_Una notte al museo_ (film)

Ieri, non paghi di essere stati a vedere la mostra su Paul Klee, ce ne siamo anche andati al cinema. Però non si poteva esagerare con la cultura, così ce ne siamo andati a vedere Una notte al museo. Intendiamoci: occorre avere una suspension of belief molto maggiore di quella usuale. No, il problema non è vedere lo scheletro di un tirannosauro che prende vita e vuole correre dietro l’osso lanciato dal guardiano. Quella è suspension of belief “standard”, per così dire. Ma pensare che Ben Stiller quando si trova gli ex custodi che stanno rubando tutto pensi solo a chiamare la sua futura fidanzata Rebecca invece che la polizia e il direttore del museo mi pare davvero esagerato.
Ad ogni modo la storia inizia un po’ fiacca ma poi prende bene, e direi che è costruita secondo tutti i crismi. Sono ragionevolmente certo che il film sia stato sponsorizzato dal museo di storia naturale di New York, magari anche con un contributo dal loro ministero per l’educazione; ottima cosa, intendiamoci, anche se non riuscirei a vederci nulla di simile ambientato al Museo della Scienza e della Tecnica qui a Milano. Alla fine sono 108 minuti che passano piacevolmente, anche perché il cast è davvero d’eccezione: a parte Robin Williams, il trio dei guardiani notturni Dick Van Dyke / Mickey Rooney / Bill Cobbs è da vedere.

