Archivi categoria: matematica_light

Intonazione e temperamento (I)

Magari non lo sapete, ma se una persona vissuta nel Medioevo o nel Rinascimento fosse portata ai nostri giorni e gli venisse fatta ascoltare una melodia contemporanea, si metterebbe le mani sulle orecchie e la definirebbe assolutamente stonata. No, non è colpa della pessima qualità di quello che oggidì ci propinano come musica (quantunque…); se anche facessimo loro ascoltare un brano dei loro tempi suonato al pianoforte, il risultato sarebbe lo stesso. E non è nemmeno colpa del pianoforte! Il problema è un altro, e il colpevole – se proprio ne volete trovare uno – è la matematica. Ma andiamo con ordine.
Tutto inizia con Pitagora, il cui marchio di fabbrica – o almeno quello che i suoi seguaci hanno attribuito a lui – era “Tutto è numero”. Pitagora scoprì che se prendevi due corde dello stesso spessore ma di lunghezza l’una il doppio dell’altra il suono emesso quando le si pizzicava era sì diverso ma non troppo; e se il rapporto tra le lunghezze era di uno a tre c’erano due suoni indubbiamente diversi ma che stavano bene insieme. Che si parli di rapporto e non di differenza, come qualcuno potrebbe pensare, non è strano: il nostro orecchio è tarato sui rapporti dei suoni. D’altra parte, per i greci che facevano matematica in modo geometrico la cosa non dava alcun problema.
Il nostro filosofo (o i suoi discepoli) fu ben felice della cosa, visto che era una conferma della sua legge, e si mise a preparare la scala musicale usando i rapporti di quinta (quello uno a tre) per salire e ottava (uno a due) per scendere, riuscendo così a completare le sette+una nota delle scale modali usate dai greci. Ecco i rapporti che si ottengono, fatto pari a 1 il do basso: anche se anacronistico, aggiungo anche gli intervalli relativi alla nota di base calcolati in milleduecentesimi logaritmici di ottava, i cent come oggi sono chiamati. (occhei, dei cent parlerò più tardi, non preoccupatevi)
 

Intonazione pitagorica

do re mi fa sol la si do
1 9/8 81/64 4/3 3/2 27/16 243/128 2
0 204 408 498 702 906 1110 1200

 
Questa scala (detta intonazione pitagorica) è bellissima da un punto di vista matematico. Il rapporto tra due toni vicini qualsiasi è sempre 9/8, e quello tra due semitoni è sempre 256/243: peccato per alcuni problemucci. Innanzitutto, per quanto riguarda Pitagora, c’è che la frase completa che descrive la sua filosofia è “tutto è numero piccolo. Uno, due, tre, quattro formano la tetraktys e sono gli Unici Veri Numeri da usare. Passi se si devono usare 5 e 6, ma 243/128 è proprio bruttino a vedersi! Ma c’è anche una fregatura ineliminabile, dello stesso tipo dei problemi irrisolubili dalla matematica classica come la trisezione dell’angolo e la duplicazione del cubo. Il giro delle quinte e delle ottave dovrebbe chiudersi: sali di dodici quinte, scendi di sette ottave, e in teoria ottieni tutti e dodici i semitoni in cui si divide l’ottava. Peccato che 27 faccia 128 mentre (3/2)12 è un po’ più di 129.74; è un po’ come la barzelletta delle due squadre che iniziano a bucare una montagna dai lati opposti per fare un tunnel e non si incontrano perché hanno sbagliato la direzione di scavo. Non ci si può fare molto: i rapporti sono quelli, e tra l’altro la divisione in 12 parti dell’ottava è una delle migliori possibili, visto che per migliorarla si deve passare a 41 o 53 parti il che diventa pesantuccio: pensate a un pianoforte con tutti quei tasti!
I greci non erano poi così stupidi come si potrebbe pensare, e avevano studiato almeno in teoria altri modi in cui suddividere l’ottava. Peccato che fosse difficile riuscire ad accordare gli strumenti, mentre con l’intonazione pitagorica non c’erano problemi visto che si poteva fare tutto a orecchio. Così si è dovuto aspettare il Rinascimento perché questi metodi diversi venissero messi in pratica… anche perché con le nuove sensibilità musicali se ne sentiva la necessità. Il problema non era l’aggiungere gli altri semitoni, cosa che è stata fatta nel medioevo continuando a lavorare per quinte e ottave; sì, il “semitono in su” e il “semitono in giù” sono diversi, ma per il tipo di musica che si suonava non si poteva mai fare confusione. Il guaio era che nella polifonia si usavano terze e seste per dare un po’ di spessore in più al suono – lo si fa anche adesso, che credete? – e con l’intonazione pitagorica terze e seste cantate insieme suonavano da cani. Fu così che Gioseffo Zarlino nel suo testo del 1558 Le istitutioni harmoniche presentò un “nuovo” metodo per l’accordatura; nuovo si fa per dire, perché era stato inizialmente teorizzato da Archita nel IV secolo a.C. e ripreso da Didimo nel I secolo a.C. e Claudio Tolomeo nel I secolo d.C.
Il metodo di Zarlino ritornava alle origini, cioè agli armonici. Data una nota di partenza (il do1, ad esempio), il secondo armonico è all’ottava superiore (do2); il terzo sale ancora di una quinta (sol2), il quarto di una quarta (do3) e il quinto… di una terza, arrivando al mi3. Se abbassiamo questa nota di due ottave otteniamo per la terza maggiore un rapporto di 5/4 con la nota fondamentale. A questo punto si può scegliere se definire direttamente la terza minore con il rapporto 6/5, che ha la simpatica proprietà di essere un numero della forma n+1/n esattamente come la terza maggiore, la quarta e la quinta; oppure si può procedere di nuovo per quinte e ottave. Il risultato è comunque lo stesso, ed è mostrato qua.
 

