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182 centimetri, non uno di meno


Il testo in figura è preso (immagine 18) dal Corriere della Sera, il maggior quotidiano italiano, e mi è stato segnalato dal mio collega Damiano. Io capisco che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (pardon, la World Health Organization) sia ostaggio degli americani e quindi si ostini a misurare le distanze in piedi. Ma magari quando lo si porta nel resto del mondo si può evitare di prendere la calcolatrice e limitarsi a scrivere “un metro e ottanta centimetri” senza che nessuno faccia partire la contraerea.

Che poi sei piedi a dire il vero sono 182,88 centimetri: e se uno per sbaglio finisse in quegli otto millimetri abbondanti e si beccasse lo stesso il virus, chi ne paga le conseguenze? :-)

Ultimo aggiornamento: 2020-03-04 16:27

Ginetta Pignolo e le “traduzioni riscritte”

Con il mio solito ritardo sto leggendo il secondo volume della raccolta Urania dei racconti di Arthur Clarke. Nell’introduzione (che è stata messa nel secondo volume, non nel primo… misteri editoriali) Franco Forte scrive che potremo “gustare le nuove traduzioni i diverse opere che abbiamo già avuto il piacere di leggere in passato, seppure con una trasposizione in italiano quanto meno approssimativa”. Occhei, le traduzioni italiane di una volta, di fantascienza e non solo, spesso erano per così dire peculiari. Non che quelle attuali siano specchiate, come ho raccontato; ma limitiamoci alle traduzioni del passato. In “Silenzio, prego” (Silence, please) trovo scritto che un personaggio “non era capace nemmeno di integrare e con x​”. Un qualunque studente liceale può immaginare che avrebbe dovuto scrivere e alla x (la battuta fa ridere solo matematici, fisici e ingegneri: l’integrale di ex è ex stesso, a meno di una costante); e in effetti l’originale dice “I don’t suppose he can even integrate e to the x​”, e bastava tradurre parola per parola. Qualche riga dopo, “Let’s say x e to the x​” diventa un ancor più incomprensibile “Diciamo x con x​”. La pagina seguente, “The compression pulse of one sound wave would be on top of the rarefaction of another” viene tradotto con “il battito di compressione di un’onda sonora si sommerebbe alla rarefazione di un’altra” che non ha alcun senso se non sai già il significato. Lasciamo perdere la citazione su Sir Alan Herbert, che è stata tradotta con qualcosa di completamente diverso ma forse non aveva senso lasciare così in italiano.

Sono andato a vedere chi era il traduttore, e ho letto che era tale “Ginetta Pignolo”. Una rapida guglata non mi ha detto molto: ho così chiesto alla mia amica Isa se per caso quello fosse uno pseudonimo usato dai redattori editoriali nel caso di traduzioni fatte alla buona. La risposta, oltre al cazziatone per non essere andato sull’OPAC SBN, è stata «risulta attiva dalla fine degli anni ’40, in specie come traduttrice dal tedesco, per poi tradurre una sventagliata di titoli di ogni genere dall’inglese (si sa che se sai bene il tedesco, l’inglese lo assimili per osmosi, no?)» e soprattutto «il ventaglio degli editori che hanno pubblicato sue traduzioni è molto ampio (Einaudi, Mondadori, Frassinelli, Bolaffi, Rizzoli, Borla… e si parla degli anni ’50 e ’60, quando erano ancora tutti indipendenti»; quindi probabilmente era una persona realmente esistente. E in effetti ho poi notato che nel colophon c’è la tipica frase “L’editore ha ricercato con ogni mezzo Pietro Ferrari, Ginetta Pignolo e Bianca Russo, titolari dei diritti di traduzione…” che si mette per pararsi le spalle.

Ora è chiaro che la signora Pignolo non faceva fede al proprio nome; ma in fin dei conti nel 1950 le conoscenze scientifiche dei traduttori erano scarse e anche la coppia Fruttero-Lucentini si è presa delle belle licenze. Ma questa raccolta è uscita nel 2019, e hai esplicitamente detto che molte traduzioni sono state rifatte. Possibile che nessuno con un minimo background scientifico abbia riletto le traduzioni di un autore che è stato uno dei primi esponenti della Hard SF? Cosa sarebbe loro costato?

