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Parole o_stili. O no?

I più attenti tra i miei ventun lettori si saranno accorti che non ho mai scritto nulla su Parole O_stili e sul loro Manifesto della comunicazione non ostile. Non è stato un caso: c’era qualcosa che non mi tornava in tutto il battage, ed essendo notoriamente uno che pensa male temevo il tutto fosse un cavallo di Troia per far passare più facilmente qualche leggina bavaglio. Inutile dire che non sono il solo a pensarla così: basta per esempio leggere Antonio Pavolini, che alla due giorni di Trieste ci è stato e ha visto tutta la parte di eventizzazione nemmeno riuscita tanto bene (quanti di voi hanno sentito dell’iniziativa fuori dalla rete?), oppure Fabio Chiusi che invece ha scelto di non andarci. Ho trovato però molto interessante questa analisi di Benedetto Ponti, che fa le pulci ad alcuni punti del famigerato decalogo e che vi invito a leggere prima di proseguire qua, visto che dice le cose meglio di come probabilmente farò io. Ah: anche Ponti, oltre che notare come il Manifesto sia «una via di mezzo tra il decalogo e il manuale di stile» e quindi né carne né pesce, ritiene che

rischi anche di apparire come il tentativo di riproporre la (più tradizionale) struttura gerarchica nella produzione, circolazione e fruizione delle informazioni (e delle idee), e segnala la profonda insofferenza (da parte di alcuni) nei confronti di un’ecosistema refrattario (o semplicemente inadatto) a riprodurre queste gerarchie (precostituite).

Proviamo a leggere tutto il Manifesto in un ordine più o meno casuale e a fare finta che non sia legato alla comunicazione in rete, ma alla comunicazione tout court: in fin dei conti non penserete mica che Internet sia una riserva indiana, vero? Alcuni punti sono tra il condivisibile e l’ovvietà. Per esempio il 10, Anche il silenzio comunica con sottotitolo “Quando la scelta migliore è tacere, taccio”, dovrebbe essere chiaro a tutti, ma ribadirlo non fa male; proprio come il 6, Le parole hanno conseguenze: “So che ogni parola può avere conseguenze, piccole o grandi”, anche se qui per la precisione ricorderei che le parole scritte in rete restano per sempre. Il punto 8, Le idee si possono discutere, le persone si devono rispettare è bellissimo e giustissimo, e lo dice persino il papa: ma siamo proprio sicuri che non sia rispettato solo nella comunicazione “dal basso”? Le rare volte che mi capita di sentire interviste a politici, nella maggior parte dei casi – per fortuna non sempre, ci sono parecchie eccezioni – sento più che altro insulti alle persone.

Passiamo ai punti che parlano più direttamente di stile. Nulla da dire sul 7, Condividere è una responsabilità: “Condivido testi e immagini solo dopo averli letti, valutati, compresi”. Magari fosse così: mi troverei metà contenuti tra le mie connessioni online, e giusto perché ho selezionato bene le mie frequentazioni. Lo stesso il 3, Le parole danno forma al pensiero, col sottotitolo “Mi prendo tutto il tempo necessario a esprimere quello che penso”. Diciamo che mi accontenterei di trovarmi davanti un pensiero ben definito e non vagante a caso: se fosse breve sarebbe meglio, ma anche Pascal scrisse “Mi scuso per la lunghezza della mia lettera, ma non ho avuto il tempo di scriverne una più breve”. Quello che mi pare inutile è il punto 5, Le parole sono un ponte: “scelgo le parole per comprendere, farmi capire, avvicinare gli altri”. In realtà la cosa è diversa per due motivi. Il primo è che non sempre posso scegliere le parole, per la banale constatazione che non ne conosco a sufficienza per poter scegliere; il secondo è che quando ho le capacità per sceglierle scelgo le parole per esporre la mia tesi, e non è affatto detto che io sia interessato a comprendere gli altri: non sono un insegnante né un demagogo. Una volta che io so che il mio testo sarà letto e compreso solo da un certo tipo di persone, dov’è il problema? Io scrivo per me e per loro. Altra cosa è se devo rispondere a qualcuno, nel qual caso è buona educazione, in rete come nel mondo là fuori, cercare le parole giuste per quella persona. Qui entriamo nella parte più preoccupante, almeno per me, del Manifesto: quella più prescrittiva. Prendiamo il punto 8. Gli insulti non sono argomenti: “Non accetto insulti e aggressività, nemmeno a favore della mia tesi”. Che vuol dire? Che devo rispondere al mio compagno di strada insultante “No, guarda, non devi commentare così, ché poi Gesù piange”? Quello che mi sarei aspettato di trovare è qualcosa tipo “Non sostenere la tua tesi aggredendo gli avversari, perché otterrai il risultato contrario”; se vuoi contribuire a ridurre l’aggressività totale, basta non riutilizzare gli argomenti aggressivi dei nostri fan.