Intonazione naturale

do re mi fa sol la si do
1 9/8 5/4 4/3 3/2 5/3 15/8 2
0 204 386 498 702 884 1088 1200

 
Nell’intonazione naturale i numeri dei rapporti sono molto migliorati; gli unici ancora grandi sono quelli degli intervalli di seconda e di settima, che tanto sono dissonanti di loro quindi possono stare così. Le quinte continuano ad essere a posto, le ottave lo sono per definizione come in tutti i tipi di intonazione e temperamento che presenterò, terze e seste suonano che è un piacere, tanto che l’intonazione naturale è usata ancora oggi per suonare strumenti tipo archi (dove si può fare la nota che si vuole) e fiati (dove ci sono problemi tecnici per intonarli diversamente). Però….
Beh, il “però” ve lo racconto un’altra volta.

Ultimo aggiornamento: 2015-07-21 14:25

Carnevale della Matematica #20 – GOTO Matem@ticamente

Essendoché è il 14 del mese, abbiamo il Carnevale della Matematica: Annarita Ruberto è riuscita a radunare una quantità incredibile di contributori, e quindi di contributi. Se vi scocciate della tombola natalizia avrete comunque da fare…
Ricordo che il 14 gennaio sarà Chartitalia a ospitare il Carnevale, probabilmente con una nuance più “musicale”