Numeri multidimensionali

[Questo testo è stato scopiazzat… ehm, ispirato dal post di Mark C.Chu-Carroll su Good Math, Bad Math. Commenti più che benvenuti!]
Il concetto della “retta dei numeri”, quella simpatica astrazione per cui tutti i numeri razionali e irrazionali se ne stanno belli belli l’uno a fianco dell’altro, è abbastanza noto, almeno per chi ha fatto il liceo. Non tutti però sanno che i matematici non si sono accontentati di restarsene confinati in uno spazio monodimensionale, e si sono lanciati in dimensioni sempre maggiori. Stavolta non parlo dei vettori, che sono gruppetti di numeri separati tenuti insieme per un unico scopo, a differenza dei partiti in una coalizione di governo in Italia: in questo caso avremo sempre a che fare con numeri singoli.
Il primo tipo di numeri che incontriamo nel nostro giro sono quelli complessi. Prima di arrivarci, però, facciamo un passo “laterale”, e piano di Argand torniamo per un momento ai numeri immaginari. Il nome è tutto un programma: semplicemente, nel Rinascimento, Tartaglia e Cardano hanno scoperto che se facevano finta che le radici quadrate di numeri negativi, che spuntavano mentre cercavano di risolvere le equazioni di terzo grado, fossero dei “veri” numeri, alla fine esse sparivano e si ottenevano le soluzioni corrette. Al tempo i matematici non erano nemmeno certi esistessero i numeri negativi: ma essendo i due molto pragmatici, hanno detto “immaginiamo che quella robaccia sia un numero”, e da qui è arrivato il nome di numeri immaginari. Che poi, quanto “reale” è un numero reale? Un terzo di torta uno riesce a immaginarselo, ma 1/pi di torta non credo proprio. Ma ormai il nome è quello, così come i numeri ottenuti sommando un reale e un immaginario sono chiamati “complessi” ma non è che siano così tanto complicati. Ci sono voluti più di due secoli prima che qualcuno riuscisse a vedere i numeri complessi non come due pezzi appiccicati insieme a forza, ma un oggetto singolo. Nel 1787 ci aveva tentato il norvegese Caspar Wessel, che però se ne stava appunto in capo al mondo e inoltre di professione faceva l’agrimensore, così nessuno si è accorto di lui; nel 1801 ci riprovò Jean-Robert Argand, che non faceva il matematico neppure lui ma era un libraio svizzero esule a Parigi, cosa che gli ha permesso di pubblicarsi il libro a sue spese e litigare un po’ con il gotha dei matematici, diventando subito noto.
L’idea di Argand, come l’uovo di Colombo, è semplicissima da comprendere dopo che la si è vista; invece che una retta si prende un piano, ci si disegnano due assi cartesiani, e si associa a ogni numero complesso un punto del piano. Siamo finalmente usciti dalla dimensione 1 e arrivati a quella 2, il che è bellissimo: non tanto per tutto lo spazio in più a nostra disposizione, quanto perché possiamo finalmente muoverci a piacere con tutte le operazioni matematiche – salvo dividere per zero, si intende – senza mai uscire dal nostro “giardinetto complesso”. Una situazione davvero favolosa, che però ha un rovescio della medaglia. Mentre sulla retta sapevamo sempre dire se un numero era maggiore o minore di un altro, ora abbiamo dei dubbi. Quale dovrebbe essere il numero maggiore tra 0+1i e 1+0i? E perché? Ma si sa, le comodità hanno spesso un prezzo.
I numeri complessi sono davvero comodi per i matematici e non solo: la teoria della relatività e la meccanica quantistica li usano regolarmente. rotazioni nello spazioMa già con Argand ci si accorse che la moltiplicazione tra due numeri corrispondeva a una rotazione nel piano. Ad esempio, moltiplicare per i significa ruotare di 90° in senso antiorario; dunque i*i è un giro di 180°, che è la stessa cosa che moltiplicare per -1. A questo punto l’irlandese William Rowan Hamilton ha detto “Che bello! Allora se aggiungo anche una j posso anche indicare le rotazioni 3d!” Solo che i conti continuavano a non tornargli… fino a che un giorno del 1843, mentre passeggiava con la moglie e stava passando su un ponte, ebbe l’idea risolutiva: ci voleva anche una terza variabile. Dimostrando scarso senso civico, si mise a incidere sul ponte l’equazione risolutiva: i2 = j2 = k2 = ijk = -1. Nascono così i quaternioni, numeri della forma a + bi + cj + dk. Qualcuno si potrà chiedere perché per indicare le rotazioni nello spazio 3d si usi un numero con quattro componenti, e qualcuno un po’ più avventuroso dirà “ma a che serve k? basta scrivere ij!” Peccato che ampliando così la dimensione dei nostri numeri ci siamo di nuovo persi qualcosa. È vero che ij = k, ma ji= –k. Per i quaternioni non vale cioè la proprietà commutativa della moltiplicazione. Sulle prime ci si può restare male: che senso ha pensare che cinque file da tre sono diverse da tre file da cinque? Ma ricordiamoci che i quaternioni rappresentano le rotazioni nello spazio. E guarda caso, se facciamo prima una rotazione antioraria di 90° e poi una riflessione allo specchio (cioè una rotazione di 180° nella terza dimensione), oppure facciamo prima la riflessione e poi la rotazione, otteniamo un risultato diverso. Insomma, la cosa ha un suo bel senso.
Uno, due, quattro… si potrebbe immaginare che il prossimo passo sia avere un numero con otto dimensioni, e che questo tipo di numero ci farà perdere ancora qualche proprietà matematica, e in effetti è così. Nel 1845 Arthur Cayley presentò al mondo gli ottetti (detti anche ottonioni per avere il nome simile a quello dei quaternioni). Qua, a parte l’unità standard, ci sono altre sette “unità” il cui quadrato è -1; per evitare di usare troppe lettere, in genere queste unità vengono chiamate e1, e2 e così via fino a e7. La nuova proprietà che si è persa è quella associativa; in pratica, (a*b)*c non è più necessariamente uguale ad a*(b*c). Un altro choc di quelli incredibili, ma sono ragionevolmente certo che ci siano delle ricette di cucina in cui tu hai tre ingredienti, e a seconda dell’ordine in cui li mischi ottieni qualcosa di diverso. Ad ogni modo non preoccupatevi: mentre i quaternioni hanno comunque un certo uso in computer graphic, gli ottetti praticamente non vengono usati… anche se hanno una stranissima associazione col piano di Fano, di cui magari parlerò un’altra volta.
Fine della storia. Non si riesce più ad avere altri numeri multidimensionali… con un’eccezione. Esisterebbero infatti anche i sedenioni, che come dovrebbe dire il nome hanno ben sedici “unità”; con questa estensione però si perde la più importante proprietà algebrica dei numeri. In pratica, è possibile trovare due sedenioni entrambi diversi da zero il cui prodotto è zero: un obbrobrio che fa rabbrividire! (E non venitemi a dire che in un orologio analogico se reitero quattro volte un intervallo di tre ore ottengo che le lancette ritornano sullo zero; quella è un’altra storia…)

Paul Klee – Teatro magico (mostre)