Infine abbiamo i tre punti per me pericolosi, e non solo per me visto che sono quelli esplicitati da Ponti nel suo post. Sul 4, Prima di parlare bisogna ascoltare, io sono un po’ meno tranchant: avrei solo scritto “Prima di rispondere bisogna ascoltare”. La differenza è enorme: ognuno può dire quello che vuole, ma se si vuole davvero avere uno scambio e non una gara di urla occorre appunto ascoltare per poter replicare sul contenuto e non per mostrare di essere il migliore. Il punto 2, Si è ciò che si comunica: “Le parole che scelgo raccontano la persona che sono: mi rappresentano” deve essere letto insieme all’1, Virtuale è reale: “Dico e scrivo in rete solo cose che ho il coraggio di dire di persona”. In entrambi i casi i sottotitoli snaturano completamente il significato dei punti a cui si riferiscono. Certo, virtuale è reale: ma l’anonimato (anche reale) è un diritto. Per combattere i leoni di tastiera sarebbe molto meglio insegnare ad ignorarli. Lo stesso per la rappresentazione: perché mai io non posso decidere di avere un’identità in rete diversa da quella reale? E se ne voglio avere più d’una, a parte la faticaccia per riuscire a mantenerle tutte? Ma soprattutto, cosa c’entra il modo in cui io appaio con la comunicazione “ostile”, senza underscore? Forse se scrivo buonino allora sarò buonino anche altrove?

Salvini e i vocabolari

«Siamo alla follia – aggiunge Salvini – si perseguono gli italiani e i vocaboli usati. Io sono andato a controllare sulla Treccani il termine, onde evitare fraintendimenti… Basta leggere un dizionario della lingua italiana». Così dice il leader della Lega Nord, almeno secondo Il Secolo d’Italia.

In effetti se uno va sul dizionario Treccani trova scritto «immigrato clandestino, che entra in un paese illegalmente (anche sostantivato: le stime dei clandestini in Italia). Se però andiamo a vedere la legge sul’immigrazione (quella che nacque come Martelli, fu modificata con la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini, e alla quale fu poi tolto il reato di immigrazione clandestina) scopre che l’articolo 11, comma 6, non parla di clandestini ma di “stranieri che intendano presentare domanda di asilo”. D’altra parte, il lemma che Salvini afferma di aver controllato comincia con le parole «Che è fatto di nascosto, e si dice per lo più di cose fatte senza l’approvazione o contro il divieto delle autorità» (sì, è sempre la stessa accezione. C’è anche una seconda accezione, «2. In botanica, detto di fiore che resta chiuso e nel quale avviene l’autoimpollinazione; sinon. di cleistogamo.», ma direi che non è il nostro caso), e il De Mauro aggiunge che clandestinità è «. condizione di chi si trova in una situazione di illegalità ed è costretto a vivere nascosto, celando la propria identità». Ora immagino che siate tutti d’accordo che non è banale avere una domanda di asilo e al contempo vivere nascosti e celare la propria identità, e che se è il prefetto che ti manda da qualche parte – com’era nel caso in questione – è difficile dire che si stia andando contro il divieto delle autorità. La domanda che resta sospesa è: ma Salvini parte dal principio che i suoi elettori il vocabolario non lo leggano?