Ultimo aggiornamento: 2020-02-05 11:30

Sommare anni ed euro

Da ieri vedevo girare su Facebook questa tabella di ItaliaOggi. Mi era chiaro che i totali non avevano senso, ma non riuscivo a capire come fossero stati ottenuti. Ho dovuto leggere un commento postato su Twitter per capire cosa era successo: l’ignoto preparatore della tabella aveva sommato tutti i numeri delle colonne, compreso quello dell’anno. Tra gli innumerevoli danni portati da Excel dobbiamo insomma anche aggiungere l’incapacità di accorgersi di cosa si sta facendo quando si applica una funzione. Che il tutto sia stato pubblicato sul secondo quotidiano finanziario italiano aggiunge solo tristezza.

Ah: nel contesto è un bruscolino, ma sommare il gettito previsto in quattro anni per fare un titolo più a effetto è qualcosa che dovrebbe essere vietato dalla legge prima che dal buonsenso. Ma d’altra parte è la stessa ragione per cui si continuano a finanziare costi strutturali con gettiti una tantum…

Ultimo aggiornamento: 2020-01-26 18:02

Gli Agnelli tornano nell’editoria

La situazione dell’italica stampa è sempre più tragica, e questo lo sappiamo tutti… o almeno lo sanno i pochi che leggono ancora i giornali. Alcuni quotidiani sono messi peggio di altri: a parte il Fatto Quotidiano, chi fa davvero fatica a trovare una sua posizione è certamente Repubblica. Due anni fa ci fu un tentativo di unirsi tra perdenti, quando Repubblica si prese ITEDI – dove La Stampa aveva a sua volta inglobato il Secolo XIX – per tornare ad avere una massa critica. Però a quanto pare la cosa non è stata sufficiente. Il mese scorso Carlo De Benedetti, che aveva ceduto le sue quote ai figli, ha pubblicamente fatto un’offerta di acquisto rimandata al mittente; altre voci si sono susseguite, ma ora sembra che la Exor di John Elkann stia facendo un’offerta che non si può rifiutare, nonostante il titolo in borsa stia andando malissimo. Cosa poi voglia fare Elkann, a parte le dichiarazioni formali «quello che prenderà avvio la prossima settimana è un progetto imprenditoriale coraggioso, tutto proiettato al futuro. Obiettivo: assicurare a Gedi condizioni di stabilità che consentano alla società di evolvere velocemente, compiendo scelte che non possono più essere rimandate» non è chiaro. Per dire, Il Sole-24 Ore parla addirittura di delisting.

Il nonno Giuanin Lamiera amava fare l’editore, tanto che c’è stato un periodo in cui oltre all’house organ La Busiarda (ehm, pardon, La Stampa) aveva anche il controllo del Corriere della Sera. Ma Elkann non è mai sembrato tanto interessato a buttare soldi in un settore notoriamente difficile, tanto che aveva fatto fuori praticamente tutte le sue quote azionarie. Perché questo ritorno di fiamma? Le malelingue affermano che ora che con l’accordo FCA-Peugeot la famiglia Agnelli si è praticamente sfilata dal mercato dell’auto c’è bisogno di avere una campagna di stampa positiva sulla scelta, ma mi pare un’idea piuttosto bislacca. Al limite penso che voglia diventare il Jeff Bezos de noantri e far diventare Repubblica l’equivalente del Washington Post: ma diciamo che anche questo mi pare improbabile. Vabbè, magari oggi salta tutto e quindi non potremo mai sapere cosa sarebbe successo :-)

La Stampa ritorna al copyright totale

Tanti anni fa La Stampa decise di pubblicare gli articoli – prima quelli di Tuttolibri dal 2006, poi dal 2015 tutti quelli del giornale online – con una licenza Creative Commons; la più restrittiva tra quelle licenze, visto che non era possibile un uso commerciale né modificare il testo, ma comunque una licenza che non si riservava tutti i diritti. Ora ha deciso di cambiare idea, come spiega Anna Masera: si ritorna al copyright classico.