Ultimo aggiornamento: 2009-12-14 09:57

Dimostrazioni matematiche al calcolatore

Qualche giorno fa Maxxfi mi ha chiesto cosa ne pensassi delle dimostrazioni matematiche fatte per mezzo del calcolatore. La mia laconica risposta è stata “brutte, ma valide”; provo ad aggiungere qualche considerazione in più.
Innanzitutto, bisogna mettersi d’accordo sui termini: cos’è una dimostrazione matematica al calcolatore? Lascio immediatamente da parte i programmi di intelligenza artificiale che dimostrano semplici teoremi, magari dandone nuove dimostrazioni, oppure se ne escono con nuovi teoremini non pubblicati in precedenza: quelle sono dimostrazioni del computer, e hanno la stessa validità degli esercizi che ci facevano fare nel biennio di matematica (forse un po’ meglio, se il programma è fatto bene e gli sono stati implementati correttamente gli algoritmi.
Esistono poi “dimostrazioni” che non lo sono affatto: prendiamo ad esempio il test di primalità di Miller-Rabin, che permette di verificare molto velocemente se un numero è presumibilmente primo. Un non matematico può pensare che se la probabilità che il numero testato non sia primo sia di 1 su 1010 ci si potrebbe anche accontentare, e in effetti molti programmi di crittografia usano questi probabili primi accettando il rischio che primi non siano e quindi si possa fare un attacco al testo crittografato; ma un matematico non potrà mai dire “quel numero è primo”.
Resta infine il gruppo di dimostrazioni al computer vere e proprie: quella archetipale è per il teorema dei quattro colori, che afferma che bastano quattro colori per colorare una qualunque mappa in modo che nessuna coppia di regioni confinanti (per un tratto, i singoli punti non contano) abbia lo stesso colore; ma ad esempio c’è stata anche quella della congettura di Keplero, che afferma che il miglior impacchettamento di sfere nello spazio tridimensionale è quello che faremmo tutti, facendo tanti strati a esagono uno sopra l’altro. Queste dimostrazioni, che gli anglofoni definiscono “computer assisted”, hanno una struttura comune. Il teorema è stato inizialmente analizzato e azzannato, e si è arrivati a dire che il caso generale si può ricondurre a un numero finito di sottocasi particolari; nel caso del teorema dei quattro colori si parla di 1476 mappe (grossine) distinte, mentre per la congettura di Keplero sono state ritenute necessarie più di 5000 configurazioni di sfere. In questi casi, il calcolatore serve a verificare che nessuna di queste mappe/configurazioni invalidi il teorema: un lavoro che in linea puramente teorica si potrebbe fare a mano, ma richiederebbe non so quante centinaia d’anni, e si rischierebbe di fare degli errori (tenetevi a mente questa frasetta).
L’atteggiamento dei matematici rispetto a queste dimostrazioni al calcolatore è prettamente filosofico. Alcuni non le considerano valide perché affermano che la dimostrazione deve essere comprensibile a un essere umano, e se non ci si può mettere a verificare tutti i casi allora la dimostrazione in verità non esiste. Altri hanno una preclusione più di principio: come ci si può assicurare che l’algoritmo usato sia corretto, e il programma per computer lo implementi correttamente? Altri ancora, credo la maggioranza, non si fanno di questi problemi e prendono il teorema per dimostrato.
La mia visione personale? Come credo abbiate capito, non ho nessun problema ideologico su una dimostrazione assistita dal computer. Per quanto riguarda la correttezza degli algoritmi, si può ovviare alla cosa implementando indipendentemente più programmi su più architetture diverse – in effetti per il teorema dei quattro colori hanno fatto così – e verificando che l’output sia lo stesso. D’altronde, non è che le dimostrazioni umane siano scevre da errori: proprio il teorema dei quattro colori era stato “dimostrato” nel 1879 salvo poi accorgersi nel 1890 che la dimostrazione era errata. Insomma, la correttezza degli algoritmi e la correttezza delle dimostrazioni sono in fin dei conti la stessa cosa. Nel caso poi degli algoritmi probabilistici di cui sopra, c’è persino chi afferma che se la probabilità che l’algoritmo non ci prenda sia inferiore a quella di un errore hardware della macchina allora si ha la certezza, ma è una linea di pensiero che non mi ispira molto, a meno di pensare anche che tutti gli esseri umani possano venire ipnotizzati contemporaneamente ;-)
Detto tutto questo, resta il mio giudizio lapidario iniziale: il teorema è sì dimostrato, ma la dimostrazione è così brutta che un Vero Matematico se ne fa ben poco, come diceva anche Erdős. Non è detto che esista una dimostrazione “bella” di questi teoremi; visto però che questi teoremi non sono fondamentali nel senso di essere alla base di tanta matematica si può anche decidere di non contarla come dimostrazione dal punto di vista estetico. A voi la scelta!

Ultimo aggiornamento: 2009-11-11 07:00

acrostiSchwarzy 2

Ricordate il messaggio di veto su una legge scritto da Arnold Schwarzenegger, le cui prime lettere di ogni riga compitavano “Fuck You”? Istigato da Stefano Bartezzaghi, ho provato a vedere qual era la probabilità di ottenere casualmente una frase di senso compiuto. (Per la cronaca, lo spazio più ampio segnalato da Bartezzaghi alla fine di ogni frase è una caratteristica standard delle regole tipografiche americane, e l'”I” iniziale secondo me non fa parte del presunto messaggio nascosto, visto che tutte le lettere di veto del simpatico ex-culturista iniziano con quelle due righe standard)
Il conto che faccio è molto spannometrico, come spiego in seguito; iniziamo con la parte di stima semplice. Il numero di combinazioni di tre lettere con o senza senso, da aaa a zzz, è 26*26*26 = 17576 mentre quello di combinazioni di quattro lettere è 26*26*26*26 = 456976. Il numero di parole inglesi effettivamente esistenti è molto minore: qui sono riportate 1108 parole di tre lettere e qui il numero di parole di quattro lettere viene stimato essere intorno a 7000. Quindi c’è circa una possibilità su 16 di avere una parola di tre lettere e una su 65 di averne una di quattro, il che dà come probabilità totale 1 su 1000.
Questa è un’analisi molto grossolana, che soffre almeno di tre distorsioni.
– Le due parole devono avere senso messe insieme come frase; questo in una lingua virtualmente posizionale come sta diventando l’inglese non è un grosso problema e non mi preoccupa più di tanto.
– Ho presupposto che le lettere iniziali delle parole inglesi siano tutte equiprobabili, il che è chiaramente falso, ma di brutto. Una distribuzione anisotropa dovrebbe rendere più probabile il riuscire a creare combinazioni, ma non è detto; bisogna anche vedere se una lettera molto frequente come iniziale è anche molto frequente all’interno o alla fine di una parola.
– Bisogna tenere conto che molte delle parole inglesi esistenti sono in realtà arcaiche e non usate, e quindi non verrebbero riconosciute da un cacciatore di acrostici che non sia davvero appassionato alla cosa. Tanto per dire, io mica so che significhi “wog” o “uts”! (beh, no; a dire il vero “uts” è il plurale di “ut”, quindi significa “le arcaiche note do”)
Dare una stima di questi punti è un tipico Problema di Fermi, e bisognerebbe mettersi di buzzo buono a fare delle stime sensate, magari scegliendo a caso un po’ di parole per vedere la loro distribuzione. La mia sensazione è che il primo punto riduce la probabilità di un fattore 3, il secondo la accresce fino a un fattore 10, mentre il terzo è più difficile da valutare visto che l’accorgersi che un insieme di lettere forma una parola dipende dalla cultura di chi sta leggendo quelle lettere; secondo me la probabilità si riduce di un fattore 100 (ricordatevi che qua e nel caso precedente sono due le parole da considerare, e quindi bisogna moltiplicare le probabilità relative)
Qualcuno vuole lanciarsi in stime più accurate?