Anche se ieri pomeriggio a Milano non era poi una giornata così brutta, Anna ed io abbiamo comunque deciso di starcene al chiuso e andare a vedere la mostra su Paul Klee alla Fondazione Mazzotta. Partendo dal punto di vista che quando uno va alla Mazzotta sa quello che può trovarsi (ad esempio, che non troverà quadri ma disegni; e che quantunque la mostra sia indicata come “monografica” almeno metà delle opere saranno di altri artisti più o meno collegati con il protagonista ma che però sono parte della collezione Mazzotta), il risultato finale è stato ottimo. Ci sono parecchie opere, soprattutto del periodo prima della sua malattia – il che significa che lo stile è completamente diverso da quello che uno gli associa abitualmente – e le spiegazioni sono piuttosto comprensibili anche per un profano come me. Mi chiedo solo quale sia l’utilità di mettere le “vedute ottiche” (con la didascalia “Klee non poteva non conoscerle!) e tra l’altro senza nemmeno fare il gioco di luci giorno-notte che fu la loro caratteristica, e perché mai un’uscita di sicurezza abbia una saracinesca completamente chiusa. Insomma, ci sono ampi margini di miglioramento…
In compenso, almeno per i milanesi, tempo per visitarla c’è n’è, visto che chiuderà il 29 aprile. Biglietto 8 euro, ma c’è una sfilza di possibilità di riduzione a 6 euro, e per una volta (Feltrinelli card) persino noi siamo riusciti a farcela ad avere il biglietto ridotto!

Il segno di Excalibur (libro)

[copertina]
Sesto libro delle Cronache di Camelot (Jack Whyte, Il segno di Excalibur [The Sorcerer: Metamorphosis], Piemme Pocket 2005 [1999], pag. 473, € 9.90, ISBN 88-384-8328-0, trad. Franca Genta Bonelli e Gianna Lonza): finalmente vediamo Artù estrarre la spada dalla Roccia, alle ultime pagine del libro. Devo dire che stavolta Jack Whyte mi ha piuttosto deluso. Gran parte delle 473 pagine del tomo – e dire che ha perfino scelto di dividerlo dal precedente! – continuano a raccontare storie più o meno simili al passato, con Artù che cresce, Merlino che veglia su di lui, e così via: tutte cose che potevano tranquillamente essere evitate, così come la ripresa della parte sull’eresia pelagiana col ritorno del vescovo Germano. Solo nelle ultime cinquanta pagine l’azione si muove improvvisamente, con la maggior parte dei cari di Merlino che muore e lui che – dopo due libri in cui non ci ha più pensato per nulla – si accorge che in effetti ha la lebbra, il che però diventerà il minore dei suoi problemi visto che è rimasto menomato. Credo che con queste premesse mi fermerò un bel po’ prima di passare al settimo volume della saga: anche la traduzione – non più affidata a Susanna Bini – mi ha dato di quando in quando una strana sensazione, come se fosse tirata giù in fretta: nulla di significativo, intendiamoci, ma a volte il testo scorreva strano.