La cosa non cambia per nulla la mia vita, a dire il vero, visto che non mi è mai capitato di copiare verbatim un articolo di un giornale. D’altra parte Masera lo esplicita anche: la decisione è stata presa «per uniformarsi alle altre testate del gruppo Gedi», e sapete bene come i De Benedetti siano sempre stati in prima fila nella lotta per mantenere bello stretto il controllo sulle notizie. Né si può dire che il quotidiano torinese abbia mai pensato di sfruttare l’idea di un giornale con i contenuti un po’ distribuibili. Parafrasando quanto dice il mio amico Marco Renzi, se vuoi sperimentare va bene, ma allora devi anche pensare a costruirti una comunità attorno, cosa che non si è certo vista. Insomma, la scelta di abbandonare le licenze CC merita rispetto e non c’è da alzare alti lai contro questa presunta perdita di libertà.

Quello però su cui dissento fortemente sono le motivazioni addotte. Masera non può venirci a dire che «etichetta vuole che sul web si condivida l’url e non il pdf o lo screenshot (foto dell’articolo), nel rispetto del modello di business scelto dall’editore.» La public editor della Stampa sa infatti benissimo che questo si poteva e si può fare anche con il copyright classico; anche la direttiva europea sul copyright, fin dalle sue prime bozze, ha sempre permesso l’uso del collegamento ipertestuale, con grave scorno di taluni per cui bisognerebbe pagare anche per il link. Ma credo che il massimo sia raggiunto dal caporedattore Alberto Infelise, che nel tweet in figura dimostra di non sapere affatto di che si parla. Vi consiglio di leggere il thread completo. Gli è stato educatamente spiegato che la situazione per quanto riguarda le copie di uso commerciale non cambierà né dal punto di vista legale – già prima erano vietate – né dal punto di vista tecnico – non è che scrivere “© RIPRODUZIONE RISERVATA” impedisca di fare copincolla; ma lui resta testardo sulle sue idee. Una delle mie massime di vita è di evitare di fidarmi di quanto un esperto afferma sui temi diversi da quelli da lui studiati; ma a certi livelli io comincio anche a dubitare di qualunque cosa dica…

Titolisti vil razza dannata – reprise

Ieri è stata pubblicata sul Giornale un’inchiesta riguardo a Wikipedia. (Che io sappia, non c’è un link, dovete fidarvi), con interviste al vostro affezionato titolare e a Frieda. Il testo dell’intervista riporta correttamente le nostre affermazioni, ve lo anticipo subito: il titolo no, come già successo altrove. Non mi lamento tanto della frase “L’enciclopedia del mondo è già vecchia”, dove la scelta del termine è ovviamente legata al punto di vista del quotidiano, ma al catenaccio che dice “Calano gli autori – l’aggiornamento dei testi è più lento e meno frequente”. Le statistiche di Wikipedia sono pubbliche. Nella figura vedete quella relativa agli editor attivi, mentre per le pagine modificate potete andare qui. È indubbio che dal 2013 al 2014 c’è stato un calo di contributori; ma da lì in poi il loro numero è rimasto costante, con fluttuazioni legate al mese dell’anno. Possiamo dire che il numero è “stagnante” come nel testo (di nuovo: la scelta dei termini non è mai neutra, ma non ho il diritto di sindacare) ma non certo in calo. Lo stesso per le modifiche: un matematico rompipalle come me può affermare che avere un numero stabile di modifiche e un numero crescente di pagine significa che si fanno meno modifiche per singola voce, ma lì si entra in un terreno più complicato, perché ci sono voci che naturalmente richiedono sempre meno modifiche man mano che si assestano. Quello che continuo a chiedermi è che cosa ci guadagnano i titolisti a scrivere qualcosa che poi viene smentito nel corpo dell’articolo…

Ah, il catenaccio termina con “L’utopia del sapere cooperativo è entrata in crisi” che è tecnicamente corretto ma un po’ fuori contesto; ha più senso unito alla mia frase “siamo una riserva indiana”. In pratica, la Rete di trent’anni fa non esiste più, e si viaggia verso l’individualismo e la ricerca affannosa di like personali; da qui la crisi del sapere cooperativo, che però è da misurarsi rispetto al totale degli utenti e non nei numeri assoluti che per l’appunto restano costanti. Riconosco però che questo concetto non si può certo riassumere in poche parole, quindi non mi preoccupo più di tanto!

Titolisti, vil razza dannata

Una decina di giorni fa si è scoperto che una voce di Wikipedia creata nel 2004 era falsa, o più precisamente partiva da una base reale (un campo di concentramento a Varsavia nella seconda guerra mondiale) ma aveva “trasformato” il campo in uno di sterminio. Quel falso storico era presente in varie edizioni linguistiche: l’articolo più visitato era come capita spesso quello sulla Wikipedia in lingua inglese, ma c’era anche una versione in lingua italiana. Fin qua nulla di davvero nuovo, purtroppo: Wikipedia è uno dei terreni preferiti dai revisionisti, in questo caso polacchi.

