(vi ricordate che tra nemmeno dieci giorni c’è il Carnevale della Matematica? siete già andati da Chartitalia a indicargli i vostri contributi?)
Se non ve ne siete dimenticati, avevo promesso di dimostrare che 0,999999… non è uguale a 1. Il compito si direbbe improbo: abbiamo visto che i reali sono “tutta la retta dei numeri”, nel senso che con i tagli di Dedekind siamo riusciti ad associare un numero a ogni punto della retta. Si direbbe insomma che, visto che la distanza da 1 dei numeri della successione 0,9, 0,99, 0,999 … si riduce sempre di più ed è più piccola di un qualunque numero positivo, non c’è più spazio a disposizione per trovare un altro numero limite – un altro punto sulla retta – diverso da 1. E invece no! O almeno, “non necessariamente”. Quando in matematica si dice che due più due fa sempre quattro, ci si dimentica sempre di aggiungere “con le usuali definizioni di due, quattro e più”; se consideriamo i resti della divisione per tre (il gruppo Z3, per i pignoli) 2+2 in effetti fa 1 :-) Questo capita soprattutto quando le definizioni sono talmente abituali da essere prese per implicite: ed è per questo che nella puntata precedente ho scritto esplicitamente alcune cose di cui in genere non si sente parlare, tipo la proprietà di Archimede (che avevo chiamato Principio, ma forse è meglio passare al termine corretto).
Infinitesimi
Facciamo un passo (storico) indietro e prendiamo qualcosa che magari è rimasto in testa a chi ha fatto lo scientifico: gli infinitesimi. Quando Leibniz e Newton idearono indipendentemente il calcolo infinitesimale dalle due parti della Manica, tirarono entrambi fuori queste simpatiche quantità che erano diverse da zero fintantoché ci fosse necessità di dividere per esse, ma una volta fatte fuori dai denominatori diventavano immediatamente nulle; come del resto il loro quadrato era zero senza sé e senza ma. Quantità davvero curiose, se ci si pensa un attimo; tanto che il vescovo e filosofo George Berkeley – sì, quello che dà il nome all’università californiana – si prese il gusto di irridere chi operava con le flussioni, dicendo «E cosa sono queste flussioni? le velocità di incrementi evanescenti? Non sono né quantità finite, né quantità infinitamente piccole, ma nemmeno un nulla. Non potremmo chiamarle fantasmi di quantità defunte?» I matematici alzavano le spalle e dicevano che saranno anche state fantasmi di quantità defunte, ma facevano tornare i conti, e questo bastava loro. Ma sotto sotto sapevano che Berkeley aveva ragione, ed erano un po’ a disagio con gli infinitesimi. Così, quando a fine Ottocento Karl Weierstrass tirò fuori tutta quell’astrusa definizione di limite con gli epsilon e i delta, furono in molti a tirare un sospiro di sollievo e buttare via gli infinitesimi, pensando “ora non ci sono problemi”. Al limite, il problema restava a chi doveva ricordarsi a memoria la definizione e non scambiare gli epsilon e i delta… ma quelle sono quisquilie.
Tutto andò avanti senza troppi scossoni fino al 1961, quando un matematico di nome Abraham Robinson decise di vedere se poi in fin dei conti gli infinitesimi non potessero avere cittadinanza a pieno titolo tra i numeri. In fin dei conti se abbiamo accettato robaccia tipo i numei immaginari e i quaternioni, non si potrebbe forse trovare una via d’uscita? E in effeti una via d’uscita c’era, ed era data nientemeno che da un teorema di Kurt Gödel. Attenzione: non è un caso che abbia scritto “un” teorema. Non si tratta qua del classico teorema di indecidibilità, quello di cui tutti ne parlano e nessuno sa mai cosa dica esattamente, ma del teorema di completezza, che dice “un insieme di proposizioni è coerente se e solo se esso ha un modello, cioè se e solo se esiste un universo in cui esse sono tutte vere”. Ammetto che il teorema, scritto in questo modo, è ben poco comprensibile, anche perché non si sa bene che cosa sia un universo né un modello; diciamo che un universo è un insieme di enti e di operazioni, e un modello è un modo di vedere l’universo in pratica. No, non è così complicato. Ad esempio, un universo sono i numeri reali, con le operazioni di somma e prodotto e la relazione “<“; e un modello per i numeri reali è la nostra simpatica retta dei numeri che abbiamo visto l’altra volta.
