il libro non mi è piaciuto, ma ne parlerò a fine settimana tra le mie recensioni).

Su Twitter trovate qualche commento, con Fabio Chiusi che scrive “Purtroppo invece è importante perché fornisce l’ennesima conferma di come si concepisce Internet in certi ambienti (che contano): come una Grande Tv”, riferendosi immagino alla frase «molti sarebbero ben felici di pagare un abbonamento, verosimilmente meno costoso di quelli del calcio, per proteggersi dal flusso di informazione indesiderata che ci tormenta 24 ore su 24.» Potrei chiosare che non c’è nulla di nuovo. Raoul Dhesi ancora alla fine degli anni ’80 del secolo scorso proponeva un sistema in cui era necessario fare un micropagamento per inviare mail a qualcuno; nel caso la mail fosse stata accettata, i soldi spesi sarebbero stati rimborsati. Putroppo non se ne è fatto nulla, perché anche settando una cifra assolutamente infima lo spam diventerebbe ineconomico. Ma non divaghiamo.

Essendo io una brava persona, ho letto tutto l’editoriale di Ricolfi e devo dire (non ironicamente) che c’è un punto che mi trova a favore: quello dove afferma «Se vogliamo frenare la circolazione dell’odio, innanzitutto in rete ma non solo, la prima regola dei media dovrebbe essere: negare lo spazio. O, se preferite: non farsi strumentalizzare. Perché è un po’ ipocrita indignarsi per la volgarità della comunicazione pubblica quando ci si presta quotidianamente a farle da megafono.» È forse un paradosso, ma il fatto stesso che per la generazione di Ricolfi una cosa diventa importante solo se ne parlano i media permetterebbe di vedere quanto effettivamente i media fanno da cassa di risonanza: e non vorrei sbagliarmi, ma la cosa conta davvero. È purtroppo ovvio che con i media che cercano disperatamente click quella modesta proposta non sarà mai messa in pratica, però è bello baloccarcisi un poco, non trovate?

Devo le mie scuse a Enzo Mazza

Un anno fa, mentre la direttiva europea sul copyright stava arrivando al dunque, ho partecipato a un panel di persone tecnicamente interessate per una ragione o per un’altra alla direttiva. Io ero naturalmente presente con il cappellino di Wikimedia Italia, e nel mio intervento ho tra l’altro detto che ci mancava ancora che la direttiva vietasse di usare liberamente l’URL di un articolo di giornale, perché in tal modo si romperebbe Internet. Enzo Mazza, che ha parlato dopo di me, ha subito zittito il “ragazzino” affermando che lo stesso si diceva per la musica gratuita, ma alla fine il mercato discografico è riuscito a far valere le proprie (giuste, neh) ragioni e ora si può legalmente ascoltare musica in streaming pagando il giusto compenso. D’accordo, il paragone non c’entrava nulla, perché io non stavo dicendo che si potevano liberamente copiare gli articoli di un giornale, ma non impuntiamoci sui particolari.

Ora, Enzo Mazza è da decenni ai vertici della FIMI, l’associazione dei discografici italiani, e quindi lo pagano – spero per lui bene – per dire queste cose, anche se probabilmente le pensa anche. Nessuno invece mi paga per dire le mie cose, e quindi ho l’inestimabile libertà di poter cambiare idea se mi accorgo di avere sbagliato, e la mia affermazione di allora aveva almeno due errori. Il primo è che avrei dovuto dire “web” e non “Internet”. Il secondo è che quello che romperebbe il web non sono le URL non libere, ma il DNS. Senza DNS non puoi arrivare da nessuna parte (no, non basta l’IP con HTTP/1.1), mentre senza URL libere non cambia molto in assoluto, perché il sito può implementarsele internamente. Quindi Mazza aveva ragione e io torto.

Perché racconto tutto questo solo ora? Beh, mi è tornato in mente leggendo questo articolo di Prima Comunicazione dove si legge che la commissaria alla concorrenza Vestager sta controllando con i francesi il modo in cui Google ha ottemperato alla direttiva copyright (ne avevo parlato, ricordate?) affermando che «può verificarsi un problema di biopotere se un gigante […] impone i propri termini e le proprie condizioni non in linea con ciò che è stato previsto dalla nuova legislazione sul copyright» e quindi pensa a una possibile modifica della direttiva. Nell’attesa che qualcuno mi illumini sul significato di biopotere in quel contesto, mi permetto di suggerire alla commissaria la modifica definitiva. La direttiva specifica già il concetto di ‘press publication’. Basta pertanto emendare l’articolo 13 togliendo i commi dal secondo al quarto (le eccezioni alla richiesta di soldi per fare i link) e per sicurezza aggiungendo un comma che stabilisce una somma minima per questo “ancillary copyright” creato dalla direttiva, in modo che Google e amici vari non possano applicare la loro forza di mercato. Più una regola è semplice, più è difficile trovare dei cavilli; a questo punto gli editori potranno essere certi che Google finalmente smetterà di inventarsi scappatoie e smetterà di indicizzare le loro pagine, e sicuramente il mercato saprà autoregolarsi e trovare qualcun altro pronto a prendere il posto della Grande G.

WT:social

Hanno anche dei problemi con la lingua inglese, a quanto pare

Probabilmente non avete mai sentito parlare di WikiTribune, un tentativo di Jimmy Wales (sì, quello di Wikipedia) di creare un social network “che lotti contro le fake news”. In un tentativo di guadagnare nuovi adepti, Wales ha spostato il sito a WT:social. Lo scorso weekend ci deve essere stato un passaparola, visto che il numero di utenti è triplicato (da 80.000 a 240.000, non credete chissà cosa).

Nelle migliori tradizioni wikipediani, gli utenti sono caldamente invitati a pagare per avere un sistema libero da pubblicità e affini, altrimenti resti in “lista d’attesa”. In realtà se partite da un link altrui – il mio per gli amici per esempio è questo, e poi aprite il vostro link corrispondente in un’altra scheda pare che si riesca a entrare.

Per il resto, che dire? Quello che vedo in questi giorni è molto palloso, il che di per sé ha senso. È però possibile creare dei subwiki su argomenti specifici, tipo WT in italiano o Italia Newsroom. Più interessante secondo me la possibilità di creare post collaborativi – in fin dei conti siamo sempre in una wiki – anche se ho dei forti dubbi sulla scalabilità di un sistema simile. In definitiva mi sa che non funzionerà; o meglio, potrebbe sopravvivere come social network di nicchia – ma allora la sostenibilità finanziaria potrebbe essere complicata – ma non ce la farà a raggiungere una massa critica, e se lo facesse non vedo grandi meccanismi di autodifesa. (Wikipedia di solito ce la fa perché non è un social :-) )

Per i curiosi, ho ovviamente creato il subwiki Dewdney. Gli amici di Fidonet sanno bene il perché.