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Logaritmi cantati

Al giorno d’oggi i logaritmi sono uno di quegli enti matematici che sembrano nati apposta per spaventare gli studenti, che si chiedono a che diavolo servano quei numeri astrusi. Dire che doverbbero essere ancora felici che una qualunque calcolatrice tascabile da dieci euro ti permette di trovare il logaritmo di un numero schiacciando un tasto, senza dover compulsare le tavole logaritmiche (io ne avevo una: non era così difficile usarla, ma assicuro che era una palla). In effetti i logaritmi, come i regoli calcolatori, erano importanti quando non si avevano a disposizione calcolatrici e computer, ed era necessario fare dei conti complicati: se ci si accontentava di un risultato approssimato lo si poteva ottenere piuttosto facilmente, al costo di leggere un po’ di numeri sulle tavole.
Prima o poi dovrò scrivere qualcosa sui logaritmi: per il momento, se proprio non ne sapete nulla, tenete conto che le formule di base sono queste:
log(a*b) = log(a)+log(b)
log(ab) = b*log(a)
In pratica il logaritmo “abbassa di complessità” le operazioni, trasformando il prodotto in una somma e l’elevazione a potenza in un prodotto. Per calcolare ad esempio 3259*3425, posso insomma prendere i logaritmi dei due numeri, sommarli, e cercare l’antilogaritmo della somma per ottenere (un’approssimazione del) risultato.
[intervalli musicali e rapporti relativi] Storicamente i logaritmi servivano per rendere un po’ più semplici i contazzi enormi che soprattutto gli astronomi dovevano fare per calcolare le orbite degli astri. Però potrebbero essere usati anche per fare conti a mente… se non fosse per il fatto che imparare a mente i logaritmi dei principali numeri può essere piuttosto lungo, e se uno deve avere dietro le tavole dei logaritmi non gli passa più. C’è però un trucchetto che ci facilita la vita, usando… la musica! Sappiamo tutti infatti che 210 (1024) è più o meno uguale a 103 (1000), il che significa che 21/12 è più o meno uguale a 101/40. Ma 21/12 è esattamente il rapporto di frequenza tra due semitoni nel temperamento moderno! Questo significa che per trovare il logaritmo in base dieci di un numero x, basta vedere x come un rapporto, oppure il prodotto di vari rapporti; calcolare a quanti semitoni corrispondono tali rapporti; se ce n’è più di uno, sommarli; e dividere infine il risultato per 40. Viceversa, per l’antilogaritmo in base 10 di y (10y) si moltiplica y per 40, si guarda a quanti semitoni corrisponde, e da lì si ottiene il rapporto voluto. Per quanto possibile, conviene usare i rapporti che “suonano meglio” nel vero senso della parola: ottava (rapporto 2, pari a 12 semitoni), quinta (3/2, pari a 7 semitoni) e quarta (4/3, 5 semitoni).
Un esempio vale sicuramente più di mille parole: iniziamo a vedere come calcolare il logaritmo di 3. Scriviamo 3 come 2*(3/2), quindi 12+7=19 semitoni; dividendo per 40 (prima per 10 e poi due volte per 2) otteniamo 0,475 contro il valore corretto 0,47712 circa. Se volessimo calcolare il numero di risultati possibile al totocalcio, cioè 313, avremo 13*19 semitoni, cioè 247 semitoni totali. (Qui c’è un altro trucchettino matematico: 13*19 = (16*16)-(3*3), e chi ama fare conti a mente sa a memoria che 16 al quadrato è 256). Di questi semitoni, i primi 240 = 40*6 danno un milione, che è da moltiplicare per il rapporto corrispondente a 7 semitoni, cioè una quinta, cioè 3/2. Il valore approssimato è pertanto un milione e mezzo, contro il valore esatto di 1594323. Un 6% circa di errore, risultato non disprezzabile.
L’unico intero da 1 a 10 difficile da approssimare con gli intervalli musicali è 7, per cui si può prendere circa 34 semitoni, come si può vedere dalla tabella riportata nel sito da cui ho scopiazzat… ehm, mi sono ispirato: una lezione (PDF) di Sanjoy Mahajan per il suo corso al MIT denominato Street-fighting mathematics. La cosa non dovrebbe stupire chi ha studiato musica: in effetti i primi armonici del Do1, cioè i multipli interi della frequenza di base, sono Do2, Sol2, Do3, Mi3, Sol3, una nota stonata (il settimo armonico), Do4, Re4, Mi4. Torna tutto, insomma!
Occhei, probabilmente l’uso pratico di queste tabelline di conversione è un po’ improbabile, però sono carine, no?