DiCo: i Pacs all’italiana

Occhei, non si chiamano Pacs ma “DiCo”, DIchiarazioni di COnvivenza. Si sa, un bel nome è sempre la prima cosa da trovare. Ma veniamo al DDL (acronimo che ricordo stare per disegno di legge, il che vuol dire che quando verrà portato alle Camere ne vedremo delle belle) per capire quanto è stato un compromesso al ribasso, e se c’è da salvare qualcosa.
L’articolo 1, tendenzialmente, non è poi così male. C’è però la prima vera fregatura: la dichiarazione è resa contestualmente e non insieme. Tradotto dal politichese, io e il mio compagno non facciamo una dichiarazione in cui diciamo che conviviamo, ma ciascuno di noi fa una dichiarazione distinta in cui dice che convive con l’altro. Sembra una questione di lana caprina: però quella singola parola mostra come già un DDL così blando sia stato un casino immane da fare approvare, e l’unico sistema sia stato quello di evitare di dover fare un registro delle unioni civili. Altro che pensare a patti di convivenza a tre… Invece, nonostante ci sia chi ci ride dietro, non trovo che la raccomandata da spedire sia una cosa così assurda. In fin dei conti, se sto convivendo con qualcuno si può immaginare che generalmente ce la facciamo, a presentarci insieme in anagrafe. Poi ci saranno casi particolari, ma saranno appunto una minoranza, un po’ come il matrimonio per procura.
L’articolo 2 dice che se uno ha ammazzato il coniuge dell’altro per conviverci insieme forse è meglio evitare, e fin qua siamo tutti d’accordo. Né puoi convivere con la badante, ma se proprio vuoi te la devi sposare. Qui siamo un po’ più sessisti, ma può ancora andare abbastanza bene.
Gli articoli dal 3 al 6 parlano finalmente di diritti, come quello all’assistenza, alle decisioni in materia di salute e al pemesso di soggiorno: questi diritti non costano soldi allo Stato, e infatti valgono da subito :-) Spero che a nessuno venga in mente di cercare di emendarli, anche solo per fare un po’ di ostruzionismo. Quello che va male è il 7: anche se a prima vista sembra che venga dato il diritto di avere una casa popolare, se si legge bene viene scritto che le Regioni tengono conto della convivenza. Anche senza pensare a un “tenere conto in segno negativo” (sì, sono un matematico, per me la cosa sarebbe normale) mi sa tanto che Formigoni troverà un sistema per dire “se sei sposato conta per 10 punti nelle graduatorie, se convivi per 2”. A differenza della “contestualità” che era indubbiamente voluta, mi chiedo come mai abbiano usato una formulazione di questo tipo.
Gli articoli 8 e 9 cominciano a toccare temi più economici, e infatti si nota come ci vogliano tre anni di convivenza (o un figlio in comune… si sa che il “tengo famiglia” è principe) per subentrare nell’affitto, e lo stesso per chiedere l’avvicinamento del lavoratore per cause familiari. Di per sé questo ultimo punto lo capisco anche, e mi pare non sia poi troppo diverso da quello che succede nel matrimonio. Non capisco invece che significa che nel caso tu lavori per l’impresa del convivente puoi chiedere una partecipazione agli utili salvo che l’attività medesima si basi su di un diverso rapporto. Che vuol dire? Non credo si parli di rapporto “master-slave”…
Articolo 10, pensione: la risposta della legge è “boh”. Manco fosse una legge costituzionale, si afferma il diritto e si lascia ad altra legge l’attuazione.
Articolo 11, eredità: nove anni mi sembrano davvero tanti, ed è interessante notare come la tassa di successione abbia una franchigia molto più bassa che per i parenti “veri”. Però, come dicevo sopra, qui si cominciano a toccare i soldi, e si sa che sarebbe andata a finire così.
Articolo 12, alimenti: è l’unico articolo in cui ci sono dei doveri del convivente, e infatti è stato messo in fondo. Anche qua i diritti scattano dopo tre anni di convivenza e, a differenza di quanto immagino capiti in caso di divorzio, non sono di durata indefinita. Mi sembra relativamente equo, anche se migliorabile.
L’articolo 13, quello delle “varie ed eventuali”, introduce l’interessante possibilità che – tranne per la pensione, Dio non voglia… – quando la legge sarà promulgata si potrà dire che si era già conviventi da prima della legge. Servirà relativamente a poco, se non per l’eredità, ma da un certo punto di vista serve a suggellare il fatto che le convivenze non nascono con la legge: a me personalmente la cosa piace.
E infine la vera chicca: la copertura finanziaria. In Italia tutte le leggi devono indicare da dove prendono i soldi; nel DDL si parla dei costi per il 2008 e per il 2009. Nulla per il 2007, come se pensassero “tanto quest’anno non riusciremo certo ad approvarla”… E naturalmente nulla per il futuro più lontano, il che è abbastanza logico; ma ciò significa comunque che tutti i tempi sono stati studiati per evitare di dire “dove pigliamo i soldi”.
In definitiva? È un disegno di legge che non mi piace troppo, perché cerca disperatamente di negare il fatto che esista gente che vuole convivere (e gente che non può che convivere, visto che il matrimonio omosessuale non esiste). Però dà finalmente dei diritti a queste persone, e sono convinto che in casi come questo sia davvero meglio l’ovetto oggi piuttosto che la gallina che chissà se domani ci sarà.