Ultimo aggiornamento: 2017-04-18 10:01

Gomito a gomito con l’aborto

Io sono perfettamente d’accordo sul fatto che un medico possa decidere di non praticare aborti (a meno di situazioni di emergenza di vita della madre, per amor di precisione). Dopo averci pensato per molto tempo, sono anche d’accordo sul fatto che un ginecologo oggi abbia il diritto di dichiararsi obiettore: la banale ragione è che non è che fare il ginecologo significhi solamente fare aborti. Ma la legge 194 esiste, e (sotto certe condizioni) dà il diritto a una donna di abortire. Certo, è una legge ipocrita, basta vedere come è scritta: ma forse è ancora più ipocrita il fatto che non venga assolutamente toccata.

Dunque mi sembra doveroso che il presidente del Lazio abbia fatto un bando per l’assunzione di ginecologhi che intendano anche fare aborti; e dire, come fa il direttore dell’Ufficio nazionale CEI per la pastorale della salute, che «non si rispetta un diritto di natura costituzionale quale è l’obiezione di coscienza», significa voler scientemente mischiare i piani. Non rispettare il diritto sarebbe stato obbligare un medico già assunto a fare qualcosa che lui ritiene di non potere fare. Immaginiamo un concorso per una posizione lavorativa che richieda anche turni di notte, perché il servizio deve essere garantito h24. Molte persone non possono fare turni di notte: anch’io al momento con i figli piccoli sarei parecchio in difficoltà, e la Costituzione afferma che l’Italia è formata sul lavoro. Posso dunque lamentarmi che questo concorso non rispetta il mio diritto costituzionale?

Se Zingaretti ha preparato il concorso cercando persone “per esercitare interruzioni volontarie di gravidanza, ed eventualmente fare X, Y, Z” sai fin dall’inizio cosa devi fare come declaratoria. Se tutti i concorsi per ginecologo fossero così allora sì che ci sarebbe un problema, ma al momento non mi pare che funzioni in questo modo. O no?

Lidl e i manuali

Ieri mattina volevo sentire il mio amico Peppe che a Radio3Scienza spiegava la vera origine della parola “scientist”. Be’, qual è il problema? Basta cercarsi lo strimi [*] sul sito. Peccato che la combinazione della mia rete che ieri andava più a manovella del solito e dei proxy non facesse passare nulla. Ma io sono un volpone, e tengo con me una radiolina SilverCrest made in Lidl, mi pare 9,99 euro in offerta quando l’ho comprata, proprio per evenienze simili. La tiro fuori dall’armadio, sintonizzo Radio3 e ascolto. Solo che poi volevo memorizzare la frequenza, perché con questi robi digitali sintonizzare una stazione a metà della banda FM è una tragedia, e rimango bloccato: c’è un tasto TIME/MEM, ma non basta schiacciarlo. Be’, qual è il problema? Cerco in rete il manuale. Lidl ha un sito apposta. Peccato che la mia radio sia questa o se preferite il tedesco questa, mentre i manuali che ho trovato (con lo stesso nome di modello, SWED 100 A1) sono di questa radio, simile ma non uguale, oppure di questa, non esattamente simile.

Ora, che vogliano cambiare il modello mi sta benissimo, ma magari cambiare anche il suo nome? (Per la cronaca, ho memorizzato la frequenza. L’illogicità del metodo è abbastanza logica)

[*] Vogliamo deciderci ad adattare in italiano “streaming” e adottare la parola?

Aggiornamento: (23 febbraio) Alla fine ho capito qual è il trucco per trovare il manuale: cercarlo usando il numerino magico IAN.