Ultimo aggiornamento: 2008-08-11 18:46

0,999999… ≠ 1

(vi ricordate che tra nemmeno dieci giorni c’è il Carnevale della Matematica? siete già andati da Chartitalia a indicargli i vostri contributi?)
Se non ve ne siete dimenticati, avevo promesso di dimostrare che 0,999999… non è uguale a 1. Il compito si direbbe improbo: abbiamo visto che i reali sono “tutta la retta dei numeri”, nel senso che con i tagli di Dedekind siamo riusciti ad associare un numero a ogni punto della retta. Si direbbe insomma che, visto che la distanza da 1 dei numeri della successione 0,9, 0,99, 0,999 … si riduce sempre di più ed è più piccola di un qualunque numero positivo, non c’è più spazio a disposizione per trovare un altro numero limite – un altro punto sulla retta – diverso da 1. E invece no! O almeno, “non necessariamente”. Quando in matematica si dice che due più due fa sempre quattro, ci si dimentica sempre di aggiungere “con le usuali definizioni di due, quattro e più”; se consideriamo i resti della divisione per tre (il gruppo Z3, per i pignoli) 2+2 in effetti fa 1 :-) Questo capita soprattutto quando le definizioni sono talmente abituali da essere prese per implicite: ed è per questo che nella puntata precedente ho scritto esplicitamente alcune cose di cui in genere non si sente parlare, tipo la proprietà di Archimede (che avevo chiamato Principio, ma forse è meglio passare al termine corretto).
Infinitesimi
Facciamo un passo (storico) indietro e prendiamo qualcosa che magari è rimasto in testa a chi ha fatto lo scientifico: gli infinitesimi. Quando Leibniz e Newton idearono indipendentemente il calcolo infinitesimale dalle due parti della Manica, tirarono entrambi fuori queste simpatiche quantità che erano diverse da zero fintantoché ci fosse necessità di dividere per esse, ma una volta fatte fuori dai denominatori diventavano immediatamente nulle; come del resto il loro quadrato era zero senza sé e senza ma. Quantità davvero curiose, se ci si pensa un attimo; tanto che il vescovo e filosofo George Berkeley – sì, quello che dà il nome all’università californiana – si prese il gusto di irridere chi operava con le flussioni, dicendo «E cosa sono queste flussioni? le velocità di incrementi evanescenti? Non sono né quantità finite, né quantità infinitamente piccole, ma nemmeno un nulla. Non potremmo chiamarle fantasmi di quantità defunte?» I matematici alzavano le spalle e dicevano che saranno anche state fantasmi di quantità defunte, ma facevano tornare i conti, e questo bastava loro. Ma sotto sotto sapevano che Berkeley aveva ragione, ed erano un po’ a disagio con gli infinitesimi. Così, quando a fine Ottocento Karl Weierstrass tirò fuori tutta quell’astrusa definizione di limite con gli epsilon e i delta, furono in molti a tirare un sospiro di sollievo e buttare via gli infinitesimi, pensando “ora non ci sono problemi”. Al limite, il problema restava a chi doveva ricordarsi a memoria la definizione e non scambiare gli epsilon e i delta… ma quelle sono quisquilie.
Tutto andò avanti senza troppi scossoni fino al 1961, quando un matematico di nome Abraham Robinson decise di vedere se poi in fin dei conti gli infinitesimi non potessero avere cittadinanza a pieno titolo tra i numeri. In fin dei conti se abbiamo accettato robaccia tipo i numei immaginari e i quaternioni, non si potrebbe forse trovare una via d’uscita? E in effeti una via d’uscita c’era, ed era data nientemeno che da un teorema di Kurt Gödel. Attenzione: non è un caso che abbia scritto “un” teorema. Non si tratta qua del classico teorema di indecidibilità, quello di cui tutti ne parlano e nessuno sa mai cosa dica esattamente, ma del teorema di completezza, che dice “un insieme di proposizioni è coerente se e solo se esso ha un modello, cioè se e solo se esiste un universo in cui esse sono tutte vere”. Ammetto che il teorema, scritto in questo modo, è ben poco comprensibile, anche perché non si sa bene che cosa sia un universo né un modello; diciamo che un universo è un insieme di enti e di operazioni, e un modello è un modo di vedere l’universo in pratica. No, non è così complicato. Ad esempio, un universo sono i numeri reali, con le operazioni di somma e prodotto e la relazione “<“; e un modello per i numeri reali è la nostra simpatica retta dei numeri che abbiamo visto l’altra volta.
Numeri iperreali
Esiste un corollario del teorema di completezza, chiamato teorema di compattezza, ci dice che se abbiamo un universo “standard” e un insieme di proposizioni tale che qualunque loro sottoinsieme finito sia vero, allora possiamo costruire un altro universo (“non standard”) dove tutte le proposizioni sono vere. Vi siete ancora persi? Eccovi un caso pratico. Prendiamo tutte le proposizioni del tipo
[1] ε è un numero maggiore di 0 e minore di 1/1
[2] ε è un numero maggiore di 0 e minore di 1/2
[3] ε è un numero maggiore di 0 e minore di 1/3