Martedì scorso il Corriere ha pubblicato un seguito dell’articolo, dove parlo anch’io con il cappellino di Wikimedia Italia. La settimana scorsa ero stato al telefono quaranta minuti abbondanti: diciamo che se avessi potuto rivedere il mio virgolettato avrei suggerito qualche modifica, ma nel complesso direi che il mio pensiero è stato riportato correttamente. Wikipedia non è una fonte primaria, il che significa che si deve fidare di quanto scrivono altre fonti che si spera siano valide; in caso di guerre di edit si cerca di evitare il più possibile di andare a una votazione, perché la verità non si decide a maggioranza; ma anche che non possiamo sapere se un utente bannato all’infinito si è reiscritto con un altro nome e ora si comporta in maniera costruttiva. (Occhei, non ho aggiunto che all’atto pratico ci accorgiamo subito dallo stile di interazione di chi si tratta… È inoltre vero – o almeno questo è il mio punto di vista – che quando si scopre che qualcosa ampiamente creduto è falso è meglio lasciarlo scritto, indicando che è falso e le fonti che dimostrano la falsità, rispetto a cancellarlo. I complottisti diranno comunque che le fonti riportate sono fabbricate ad arte, ma non rischiamo che qualcuno magari in buona fede aggiunga di nuovo le informazioni errate.

Peccato che poi ci sia il titolo (ben spalleggiato dal catenaccio). Titolo:

Wikipedia e la bufala sul Polocausto: «Meglio gli errori che un controllo dall’alto». Così funziona l’enciclopedia libera

Quello che io affermo è che un comitato redazionale (“controllo dall’alto”, se volete dirlo così) porta inevitabilmente ad avere un punto di vista specifico nelle voci, che può essere o no corrispondente alla verità. Possiamo fare il classico esempio: la voce “Fascismo” nella prima edizione della Treccani era stata direttamente scritta da Mussolini. Il modello “dal basso” di Wikipedia è diverso, non migliore di quello di un’enciclopedia standard; è probabilmente più prono ad avere errori, che però per la massima parte durano relativamente poco. (Nel caso in questione, non credo che la bufala del campo di sterminio fosse solo citata su Wikipedia).

Ma quello che è peggio è il catenaccio:

Il portale, costruito dall’opera di volontari, non ha mai introdotto alcun sistema per prevenire le storie false. «La comunità è sempre riuscita a mantenere l’equilibrio nelle opinioni»

Fatevi una domanda e datevi una risposta, direbbe Marzullo. Quali sono i sistemi per prevenire storie false? Quello che tipicamente si usa (ehm, diciamo si dovrebbe usare, visto quello che troviamo in giro) è il non pubblicare nulla fino a che non c’è una ragionevole certezza di verità. Wikipedia ovviamente non fa così, visto che non ci sono controlli a priori sull’inserimento di contenuti: ma un meccanismo c’è, ed è quello dei template di avviso citati del resto nell’articolo: voce da controllare e mancanza di fonti.


Questi avvisi hanno più di dieci anni di esistenza (anche se non c’erano ancora quando è stata creata la voce sul cosiddetto campo di sterminio di Varsavia) e sono nati proprio per aiutare l’utente ignaro. È vero che chi scrive su Wikipedia non è di solito un esperto, ma se è abbastanza bravo può notare che c’è qualcosa che non torna e segnalare così a tutti di fare attenzione. Poi ci sarà sempre chi non legge gli avvisi, ma c’è anche chi inoltra sempre bufale così malfatte da far pensare che tanto parlare con lui è tempo perso.

Bene, lasciamo Wikipedia e torniamo ai titolisti dei giornali. Cosa succede se il lettore che è come sempre di fretta non legge l’articolo ma si limita al titolo? Si fa un’idea del tutto sbagliata di quello che succede. E qui non ci si può neppure appellare alla solita scusa “non c’è abbastanza spazio”, perché il catenaccio ha più libertà. Capite perché io affermo sempre che i titolisti saranno i primi ad andare al muro quando ci sarà la rivoluzione?