Ultimo aggiornamento: 2017-02-23 10:14

Dumb Working

Lo scorso febbraio, Telecom ha avviato una sperimentazione di Smart Working: chi lavora a Milano, Torino, Bologna, Roma e Palermo poteva scegliere di lavorare a casa ogni tanto (per noi ad esempio una volta la settimana). La sperimentazione nasce sotto il periodo di Patuano: una volta defenestratolo per passare a Cattaneo si sapeva che le cose sarebbero cambiate, perché il progetto faceva parte del piano di riorganizzazione delle sedi che era inviso al neoAD. Già a fine gennaio ci viene detto praticamente senza preavviso “no, non farete una giornata di smart working ogni settimana, ma due al mese”, cosa che complicava parecchio la vita ma tant’è. Oggi poi appare sulla Intranet una notizia dal titolo “SMART WORKING: prossimi passi” e occhiello “Il punto sul progetto Smart Working, ad un anno dall’inizio della sperimentazione. Ora parte la fase di analisi.”, dove si spiega come lo smart working sia nato dopo un confronto con i clienti (?), si segnala il minore inquinamento, si comunica che ora i responsabili dovranno compilare i questionari per vedere come è stato l’impatto, facendo poi un’«analisi congiunta dei risultati della survey con i dati raccolti sul campo»… e quindi «A partire dal 1 marzo 2017, la sperimentazione si interromperà per tutti i partecipanti, in tutte le aziende del Gruppo.»

Attenzione. L’azienda ha tutto il diritto a dire che la sperimentazione era una sperimentazione, non è andata bene, e quindi termina. Ci mancherebbe altro. Ha anche tutto il diritto a dire che la sperimentazione l’ha fatta ma poi ha cambiato idea e quindi ora lo fa terminare. Insomma, nessuno vede lo smart working come un diritto; né si pensa a priori che sia stato un vantaggio o no per l’azienda, che è il punto fondamentale per capire se per loro ha senso o no farlo. Però l’azienda dovrebbe avere il coraggio di dirlo esplicitamente: oppure dovrebbe spiegare perché mai non si possano analizzare i risultati mentre la sperimentazione continua, neanche se restando a lavorare a casa inquinassimo le prove. Ecco: quello che manca qui è il coraggio.

Ultimo aggiornamento: 2017-02-21 12:32

D’accordo saper scrivere. Ma…

Col gruppo dei miei amichetti ci siamo messi a discutere su Facebook dell’articolo di Claudio Giunta sul Sole-24 Ore: Saper scrivere è così importante?. Pur nella differenza delle vedute personali – abbiamo formazioni diverse e amiamo litigare anche sulle virgole, pur nel rispetto delle idee altrui – il consenso è stato che Giunta è partito bene, ma poi si è perso per strada.

È vero: purtroppo non sappiamo più scrivere. Sembra paradossale, considerando che credo che almeno nel mondo occidentale non si è mai scritto tanto come adesso, a causa / merito / colpa dei social network; ma la scrittura non è solo mettere nero su bianco un testo, bensì saperlo strutturare, oltre che conoscere le regole di base della grammatica, che non sono campate in aria ma servono come impalcatura del testo. Quando parliamo ci possiamo permettere molte più cose, ma solo perché abbiamo un feedback immediato; un testo resta lì, e racconta su di noi molto più di quanto vorremmo far sapere. Non parliamo poi del fatto che un testo scritto bene può indurre inconsciamente il lettore ad accettare un’idea senza che formalmente gli venga presentata: questa è un’arma letale, se solo la si sa usare (e ce n’è di gente che la sa usare, fidatevi)

Partendo da qui Giunta sceglie però di calcare la mano, uscendo così dal seminato e facendo affermazioni piuttosto azzardate. Primo esempio: «Scrivere direttamente al computer è una cosa tanto normale, per gli studenti di oggi, che far loro osservare che sarebbe meglio scrivere prima su carta, e solo in un secondo tempo passare alla “bella” sullo schermo, suona come una bizzarria.» Perché? Notate che non sta parlando della differenza tra testo a schermo e testo stampato: di quello ne tratto dopo. No. Il suo consiglio è di avere comunque un passaggio sulla carta. Ripeto: perché? Muovere la mano anziché le dita mette in funzione neuroni diversi? La calligrafia richiede di affrettarsi con calma? Irrilevante. Quello che è davvero importante è rileggere, e non sono mai riuscito a vedere la differenza tra sottolineature e frecce da un lato e taglia-e-incolla dall’altro. Magari è colpa mia che al liceo scrivevo i temi direttamente in bella, “ricopiandoli in brutta” in prima e seconda perché il professore mi costringeva a consegnare anche la brutta.