[n] ε è un numero maggiore di 0 e minore di 1/n

Se prendiamo un numero qualunque di queste proposizioni, possiamo trovare un ε che le renda vere tutte assieme; se prendiamo ad esempio le prime 20, la 30 e la 40, basta scegliere come ε il valore 1/42. Allora per il teorema di compattezza deve esistere un modello dove tutte queste proposizioni sono vere; in questo modello esisterà un ε maggiore di 0 ma minore di 1/n per ogni n intero. [qualche numero ipernaturale] Questo numero ε è chiamato infinitesimo, mentre l’insieme dei numeri che troviamo è quello dei numeri iperreali (da non confondersi coi numeri surreali… dovreste saperlo che la fantasia dei matematici è sfrenata, quando tocca loro dare il nome a qualcosa!) Il bello di questo modello non standard dei reali è che funziona praticamente come i reali “reali”. Il numero iperreale 1 è esattamente uguale, per quanto ci riguarda, al numero reale 1; se s e p sono la somma e il prodotto di due numeri reali a e b, la somma e il prodotto degli iperreali corrispondenti ad a e b saranno i corrispondenti di s e p; e se a<b, questo vale anche per i corrispondenti. Però c’è (ovviamente) qualcosa di diverso: ad esempio, i numeri 1 e 1-ε si dicono infinitamente vicini, proprio perché la loro differenza è un infinitesimo. È come se prendessimo la nostra retta dei numeri, una lente di ingrandimento, e scoprissimo che a ogni punto della retta (un numero reale) corrisponde un’infinità di numeri, tutti infinitamente vicini tra loro. E quindi significa che la successione dell’altra volta, quella scritta (1 – 1, 1 – 1/10, 1 – 1/100, 1 – 1/1000, … ), non arriva a 1 come credevamo, ma si ferma a 1-ε. Un numero infinitamente vicino a 1, ma non 1.
C’è anche un altro approccio più o meno simile per arrivare ai numeri iperreali; questo approccio parte dai numeri ipernaturali, che sono numeri “quasi” naturali, nel senso che dato un numero ipernaturale μ c’è sempre un numero precedente μ-1 e un numero seguiente μ+1. L’unica differenza è che gli ipernaturali che non sono numeri positivi standard sono tutti infiniti, e quindi non proprio “naturali”. I nostri infinitesimi sono gli inversi dei numeri naturali.
Dov’è il trucco
Dov’è il trucco? Beh, se mi avete seguito dovreste averlo capito: nel modello non-standard dei numeri reali perdiamo la proprietà di Archimede. Per quanto noi ci affanniamo a prendere dei multipli (finiti) di ε, non potremmo mai raggiungere il numero 1, o se per quello un qualunque numero reale positivo: rimarremo sempre ad avere numeri infinitamente vicini a zero, un po’ come se corressimo affannosamente ma rimanessimo sempre inchiodati al nostro posto. [un angolo infinitesimo]È una bella perdita, indubbiamente. Ma non venitemi a dire che questi numeri iperreali sono assolutamente fittizi e non ce li possiamo trovare se non in esempi assolutamente astratti, perché vi zittisco subito con due casi semplicissimi.
Il primo è l’angolo formato da una circonferenza e dalla sua tangente. Quanti gradi vale? non può essere di zero gradi, perché un angolo zero è fatto da due semirette sovrapposte mentre la tangente e la circonferenza si allontanano; ma non può nemmeno essere un numero reale maggiore di zero, perché in quel caso la retta sarebbe secante e non tangente alla circonferenza (dall’altro lato, nel caso ve lo chiedeste). Quindi è piuttosto naturale affermare che l’angolo è un infinitesimo. In effetti i più matematici tra voi si saranno ricordati che la tangente a una curva è il modo geometrico di definire la derivata in un punto; l’analisi non standard è appunto nata perché Robinson voleva vedere se si potevano formalizzare le intuizioni di Leibniz sugli infinitesimi che si comportano “come i numeri veri”.
Il secondo caso in cui gli infinitesimi compaiono naturalmente riguarda gli ordini di grandezza delle funzioni. Soprattutto gli informatici sanno bene che se un algoritmo richiede 3n2+5n+7 operazioni nel caso si abbiano n valori da cui partire, al crescere di n si possono lasciare perdere i termini meno importanti e affermare che il suo costo è di O(n2) operazioni. Un algoritmo di costo O(n2) sarà nel caso generale più “economico” di uno di costo O(n3), e uno di costo O(nk) sarà sicuramente meglio di uno che esplode esponenzialmente, cioè di costo O(en), per quanto grande sia k. Fin qua tutto bene. Prendiamo ora un problema molto comune, quello di mettere in ordine di grandezza crescente una serie di n valori: l’algoritmo più veloce possibile ha un costo che è O(n log(n)) operazioni. Se volessimo dire qual è l’esponente di n corrispondente, ci troveremmo nei pasticci. È sicuramente più di 1, perché log(n) cresce all’infinito. Ma è sicuramente meno di 1+ε per ogni ε. Che numero è, allora? È chiaro: uno più un infinitesimo!
Ulteriori informazioni
Complimenti a voi se siete riusciti ad arrivare qui in fondo senza scappare: anche se ho cercato per quanto possibile di evitare qualsiasi dimostrazione, mi rendo conto che l’argomento è un po’ ostico, senza poterci lavorare su “in diretta”. Chi si fosse però incuriosito e volesse sapere qualcosa di più sui numeri iperreali e l’analisi non standard può leggersi un paio di documenti scritti in italiano: I numeri infinitesimi e l’analisi non standard, del mio vecchio compagno di università Mauro Di Nasso, e Introduzione all’Analisi Non-Standard, di Riccardo Dossena.