Numeri iperreali
Esiste un corollario del teorema di completezza, chiamato teorema di compattezza, ci dice che se abbiamo un universo “standard” e un insieme di proposizioni tale che qualunque loro sottoinsieme finito sia vero, allora possiamo costruire un altro universo (“non standard”) dove tutte le proposizioni sono vere. Vi siete ancora persi? Eccovi un caso pratico. Prendiamo tutte le proposizioni del tipo
[1] ε è un numero maggiore di 0 e minore di 1/1
[2] ε è un numero maggiore di 0 e minore di 1/2
[3] ε è un numero maggiore di 0 e minore di 1/3
…
[n] ε è un numero maggiore di 0 e minore di 1/n
…
Se prendiamo un numero qualunque di queste proposizioni, possiamo trovare un ε che le renda vere tutte assieme; se prendiamo ad esempio le prime 20, la 30 e la 40, basta scegliere come ε il valore 1/42. Allora per il teorema di compattezza deve esistere un modello dove tutte queste proposizioni sono vere; in questo modello esisterà un ε maggiore di 0 ma minore di 1/n per ogni n intero. Questo numero ε è chiamato infinitesimo, mentre l’insieme dei numeri che troviamo è quello dei numeri iperreali (da non confondersi coi numeri surreali… dovreste saperlo che la fantasia dei matematici è sfrenata, quando tocca loro dare il nome a qualcosa!) Il bello di questo modello non standard dei reali è che funziona praticamente come i reali “reali”. Il numero iperreale 1 è esattamente uguale, per quanto ci riguarda, al numero reale 1; se s e p sono la somma e il prodotto di due numeri reali a e b, la somma e il prodotto degli iperreali corrispondenti ad a e b saranno i corrispondenti di s e p; e se a<b, questo vale anche per i corrispondenti. Però c’è (ovviamente) qualcosa di diverso: ad esempio, i numeri 1 e 1-ε si dicono infinitamente vicini, proprio perché la loro differenza è un infinitesimo. È come se prendessimo la nostra retta dei numeri, una lente di ingrandimento, e scoprissimo che a ogni punto della retta (un numero reale) corrisponde un’infinità di numeri, tutti infinitamente vicini tra loro. E quindi significa che la successione dell’altra volta, quella scritta (1 – 1, 1 – 1/10, 1 – 1/100, 1 – 1/1000, … ), non arriva a 1 come credevamo, ma si ferma a 1-ε. Un numero infinitamente vicino a 1, ma non 1.
C’è anche un altro approccio più o meno simile per arrivare ai numeri iperreali; questo approccio parte dai numeri ipernaturali, che sono numeri “quasi” naturali, nel senso che dato un numero ipernaturale μ c’è sempre un numero precedente μ-1 e un numero seguiente μ+1. L’unica differenza è che gli ipernaturali che non sono numeri positivi standard sono tutti infiniti, e quindi non proprio “naturali”. I nostri infinitesimi sono gli inversi dei numeri naturali.
Dov’è il trucco
Dov’è il trucco? Beh, se mi avete seguito dovreste averlo capito: nel modello non-standard dei numeri reali perdiamo la proprietà di Archimede. Per quanto noi ci affanniamo a prendere dei multipli (finiti) di ε, non potremmo mai raggiungere il numero 1, o se per quello un qualunque numero reale positivo: rimarremo sempre ad avere numeri infinitamente vicini a zero, un po’ come se corressimo affannosamente ma rimanessimo sempre inchiodati al nostro posto. È una bella perdita, indubbiamente. Ma non venitemi a dire che questi numeri iperreali sono assolutamente fittizi e non ce li possiamo trovare se non in esempi assolutamente astratti, perché vi zittisco subito con due casi semplicissimi.
Il primo è l’angolo formato da una circonferenza e dalla sua tangente. Quanti gradi vale? non può essere di zero gradi, perché un angolo zero è fatto da due semirette sovrapposte mentre la tangente e la circonferenza si allontanano; ma non può nemmeno essere un numero reale maggiore di zero, perché in quel caso la retta sarebbe secante e non tangente alla circonferenza (dall’altro lato, nel caso ve lo chiedeste). Quindi è piuttosto naturale affermare che l’angolo è un infinitesimo. In effetti i più matematici tra voi si saranno ricordati che la tangente a una curva è il modo geometrico di definire la derivata in un punto; l’analisi non standard è appunto nata perché Robinson voleva vedere se si potevano formalizzare le intuizioni di Leibniz sugli infinitesimi che si comportano “come i numeri veri”.
Il secondo caso in cui gli infinitesimi compaiono naturalmente riguarda gli ordini di grandezza delle funzioni. Soprattutto gli informatici sanno bene che se un algoritmo richiede 3n2+5n+7 operazioni nel caso si abbiano n valori da cui partire, al crescere di n si possono lasciare perdere i termini meno importanti e affermare che il suo costo è di O(n2) operazioni. Un algoritmo di costo O(n2) sarà nel caso generale più “economico” di uno di costo O(n3), e uno di costo O(nk) sarà sicuramente meglio di uno che esplode esponenzialmente, cioè di costo O(en), per quanto grande sia k. Fin qua tutto bene. Prendiamo ora un problema molto comune, quello di mettere in ordine di grandezza crescente una serie di n valori: l’algoritmo più veloce possibile ha un costo che è O(n log(n)) operazioni. Se volessimo dire qual è l’esponente di n corrispondente, ci troveremmo nei pasticci. È sicuramente più di 1, perché log(n) cresce all’infinito. Ma è sicuramente meno di 1+ε per ogni ε. Che numero è, allora? È chiaro: uno più un infinitesimo!
Ulteriori informazioni
Complimenti a voi se siete riusciti ad arrivare qui in fondo senza scappare: anche se ho cercato per quanto possibile di evitare qualsiasi dimostrazione, mi rendo conto che l’argomento è un po’ ostico, senza poterci lavorare su “in diretta”. Chi si fosse però incuriosito e volesse sapere qualcosa di più sui numeri iperreali e l’analisi non standard può leggersi un paio di documenti scritti in italiano: I numeri infinitesimi e l’analisi non standard, del mio vecchio compagno di università Mauro Di Nasso, e Introduzione all’Analisi Non-Standard, di Riccardo Dossena.
Ultimo aggiornamento: 2008-08-05 14:49