Anche «la distinzione tra, in breve, libro di carta autorevole e testi effimeri da consumarsi su schermo» che sarebbe ormai obliterata non mi pare affatto così inevitabile. Detto tra noi, «accapo, rientri, maiuscole, corsivi» continuano a essere presenti anche su un testo elettronico ben fatto: io mi dedico sempre a verificare gli script CSS che servono appunto a formattare correttamente gli ebook, secondo l’aurea massima “il contenuto sta da una parte, la forma da un’altra”. Quanto alle «formule protocollari ed escatocollari», il problema è diverso. Ci sono testi che devono e vogliono essere strutturati, e questo si può fare sia nel cartaceo che nell’elettronico; ci sono testi che non ne hanno bisogno, e di nuovo possono essere cartacei oppure elettronici. Non riconoscere questa possibilità significa fare di tutta l’erba un fascio e ghettizzare gli stili di scrittura.

Infine – e qui scusate, ma mi sento punto sul vivo – Giunta si lamenta perché oggi si pensa che «saper scrivere decentemente, alla fine, non è così importante. Lo era senz’altro nell’Epoca della Scarsità, quando coloro che avevano accesso alla sfera pubblica erano pochi, e soprattutto quando il sapere tecnico-scientifico era percepito come meno rilevante rispetto a quella infarinatura umanistica che dava accesso alle professioni di prestigio sia nel settore pubblico sia in quello privato, un’infarinatura della quale il saper scrivere non bene, magari, ma “elegante” costituiva una parte non secondaria». (Per onestà intellettuale, alla frase segue una parentesi in cui si lamenta anche di quella infarinatura, che portava all’«atrocissimo bellettrismo italiano». Avete appena visto un esempio di crocianesimo nascosto, apparentemente stemperato da quell'”era percepito” ma che in realtà rimane lì bello saldo. Chi è che dice che nel sapere tecnico-scientifico non si debba scrivere bene? Banalmente, se si scrive male la conoscenza è più difficile da trasmettere. Possiamo e dovremo lamentarci che nei corsi di laurea scientifici non ci sia un esame di Comunicazione efficace: questa sì che sarebbe una battaglia da fare. Ma si direbbe che la guerra è già data per persa, persino dal campo umanista. Allegria.

Aggiornamento: (16 febbraio) Devo ritirare la mia accusa di crocianesimo nascosto nei confronti di Giunta. Leggendo questa sua recensione, riconosco che quello non è il suo pensiero.

Ultimo aggiornamento: 2017-02-16 21:35

Feccia

Non mi ero messo a commentare gli scontri di Bologna, anche se mi ero fatto un’idea. Poi ho visto questo post del “Collettivo Autonomo Universitario Bologna” e non ce l’ho più fatta a restare zitto.

Come ha chiosato il mio amico Massimo Manca, “Metodo Calabresi”. Anzi peggio di quello, perché il Collettivo Autonomo Universitario Bologna si guarda bene da usare nomi e cognomi. Bella fotona segnaletica perché non ci si sbagli e caterve di insulti perché la signorina «fa parte della segreteria regionale del Partito Democratico, nel ruolo di, guarda un po!, responsabile alla legalità!» e quindi non ha alcun diritto a parlare, mentre loro, che evidentemente sono lì a fare l’università a Bologna da decenni, hanno ormai usucapionato il diritto di bivacco.

I tornelli in una biblioteca sono una brutta cosa, la Celere dentro è una cosa ancora più brutta: ma in certi casi bisogna scegliere il male minore.