Ultimo aggiornamento: 2008-08-05 14:49

0,999999… = 1

(questo mi sa che sia venuto troppo complicato. Ragione di più per chiedere commenti, in modo che possa capire come semplificarlo!)
Tra le domande che mi vengono fatte “visto che tu sei matematico”, ce n’è una che mi arriva abbastanza spesso; non sono mai riuscito a capire perché mai la gente la trovi così interessante. La domanda, come avrete intuito dal titolo, è “Ma è proprio vero che 0,999999… con tutti 9 fino all’infinito è uguale a 1”? Non so in effetti quale sia la molla che scatta a chi me lo chiede: forse c’è il concetto dell’infinito potenziale che non si può mai raggiungere, forse echi nascosti del paradosso di Achille e della Tartaruga, forse i giochettini con la calcolatrice “scrivi 1/3*3 e vedi che cosa succede…”, o chissà cos’altro. Poi intendiamoci: la domanda è perfettamente lecita, visto che la risposta (sì, per quelli che non hanno voglia di leggere fino in fondo) è stata formalizzata in maniera completa solo da 150 anni; addirittura, se si vuole essere alternativi a tutti i costi, si potrebbe anche dire che la risposta è “no”: ma quello sarà l’argomento di un’altra mia notiziola.
Se ci si fida delle formulette pratiche, basta usare quella che si studiava alle medie ai miei tempi, e che vi presento qua nella sua versione più semplice, quella per convertire in frazione un numero della forma 0,abc...lmabc...lm..., cioè compreso tra 0 e 1, e con il periodo formato dalle cifre abc…lm. Se la lunghezza di questo periodo è di k cifre, basta avere una frazione che a numeratore abbia il periodo e a denominatore un numero formato ripetendo k volte la cifra 9. Come esempio pratico, 0,142857142857142… è uguale a 142857/999999, cioè a 1/7. E 0,999999…? Il periodo è di una sola cifra, la regoletta mi dice di fare 9/9, cioè 1. Ma magari uno della formuletta non si fida, e vuole andare più a fondo nella questione.
Un po’ di storia
Comincio allora con una provocazione. Innanzitutto, ha senso parlare di 0,999999…? Qualcuno è capace a misurare 0,999999… metri, o sintonizzare una radio a 0,999999… megahertz? Ovviamente no. Ogni misurazione ha una sua precisione e un suo margine di errore. La domanda iniziale, in un certo senso, è perciò assolutamente inutile. Addirittura i fisici oggigiorno ci dicono che non è possibile avere una precisione infinita, per il principio di indeterminazione di Heisenberg: insomma, la domanda è del tutto teorica. Ma questo non sarebbe un grave problema, visto che in fin dei conti qui stiamo parlando di matematica e non del mondo reale. Più interessante è un’altra obiezione, quella che fa notare che scrivere un numero con la virgola è un concetto piuttosto moderno.
Gli arabi introdussero la notazione nel XV secolo, in Europa essa apparve (probabilmente in maniera indipendente) per opera di Simon Stevin nel 1585, ma non si diffuse fino a dopo la rivoluzione francese, quando il sistema metrico decimale le diede la spinta finale. Pensateci su: se io dico 0,1 kilometri si capisce subito di che distanza sto parlando (sono cento metri), ma dire 0,1 miglia (176 iarde, o 528 piedi) significa ben poco, per chi i conti li fa in piedi e iarde! Non è un caso che la formuletta mostrata sopra converta un numero periodico in una frazione; per le attività pratiche, le frazioni sono molto più semplici da visualizzare, e non è un caso che ore e minuti siano divise in sessanta parti e i giorni in 24 ore. Il fatto che un terzo di ora siano 0,3333333…. ore non dà fastidio a nessuno, visto che tutti pensano immediatamente a venti minuti e di puntini all’infinito non ce ne sono per nulla. L’ultima cosa su cui sono più o meno d’accordo tutti è che i numeri si possono mettere belli ordinati su una retta, che viene appunto chiamata retta dei numeri. Se pensiamo a un metro di quelli da muratore o da sarto, oppure a un termometro analogico così che ci siano anche i numeri negativi, l’idea è chiarissima; magari facciamo un po’ fatica a collocare esattamente pi greco, ma la cosa non ci turba più di tanto perché immaginiamo che sia un poco a destra del 3, e se prendiamo una lente d’ingrandimento lo possiamo collocare in maniera ancora più precisa.
Diamoci un taglio!
Adesso sappiamo che i numeri con la virgola hanno sì e no duecento anni di uso pratico. Ma i numeri con infinite cifre dopo la virgola sono ancora più giovani, in effetti, e sono un prodotto di un complicato sforzo per capire cosa sono esattamente i numeri reali; numeri che venivano allegramente usati da secoli in analisi matematica senza che nessuno fosse poi realmente sicuro di cosa stava facendo. Questa sezione è un po’ più complicata: potete tranquillamente saltarla e passare alla successiva, se vi sentite troppo male.
