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Il Garante ha colpito ancora

Ieri ho scritto del sito haveibeenfacebooked. Oggi il sito è sospeso “per ragioni legali” (il famoso codice di errore HTML 451). Il tutto perché il Garante ha ricordato a«chiunque sia entrato in possesso dei dati personali provenienti dalla violazione, che il loro eventuale utilizzo, anche per fini positivi, è vietato dalla normativa in materia di privacy, essendo tali informazioni frutto di un trattamento illecito.»

Nulla di strano, considerando che il sito era italiano, come avevo scritto in un post scriptum ieri (ci avevo pensato dopo averlo postato, scusatemi). La cosa più divertente di tutto questo, almeno per me, è che però nel messaggio di sospensione del sito sono stati lasciati i link ai sorgenti, sia front-end che back-end. Ovviamente avere i sorgenti a disposizione non è molto diverso dal dire “denunciateci tutti”, perché in questo modo si dà a chiunque la possibilità almeno teorica di accedere direttamente ai dati trafugati… Secondo me l’hanno fatto apposta.

Ultimo aggiornamento: 2021-04-08 09:55

Have I Been Facebooked?

In questi giorni avrete letto che dati personali di mezzo miliardo di account Facebook sono stati resi pubblici. I dati erano stati trafugati l’anno scorso, ma adesso sono appunto molto più visibili. Dal sito haveibeenfacebooked.com è possibile vedere cosa è (pubblicamente) conoscibile a partire da un numero di telefono. Per dire, su di me sanno

Facebook account ID
First name: M*******
Last name: C******
Gender
Location
Workplace

(ok, “workplace” dovrebbe essere Wikimedia Italia, ma anche se fosse la grande azienda dove lavoro la cosa cambierebbe poco). Notate che non è affatto chiaro se ci siano altri dati ottenibili solo a pagamento: questi sono quelli pubblici.

La cosa che mi preoccupa di più è naturalmente il phishing: un conto è mandare un SMS a un numero di telefono con un testo generico, altra storia è cominciare il messaggio con “ciao Maurizio!”. L’altra cosa che mi chiedo è se Facebook doveva rispettare il GDPR, e se sì come ha segnalato il data breach…

PS: in genere non è mai consigliato inserire i propri dati in un sito come questo, che tra l’altro è stato registrato da qualcuno che sta in provincia di Milano… Diciamo che vi conviene evitare di farlo e comportarvi come se i vostri dati fossero in effetti stati rubati.

Ultimo aggiornamento: 2021-04-07 21:39

Gli hub della disinformazione

La CBS riporta uno studio del Center for Countering Digital Hate, che mostra come i due terzi dei contenuti contro i vaccini e la loro sicurezza si possono far risalire a dodici persone, tra cui Robert F. Kennedy Jr., figlio di Bob e quindi uno dei millemila nipoti di John Kennedy. Per i curiosi, il documento si può scaricare da qui.

Da un punto di vista strettamente matematico – e che credo possa essere condiviso anche dagli antivaxx – questo risultato è molto interessante, perché mostra la portata della legge di potenza e del potere degli hub, di cui ho parlato con il mio amico e collega Paolo Artuso in Scimmie digitali. In pratica, pochi punti ben collegati – se volete, potete chiamarli “i poteri forti”… – bastano per una diffusione capillare delle informazioni. Questo accentramento è assolutamente normale in rete, per la semplice ragione che da un lato la diffusione di un’informazione è indipendente dalla distanza, e dall’altro che noi esseri umani siamo cablati per credere una cosa più vera se ci arriva da fonti che crediamo indipendenti.

Paradossalmente, insomma, diamo più credito a una stessa notizia ripetuta più volte che a tante notizie coerenti ma un po’ diverse tra loro; visto che le fonti antivaxx sono molto meno di quelle provaxx, ecco che molta gente dà più retta alle prime. Certo, qualcuno potrebbe dire che le grande piattaforme potrebbero fare qualcosa per bloccare quella sporca dozzina. Ma secondo voi succederà mai?