Ultimo aggiornamento: 2017-02-13 11:11

Del dove rifulge l’abilità di Mentana

Enrico Mentana è ben noto per le risposte sferzanti che dà ai suoi commentatori su Facebook, tanto che esiste una fan page “Enrico Mentana blasta lagggente” (o forse ce n’è più di una, non sono andato a verificare). La sua abilità è davvero notevole, e lo si è visto anche in occasione di Sanremo e Tim.

Premessa: considerando che scioperi, cortei, presidii e manifestazioni varie di noi dipendenti Tim “stranamente” non ricevono alcuna copertura mediatica, alcune centinaia di lavoratori sono andati a Sanremo in occasione del festival sponsorizzato Tim e sono riusciti a leggere in sala stampa un comunicato sulla nostra situazione, ottenendo finalmente qualche trafiletto sui giornali cartacei. (Ho notato come le versioni online hanno preferito pubblicare il video della protesta: ho il sospetto che la cosa c’entri molto con il “qui e ora” e il desiderio di dimenticare la faccenda il prima possibile, ma magari sono solo io che sono prevenuto contro i video). Bene, allo status che Mentana ha scritto su Sanremo, una mia collega ha commentato così: «Sarebbe interessante anche parlare del rovescio della medaglia, ovvero di quello che sta accadendo ai lavoratori TIM, che ieri hanno manifestato davanti all’Ariston e in sala stampa, spiegando come questo festival sia stato pagato con i loro soldi». Ecco la risposta di Mentana:

Per parlarne seriamente: capisco perfettamente le ragioni di chi è impegnato in una vertenza difficile dopo molti anni di orari di solidarietà in un’azienda che poi destina tutti quei soldi al festival. Ma se ci leggesse immagino che Telecom risponderebbe che entrambe le cose vanno nella stessa direzione della competitività. Quel che mi parrebbe giusto è uno spazio dedicato alla vostra causa sugli schermi pubblici, vista l’enorme esposizione data alla “controparte”. Chiederlo al mio tg sarebbe una beffa, visto che a Sanremo (come alle altre manifestazioni “nazionalpopolari” di questo tipo, compresa miss Italia che è trasmessa da La7) non abbiamo dedicato alcuno spazio

Analizziamo rapidamente il testo. Mentana piazza subito la botta, facendo notare una banalità: i soldi per sponsorizzare un evento come il Festival non sono quelli tolti ai dipendenti, ma sono investimenti per presentare le novità dell’azienda e cercare di incrementare i ricavi. (Notate la differenza per esempio con i bonus promessi a questa dirigenza sulla base di puri risultati numerici e senza valutare come questi numeri sono stati ottenuti). A questo punto si tira tranquillamente fuori, perché è vero che dice che la vertenza Tim dovrebbe ricevere spazio sugli schermi (“pubblici”…), ma non da lui perché lui non parla di Sanremo. Visto? La protesta è indipendente dalla sponsorizzazione di Sanremo, ma visto che lui non parla di Sanremo allora non può parlare nemmeno della protesta. Logica alternativa. Il tutto confezionato in modo che lui sembri assolutamente imparziale, e intanto gli odiatori di Tim possano lanciarsi a controcommentare (nota: su mere basi statistiche mi aspetto che coloro che abbiano avuto problemi con Tim, soprattutto sulla parte fissa, siano molto più degli altri). Come non ammirare una capacità dialettica simile?

P.S.: prima di ricevere una serie di insulti, aggiungo che lo slogan “Sanremo? Lo si fa coi nostri soldi” andava benissimo nel contesto di uno striscione in una manifestazione, e naturalmente la manifestazione in sé è stata un’idea favolosa, l’unico modo che avevamo a disposizione per tentare di farci notare. Quello che faccio notare è che usarlo poi a freddo porta a risultati che sono l’opposto di quanto abbiamo bisogno. Esprit de l’escalier? Probabilmente sì: ammetto di non essere uno dalla risposta pronta. Ma è proprio per questo che io starei molto a scrivere sulla bacheca di uno bravo come Mentana.

Ultimo aggiornamento: 2017-02-12 18:48