Dopo tutti quei secoli di tentativi, alla fine fu Richard Dedekind a tirare fuori una soluzione accettata da praticamente tutti i matematici, che permette di definire un numero reale per mezzo dei numeri razionali; per la precisione, da due insiemi di razionali. Il modo che si usa di solito per spiegare come si fanno queste successioni è il definire la radice quadrata di due. Si prendono tutti i numeri razionali positivi e li si mettono in due insiemi: quelli il cui quadrato è maggiore o uguale a due, e quelli il cui quadrato è minore di due. Sì, lo so che non c’è un numero razionale il cui quadrato sia due, ma questo non è un problema, come vedremo.
Chiamiamo i due insiemi T+ e T-, e aggiungiamo tutti i razionali negativi e lo zero in T-. A questo punto abbiamo due insiemi – due semirette, se preferiamo guardare la retta dei numeri – tali che:
– ogni numero razionale appartiene ad esattamente uno dei due insiemi
– tutti i numeri dell’insieme T- sono minori di ciascun numero dell’insieme T+
Una suddivisione dei numeri razionali che rispecchi queste due caratteristiche si chiama taglio di Dedekind; la ragione del nome è chiara, se si pensa alla retta dei numeri e a un coltello molto affilato che la tagli in due parti. Il genio di Dedekind sta nell’avere affermato che i due insiemi sono un numero; se preferite essere un po’ più formali bisognerebbe dire che “rappresentano” un numero, ma un vero matematico non si preoccupa di tali distinguo formali. Un matematico si preoccupa solo che le definizioni siano corrette e coerenti: che cioè esistano delle operazioni “somma” e “prodotto” tali che “sommare” e “moltiplicare” due suddivisioni diano una suddivisione che corrisponda alla somma e al prodotto dei due numeri corrispondenti; e che se due numeri sono uguali anche i due insiemi corrispondenti lo siano. Vi risparmio tutta la parte tecnica di verifica di queste cose; l’unica cosa che è davvero interessante è che a volte capita che l’insieme dei numeri più piccoli abbia un massimo, a volte capita che l’insieme dei numeri più grandi abbia un minimo, e altre volte nessuno dei due insiemi ha un limite, come nel caso di T+ e T- che abbiamo visto sopra.
Non può darsi il caso che entrambi gli insiemi abbiano rispettivamente un massimo e un minimo. Infatti questi due valori devono essere distinti, altrimenti il numero apparterrebbe a entrambi gli insiemi; ma a questo punto possiamo prendere la media tra i due valori, che sarà un numero che non può appartenere a nessuno degli insiemi, e ciò non è possibile.
Finalmente ci siamo. I numeri razionali sono tutti e soli quelli per cui nella rappresentazione con i due insiemi uno di essi ha un limite; e quel limite è il nostro buon vecchio numero razionale. Tutto quello che rimane d’altro sono i numeri irrazionali; sappiamo dai tempi di Pitagora che ci sono, e siamo finalmente riusciti a disegnarli sulla retta dei numeri. D’accordo, sto barando un po’ perché dovrei anche dimostrare che in questo modo abbiamo finito tutti i numeri che possiamo trovare sulla nostra retta; posso garantirvi però che il modello di Dedekind ci assicura anche quello, sfruttando il principio di Archimede.
No, non è quello dell'”eureka” mentre faceva il bagno, ma una proprietà che dice che dati due numeri positivi a e b, è sempre possibile trovare un multiplo di a che sia maggiore di b. Prendiamo ora i due insiemi U-, definito come “tutti i numeri minori di 1” e U+, “tutti i numeri maggiori a 1”. Nell’insieme U- troviamo 0,9, 0,99, 0,999, …. e anche il nostro 0,999999… deve stare lì, visto che sicuramente non può essere maggiore di 1. U+ e U- non formano un taglio di Dedekind, perché lasciano fuori 1, ma da qualunque parte noi lo mettiamo otteniamo il nostro bel taglio, che per quanto detto sopra equivale al numero 1. Insomma, ce l’abbiamo fatta! (almeno fino al mio prossimo articolo)
Ricapitolando
Perché insomma possiamo dire che 0,999999…=1? Beh, abbiamo sfruttato fondamentalmente due cose. Il principio di Archimede, che possiamo anche esprimere dicendo “se prendiamo abbastanza granelli di sabbia possiamo fare un mucchio grande a piacere”, e che ci dice che se due numeri sono diversi, la loro differenza può essere ingrandita fino a superare una quantità a piacere; e il “modello standard” della retta dei numeri, che unito al taglio di Dedekind ci dice che se siamo sicuri di non aver lasciato nulla da parte siamo per forza arrivati allo stesso numero. Aggiungo, per chi si fosse perso per strada, che di per sé il fatto che esistano dei numeri irrazionali non c’entra nulla con la dimostrazione, anche se ce lo siamo trovati come bonus mentre facevamo i tagli di Dedekind: una conferma insomma della formuletta all’inizio che ci diceva che 0,999999… era in realtà una frazione. Per il momento è tutto, ma aspettatevi qualcosa di completamente diverso!