Ultimo aggiornamento: 2021-03-29 08:12

Google dà soldi anche agli editori italiani

Ieri sul blog di Google Italia è stato annunciato l’arrivo di Google News Showcase, che tradotto in italiano corrente significa “hanno fatto l’accordo con parecchi editori italiani”. Guardando la lista, spicca l’assenza di GEdI; ma abbiamo Cairo (Corriere della Sera), Caltagirone (Messaggero e Gazzettino), Monrif (Quotidiano Nazionale), Il Fatto Quotidiano, il Giornale e Libero. Insomma, una sventagliata di testate di tutte le tendenze politiche.

Al netto della soddisfazione indicata da tutti gli attori, si riesce a capire che tra qualche settimana Google pagherà anche in Italia i famosi “diritti connessi”, oltre che “la possibilità ai lettori di accedere a contenuti selezionati dietro paywall”, qualunque cosa ciò voglia dire. Repubblica si limita a un trafiletto, mentre La Stampa ricopia più o meno pedissequamente il comunicato: in entrambi i giornali la notizia è nascosta nelle sezioni economia e finanza.

Sarà interessante vedere cosa succederà tra un paio d’anni, secondo me. È vero che senza giornali le Big Tech non possono postare articoli (tranne quelli di cronaca, che già da un po’ possono essere composti da intelligenze artificali…), ma è anche vero che c’è un grande rischio che i quotidiani diventino lentamente una propaggine della Grande G. Chi vivrà leggerà…

Riuscirà Google a rendere il tracciamento pubblicitario più anonimo?

Qualche settimana fa Google ha presentato un nuovo modello per inviare pubblicità mirata “rispettando la privacy degli utenti”. In pratica, si supererebbe il modello attuale in cui ogni volta in cui accediamo a una pagina web viene creato un certo numero di cookie (informazioni di base) che vengono poi passati agli inserzionisti per far loro scegliere quali pubblicità inviarci; si avrebbe invece un sistema chiamato FLoC (Federated Learning of Cohorts) nel quale si mischierebbero i dati di gruppi di utenti con interessi simili, in modo che chi fa pubblicità potrebbe comunque mandare annunci personalizzati, pur non sapendo a chi arriverebbero.

Di per sé i cookie sono necessari, perché il protocollo HTTP (e la versione crittata HTTPS) che serve per leggere le pagine web non ha memoria; ogni pagina viene data da zero. Con i cookie è possibile per esempio salvare la password di accesso a un sito, oppure gestire l’e-commerce o le transazioni con la propria banca online. Purtroppo però non c’è voluto molto tempo perché ci si accorgesse che li si poteva sfruttare anche per recuperare dati personali dell’utente e usarli in applicazioni di terze parti. Ultimamente però questa dittatura pubblicitaria è diventata sempre più pesante e molti browser permettono di bloccare i cookie non legati al sito su cui ci si collega. Ha cominciato Firefox, ma anche il browser Apple (Safari) lo sta facendo. Google a questo punto è dovuta correre ai ripari e si è inventata questo modello che ha reso poi pubblico, invitando i creatori degli altri browser a unirsi.

Premetto che non ho studiato a fondo il modello, e quindi potrei dire più castronerie del solito. So anche che Google ha abbastanza potenza di fuoco per creare qualcosa di completamente diverso. Però, a parte ricordare che Google continuerà a usare i cookie traccianti nei propri siti, temo che la soluzione non sia poi così favolosa. Anche se pensate che l’EFF esageri, chiunque sia abituato a trattare dati sa benissimo che non è difficile deanonimizzare dati aggregati se si hanno altre informazioni a disposizione sugli utenti. Io personalmente avrei visto meglio un sistema sempre basato su dati interni al browser e non mandati in giro (come appunto fa FLoC) ma che possano essere almeno in parte gestiti dal singolo utente, per esempio cominciando a segnalare quali sono i tipi di pubblicità che lui ritiene più pertinenti, e con un sistema di bonus esplicito che si attiva quando uno si trova una pubblicità che apprezza. (Ho più dubbi sul malus nel caso in cui ci siano pubblicità non volute, perché è una cosa molto facilmente superabile).