Letizia vuole risanare il bilancio comunale/3

È vero che avevo spedito un fax con l’istanza di cancellazione della cartella esattoriale per la multa che avevo preso – e pagato – quattro anni fa; però sono una persona che non si fida molto di queste diavolerie, e quindi ho pensato di tornare in via Rugabella e presentare l’istanza a mano. Spiego la cosa a un vigile, questo va dentro a chiedere, e mi dice “ma ce l’ha la cartella? sì? allora tenga qua il numerino”. Insomma, a quanto pare non è contemplata l’idea di una persona che consegni una domanda a mano: forse (forse) la raccomandata con ricevuta di ritorno è ammessa, ma non ci giurerei mica.
Esco un po’ incacchiato e me ne vado pedalon pedaloni a fare la seconda incombenza burocratica che mi toccava stamattina. Stranamente me la sbrigo in meno di dieci minuti: a questo punto mi dico “massì, tanto sono qua in centro, proviamo a vedere com’è la situazione della coda”. Io avevo avuto il numero 87 mentre alle 9 veniva chiamato il 23; alle 9:45 c’era il 60, al che mi sono deciso ad aspettare più o meno pazientemente, non senza prima essere nuovamente uscito a respirare un po’ di smog più fresco di quello interno.
Verso le 10:20 tocca finalmente a me. Arrivo allo sportello, tiro fuori la cartella esattoriale, e poi il verbale originale con pinzata l’email di poste.it per avvenuto pagamento. La tipa prende, guarda, non fa nemmeno un plissé e mi dice “Ah sì, capita sempre con quelli che hanno pagato online. Aspetti un attimo che le preparo l’annullamento della cartella”. Va a fotocopiarsi il tutto, compila un modulo al PC, mi consegna il foglio timbrato e si raccomanda di conservarlo per almeno cinque anni “che non si sa mai”.
Bene, spero che la storia sia davvero finita, anche se ormai non faccio più previsioni. Mi restano però dei dubbi. Com’è possibile che ci sia qualcuno che pazientemente copi tutti i numeri dai bollettini cartacei di C/C ricevuti dalle poste, e nessuno a cui sia venuto in mente che magari ci sono anche altri sistemi di ricezione dei dati? E cosa succede a chi non è fortunato come me che ha un orario flessibile, e deve pagarsi ore di permesso per mostrare che un ente pubblico ha commesso un errore?

Comportamenti felini

Ieri sono tornato a casa verso le 18, e non solo mi sono trovato Ariel miagolante disperata come se non avesse visto pappa da due giorni, ma anche la porta del frigo spalancata, come usava fare un paio di anni fa. Come allora, non tocca nulla dentro il frigorifero, anche perché non c’è nulla che potrebbe mangiare: è proprio un segno che lascia per indicare di essere molto arrabbiata. Dopo aver cercato – mi sa inutilmente – di darle un condizionamento negativo per la cosa e avere lasciato ad entrambe un minispuntino, sono uscito per andare a perdermi (in bicicletta) tra gli svincoli autostradali e finire all’hotel Leonardo da Vinci a salutare la mia amica Patrizia che era lì per lavoro.
Torno a casa per cena, e prima di iniziare a mangiare io mi sono impegnato a riempire le due ciotole. Ariel, che era lì a farmi la posta – ma non aveva più aperto il frigo – si è subito messa a mangiare, mentre Momo stranamente non si è presentata: ho scoperto poi che quella pappa non le piaceva. Vado a prenderla nella sua cesta e me la porto in braccio in cucina, e parte una scena fantastica. Ariel stava mangiando dalla ciotola di sinistra come al suo solito: alza un attimo il muso, vede sua sorella… e immediatamente si sposta sulla ciotola di destra, per la serie “freghiamola finché non se accorge”. E non venitemi a dire che è puro istinto :-)

Legge intergalattica

Non so bene che cosa stia succedendo al mio Firefox, ma credo che ci sia qualche problemuccio: mentre cercavo infatti di editare un documento via Google Docs, mi è arrivata una pagina di errore dove mi viene detto Sorry, but this browser does not support web word-processing e spiegato quali browser GRATUITI andrebbero bene (c’è anche IE 6.0 o superiore, giusto per evitare commenti a riguardo). Ma la cosa più bella è la noticina in fondo:
If you are working to fix problems with a specific browser and would like to bypass this check, just add &browserok=true to the end of the Google Docs & Spreadsheets url.
Please note that it is a violation of intergalactic law to use this parameter under false pretenses, so don’t let us catch you at it.
And, it won’t work very well — really.

(ps: quello che succedeva al mio Firefox è che stavo giocando con l’estensione “cambia UserAgent” e gli dicevo di fare finta di essere Opera)