Ultimo aggiornamento: 2008-07-23 11:22

parole matematiche: tangente

(la lista delle parole matematiche si trova qua!)
Siamo di nuovo in periodo di politici arrestati, e così le parole matematiche tornano alla ribalta con quanto detto dai nostri simpatici politici. Di “teorema”, usato in senso assolutamente opposto a quanto fanno i matematici, ho già scritto l’anno scorso, anzi è stata la parola che ha iniziato questo dizionario: oggi tocca a “tangente”, che ha una storia ancora più divertente.
La parola tangente deriva dal verbo latino tangere (con l’accento sulla a, per la cronaca), che ha il significato di “toccare” ed è una creazione tutta italica: non sono state infatti trovate radici indoeuropee corrispondenti. Chi ha un’infarinatura di cultura cattolica e/o artistica magari si ricorda il “Noli me tangere” (non toccarmi) pronunciato da Gesù appena risorto alla Maddalena. La parola passa all’italiano, tanto per cambiare, con Dante, ma di per sé non ha avuto un grande successo: l’unica espressione italiana in cui la si può trovare è “non mi tange”, nel senso di “non mi tocca, non me ne può importare di meno”. Per curiosità, il passato remoto farebbe “tansi, tangesti, tanse”, anche se nessuno lo usa. Più usato il derivato tangibile, nel senso di “che si può toccare con mano”, anche in senso figurato; di un vantaggio tangibile te ne accorgi, insomma.
Galileo però recuperò il verbo, anzi il suo participio (tangente, appunto) per indicare una retta con un punto in comune a una curva, e da lì il significato matematico iniziò a prosperare… non solo tra i matematici, visto che l’espressione “filarsela per la tangente” deriva da qua. Per amor di precisione, la definizione matematica attuale di tangente è un po’ diversa, visto che due curve sono tra loro tangenti se si toccano in un punto “che vale almeno per due”, ma si sa che i matematici sono dei precisini, a differenza della lingua comune dove la tangenziale tocca tutto il contorno di una città. Da questo punto di vista, i tedeschi che parlano di Ring (anello) sono più corretti!
Tra l’altro, il secondo significato matematico di tangente, vale a dire la funzione trigonometrica che si ottiene dividendo il seno per il coseno di un angolo, è una banale estensione di questo: se si prende un cerchio di raggio uno, si disegna un angolo x e si prolunga uno dei due raggi dell’angolo fino a incontrare la tangente (appunto…) al cerchio che passa dall’altro raggio si ottiene un segmento la cui misura è appunto la tangente dell’angolo.
Che c’entra tutto questo con i soldi passati sottobanco? C’entra, c’entra. Ricordate che avevo scritto all’inizio che il verbo “tangere” significa “toccare”? Nella seconda metà del XVIII secolo, la parola tangente prese il significato di “quota che tocca a ciascuno quando si dividono le spese o i guadagni”. In un resoconto della rivoluzione americana, si trova infatti la frase “La sostanza delle parole è che gli abitanti di quella Provincia pagassero «la loro tangente di tali tasse come erano allora levate, o che si dovessero levare in appresso dal Parlamento in Inghilterra»”. Il termine perse di importanza nel corso dell’Ottocento, dato che i puristi lo deprecarono, per poi essere ripreso nel 1977, con lo scandalo Lockheed. Il significato era ancora quello di “quota”, anche se a questo punto la quota era quella che toccava al potentino di turno solo perché lui esisteva. La parola ha però preso rapidamente quota :-), ci si è dimenticati del significato originale, e ormai significa solo “somma versata illegalmente per ottenere dei favori”, senza più pensare al “toccare”… a meno naturalmente che uno ritenga che gli tocchi qualcosa per il solo fatto di essere Uno Che Conta! (come? dite che in effetti è così? ah, scusate…)
Ah: il tango, nonostante il nome e il fatto che i due ballerini senza dubbio si tocchino, non ha alcuna relazione col verbo “tangere”. La parola sembrerebbe essere onomatopeica dal suono dei tamburi. Che adesso nel tango i tamburi non si usino più è irrilevante.

Ultimo aggiornamento: 2008-07-15 10:16

Carnevale della Matematica #3 – GOTO Matematicamedie

Se non siete per le strade a cantare la Marsigliese, potete andare a fare un salto da Matematicamedie per leggere la terza edizione del Carnevale della Matematica, ospitato appunto da Giovanna. Garantisco non ci sono solo formule :-)
E visto che la matematica non va certo in ferie, sono lieto di annunciarvi che anche il 14 agosto avremo un Carnevale! Chartitalia si è infatti offerto di ospitare l’edizione preferragostana. Magari ricordatevi di inviargli i vostri contributi (trovate il suo indirizzo email in alto a destra nel suo blog) con qualche giorno in più di anticipo, così potrà preparare il tutto e andare a cercare un po’ di sole anche lui.