Ma a parte tutto questo, chiedo a chi non ha ancora messo un ad blocker: ma davvero la pubblicità che vedete è così mirata sui vostri gusti? O è tutta fuffa, perché bisogna vendere agli inserzionisti l’idea che la pubblicità viene mandata solo ai potenziali interessati e quindi bisogna che paghino di più?

L’importanza di chiamarsi Medium

Mercoledì scorso, molti italiani hanno scoperto di non poter più raggiunger il sito medium.com, uno dei più famosi luoghi dove trovare long form. (Anch’io ho un account su medium, ma non ci scrivo praticamente mai perché non mi piace la loro politica di monetizzazione dei post… ma quella è un’altra storia). Che è successo? Semplice. Come racconta Wired, uno dei blog di Medium, @casinoduende, a quanto pare promuoveva il gioco d’azzardo; così AMS ha inserito tutto medium.com nella lista nera dei siti che i provider devono oscurare modificando il proprio DNS. Solo che qualcuno si è accorto dell’idiozia della cosa – immagino leggendo Wired o qualche altro sito influente – e casualmente il giorno dopo medium è stato silenziosamente tolto dalla lista, senza ovviamente nessun tipo di scusa.

Ovviamente nulla di tutto questo è capitato con Project Gutenberg, che ricadeva nella stessa categoria. Ma a chi volete che importi qualcosa di opere letterarie fuori diritti?

Clubhouse

Evidentemente sto invecchiando. Però quando ho sentito parlare di Clubhouse non mi è venuta proprio nessuna voglia di cercare un invito (eh sì: a quanto pare la piattaforma è su invito). Ma forse la ragione è anche un’altra. Io sono un tipo da parola scritta, e sicuramente da interazioni asincrone. Ho provato a fare qualche video su Instagram e ho smesso quasi subito. Per quanto riguarda gli audio, a parte tendere a non ascoltare nemmeno i vocali di Whatsapp, mi bastano e avanzano tutte le audiocall che mi tocca fare per lavoro. Insomma, secondo voi quanto possono interessarmi chat vocali sincrone di gruppo, dove tra l’altro le “persone interessanti” parlano e gli altri per lo più stanno ad ascoltare?

Ma naturalmente proprio le ragioni per cui io me ne sto ben lontano da Clubhouse potrebbero portare alla sua fortuna almeno per un certo qual periodo…

TikTok e SPID?

Devo dire che non ho capito la logica che porta Stefano Quintarelli a suggerire che per evitare che i bambini vadano nei social network senza supervisione si chieda SPID e numero di carta di credito. (Dei genitori, ovviamente, perché pare che il bambino non possa avere uno SPID).

Il primo problema è ovviamente che resta ancora da vedere se i genitori avrebbero comunque idea di cosa stiano facendo i figli. Da questo punto di vista sarebbe molto più utile avere un accesso ausiliario in sola lettura associato a quello principale, in modo che almeno si possa vedere cosa i pargoli stiano facendo; questo è indipendente dal modo in cui ci si autentica. Ma quello che soprattutto mi preoccupa è dare dati ufficiali (quelli di SPID) a una azienda terza che opera su Internet. Io sono abituato da decenni a vedere i politici che chiedono più o meno surrettiziamente che si cancelli l’anonimato in rete (anonimato che poi è sempre molto relativo, la polizia postale è molto brava a trovare le informazioni quando servono davvero). Se ora mi ci si mettono anche i tecnici siamo davvero messi male…

Ultimo aggiornamento: 2021-01-27 10:14