Ultimo aggiornamento: 2008-07-14 16:30

probabilità: siete ingegneri o matematici?

Non so se è tempo di compiti per le vacanze o se Yahoo! Answers picchia come sempre duro, ma una ventina di minuti fa qualcuno è arrivato sul mio blog facendo la ricerca sulla frase “si lanciano due dadi trovare la probabilità che la somma dei due punteggi sia divisibile per tre“.
Questo è il classico problema che si può affrontare alla maniera dell’ingegnere (si calcolano le probabilità di ciascun risultato multiplo di tre possibile lanciando due dadi, e le si sommano), oppure alla maniera matematica, dove si fa una fatica boia per trovare un sistema per non far fatica a fare i conti (anche perché non è affatto vero che i matematici li sappiano fare, i conti!)
Come lo risolverebbe un matematico? Beh, inizierebbe a lanciare il primo dado. C’è una probabilità 1/3 che si ottenga un multiplo di tre (caso A), una probabilità 1/3 che si ottenga un valore che diviso per tre dia resto 1 (cioè si ottenga 1 o 4: caso B), una probabilità 1/3 che si ottenga un valore che diviso per tre dia resto 2 (caso C). Lanciando un secondo dado, per avere la somma multipla di tre possiamo partire dal caso A e avere di nuovo un multiplo di tre (probabilità 1/9), oppure dal caso B e ottenere 2 o 5 (probabilità 1/9) oppure dal caso C e ottenere 1 o 4 (probabilità 1/9). Totale delle probabilità: 1/3.
Immagino che a questo punto gli “ingegneri dentro” mi diranno che il mio approccio è più lungo del loro, e non hanno tutti i torti. Supponiamo però che adesso ci venga chiesto “e se lanciamo cento dadi, qual è la probabilità di ottenere un risultato multiplo di tre?” In questo caso, mettersi a fare tutti i conti è improponibile: invece con l’approccio qui sopra si vede che anche dopo il secondo lancio le probabilità di avere resto 0,1,2 sono sempre 1/3, 1/3 e 1/3 ed è immediato che a ogni lancio successivo del dado queste non possono variare: siano due, dieci, cento lanci la probabilità finale di avere un risultato multiplo di 3 è 1/3. QED.
La morale di questa favola non è “il metodo matematico funziona meglio di quello ingegneristico”, quanto piuttosto “a volte, generalizzare il problema rende più facile trovare la soluzione”. Se vi avessi subito proposto la versione “cento lanci”, probabilmente vi sareste messi a cercare una soluzione sulla falsariga della mia; con i due lanci, non vi sarebbe nemmeno venuto in mente di fare così. Il metodo si può anche applicare alla vita reale (ogni tanto, si intende!)

Ultimo aggiornamento: 2008-07-12 12:37

Il paradosso di Berry

Uno, due, tre, quattro… mille… un milione… un miliardo… un fantastiliardo… Beh, che numero sia esattamente un fantastiliardo non è così certo, o perlomeno non saprei citare il numero esatto di Topolino in cui è stato definito formalmente. Sono capaci ad averlo fatto, sì. Però direi che siamo tutti d’accordo che ai numeri si può dare un nome, e che noi siamo abbastanza fortunati da poter dare un nome – in italiano, in inglese, in klingon o nella vostra lingua preferita – a ogni numero. No, ricominciamo da capo. Sicuramente possiamo dare un nome a ogni numero intero (o frazionario, o irrazionale algebrico). Dopo Cantor sappiamo infatti che i numeri reali sono “più infiniti” delle parole che abbiamo a disposizione; quindi se volessimo dare un nome a tutti i numeri reali, e non solo a pi greco o alla radice di due, siamo fregati in partenza: anzi, la percentuale di numeri a cui possiamo dare un nome è virtualmente nulla rispetto al totale. Ma questa è un’altra storia.
Limitiamo pertanto il nostro scopo e torniamo ai numeri interi, dove insomma si direbbe che siamo a posto. Qualunque numero finito uno scriva, lo possiamo leggere, sgolandoci al più con una sfilza di “miliardi di miliardi di miliardi”, o al limite risparmiando un po’ di voce sfruttando la norma CEE/CEEA/CE n.55 del 21/11/1994 che definisce che andando di mille in mille si hanno migliaia, milioni, miliardi, bilioni, biliardi, trilioni; poi si sono fermati, lasciando a Wikipedia l’onore di arrivare ai quadriliardi. Lo strano è che la norma CEE specifica le unità di misura tra le pieghe di una legge sul trasporto di merci pericolose: ma in effetti, anche solo sui numeri interi di cose strane ne abbiamo lo stesso!
Piccola digressione. Un’altra cosa che abbiamo imparato fin da bambini è che dato un numero possiamo sempre trovarne un altro dicendo “più uno!”, come si ricorderà chi giocava a dire il numero più grande. L’osservazione è meno stupida di quanto si pensi, come vedremo. Detto in altro modo, un numero lo si può chiamare in tanti modi: ad esempio, “cento” è anche “novantanove più uno”, oppure “dieci per dieci”, o ancora “il numero di quadratini del quadrato costruito sull’ipotenusa di un triangolo rettangolo i cui cateti hanno lunghezza rispettivamente sei e otto”. Quanti modi abbiamo a disposizione per definire un numero? Non lo so. Probabilmente infiniti, ma in realtà la cosa non è che ci importi più di tanto. Quello che importa è per ogni numero abbiamo (almeno) una rappresentazione “economica”, che cioè usa il numero minimo possibile di sillabe. A vedere gli esempi qui sopra non si capisce l’utilità di introdurre questi altri modi di chiamare un numero, ma ad esempio novecentonovantanovemila novecentonovantanove (venti sillabe) può essere espresso come “un milione meno uno” (otto sillabe: un bel risparmio!) Possiamo così decidere di chiamare ciascun numero con l’espressione che richede il minor numero possibile di sillabe: un’ottima idea, se abbiamo bisogno di risparmiare spazio.
A questo punto entra in gioco il signor G. G. Berry, che non era esattamente l’ultimo arrivato dato che era bibliotecario alla Bodleiana, una delle più importanti se non la più importante biblioteca di Oxford. Il signor Berry, poco più di cent’anni fa (era il 1904), ebbe l’idea di pensare a un numero che in fin dei conti un suo minimo interesse ce l’aveva: “il più piccolo numero che non si può esprimere con meno di trenta sillabe”. Si sa che i bibliotecari, quando si tratta di definire qualcosa, sono sicuramente bravi, no? Per amor di precisione, il testo originale inglese parla di “the least integer not nameable in fewer than nineteen syllables” (che in inglese dovrebbe essere 111.777, dice wikipedia); e sempre wikipedia afferma che in realtà Berry parlava semplicemente del più piccolo numero ordinale non definibile. (I numeri ordinali sono quelli che usiamo per contare “uno, due, tre…”. Finché usiamo numeri finiti non c’è una differenza pratica con i numeri cardinali che dicono in un botto quanto è grande un insieme; con i numeri transfiniti sì, ma non è questo il momento di parlarne)
Questo numero, chiamiamolo b in onore di Berry, deve per forza esistere: in fin dei conti i numeri sono infiniti, e le frasi composte al più di trenta sillabe sono finite. Occhei, sarà probabilmente un numero molto grande, ma in linea di principio lo si può calcolare. Persino un costruttivista come Brouwer, che giusto in quegli anni stava lamentandosi di come l’infinito venisse usato in maniera un po’ troppo disinvolta, non avrebbe avuto nulla da dire sulla correttezza della definizione. Ma era proprio così? Mica tanto. In effetti, se siete stati attenti, la frase “il più piccolo numero che non si può esprimere con meno di trenta sillabe” di sillabe ne ha 25. Ma allora non ci può essere nessun numero con tale proprietà! Se ci fosse un siffatto numero b, infatti, automaticamente gli potremmo affibbiare la descrizione di cui sopra e quindi non è vero che non si può esprimere con meno di trenta sillabe. Ciò è indubbiamente berrybile.
Qui c’era qualcosa che non andava: e subito Berry chiese lumi all’indubbio esperto del campo: quel Bertrand Russell che pochi anni prima aveva dato un duro colpo al lavoro di una vita di Frege con il famoso paradosso del barbiere del villaggio che fa la barba solo e unicamente a chi non se la fa da sé. (per la cronaca, il barbiere si chiavama Andrea ed era una splendida fanciulla…). Russell ci pensò un po’ su e alla fine sentenziò che il problema non si poneva: la definizione di b non era infatti valida perché era una metadefinizione, visto che non definiva un numero ma le proprietà del numero. Per fare un esempio più terra terra, se diciamo “tre ha tre lettere” non stiamo parlando del numero tre (anzi 3), ma della parola che lo definisce: il “lessicale”, mi suggeriscono i miei amici filosofi. Il paradosso gli sembrò comunque interessante, tanto che lo inserì come primo nella lista di sette che presentò nei Principia Mathematica: e chissà, magari la teoria dei tipi, l’idea cioè che ci fosse una gerarchia di insiemi dove a ciascun livello gli elementi costitutivi potevano essere al più insiemi dei livelli inferiori, nacque anche pensando a questa differenza tra numero e definizione del numero. Non che tutta quella fatica gli sia servita a qualcosa, visto che venticinque anni dopo Kurt Gödel gli scombinò tutta la sua teoria. E paradossalmente, una cinquantina d’anni dopo, Greg Chaitin riprese in mano il paradosso di Berry, lo formalizzò usando un linguaggio di programmazione, e riuscì in questo modo a dare una nuova (e più semplice) dimostrazione del Teorema di Incompletezza di Gödel. Una vendetta postuma, insomma…
Che dire? State sempre attenti, quando vi mettete a contare, perché non si sa mai dove si nascondano le insidie! (Se vi piacciono questi temi, consiglio la lettura anche dei Rudi Matematici)

Ultimo aggiornamento: 2008-07-02 12:49