Ultimo aggiornamento: 2009-11-04 11:42

Happy Birthday, Martin!

Il 21 ottobre 1914 nacque a Tulsa, in Oklahoma, un neonato che decise poi di laurearsi in filosofia e fare il giornalista freelance… fino al 1956, quando Scientific American pubblicò un suo articolo sugli esaflexagoni.
Gli amici che amano la matematica hanno indubbiamente capito che sto parlando di Martin Gardner, che alla non certo tenera età di 95 anni continua a lavorare alle edizioni definitive dei suoi libri, dopo aver deliziato almeno tre generazioni di matematici in erba e convinto molti di loro a studiare appunto matematica. Dire che Gardner non si è mai trovato a proprio agio con l’analisi matematica, come potete leggere in questo articolo del NYT… insomma, non buttatevi giù!

Ultimo aggiornamento: 2009-10-21 11:46

La scommessa di Monty Hall / 2

Ecco, non riesco mai a capire perché tutti quelli che sono così convinti che nel problema di Monty Hall sia indifferente cambiare porta non accettano mai la mia scommessa. Sono soldi da guadagnare facile, no? E allora perché non accettare questa mia bella scommessina, fatta alla luce del sole e verificabile indipendentemente da chiunque?
Scherzi a parte, mi sa che anche le più granitiche credenze si possano incrinare un poco quando uno debba iniziare a metterci su dei soldi; purtroppo però rimane questa schizofrenia per cui nonostante tutto non si cambia idea. Se ad ogni buon conto non avete davanti a voi un fondamentalista probabilistico, eccovi alcune possibilità per convincerlo che in effetti nel problema di Monty Hall in versione standard conviene cambiare porta.
(1) Ripetere più volte l’esperimento. Come nella scommessa da me proposta, se invece di un singolo evento se ne hanno parecchie decine tra loro indipendenti è facile accorgersi se in media la porta iniziale nasconde un’auto una volta su tre oppure una su due. Il buffo è che la Legge dei Grandi Numeri, per come è recepita dalla gente comune, è assolutamente errata; eppure dà loro molte più sicurezze della logica corretta di questo problema.
(2) Aumentare il numero di porte. Se invece di tre porte ce ne fossero un milione, voi scegliete la numero 1 e Monty apre tutte le altre tranne la 142857, oltre ovviamente alla 1, siete ancora così sicuri che l’auto non tia dietro la porta 142857? Visto che il caso è logicamente identico a quello con tre porte, la risposta dovrebbe essere la stessa.
(3) Mettersi a esplicitare i casi possibili. Per simmetria si può supporre di scegliere la porta numero 1; a questo punto si può clonare la famigerata scelta, enumerando i sei casi possibili in teoria, controllando quali sono i quattro possibili in pratica, e valutando le varie possibilità. Questa è la soluzione più debole, nel senso che è difficile convincere l’interlocutore che sia corretta; immagino che la colpa stia nell’abitudine di considerare tutti i casi come equiprobabili, e non accorgersi che i due sottocasi che si hanno quando l’auto era proprio dietro la porta da lui scelta sono appunto sottocasi e quindi la loro unione sia equivalente alla probabilità degli altri casi.
(4) Calcolare la probabilità a posteriori con il teorema di Bayes. Pur essendo l’unica che dà la certezza che la risposta sia corretta è quella meno preferita; l’evoluzione della razza umana non ha richiesto in effetti di impratichirci con le probabilità a posteriori.
(5) Prima di aprire una porta, Monty dice al concorrente “vuoi confermare la porta scelta, oppure cambiare con entrambe le altre porte? Io in ogni caso poi aprirò una tra due porte che non hai scelto inizialmente.” Se l’interlocutore riesce a convincersi che la formulazione è esattamente equivalente, allora la scelta è immediata.
Ho tralasciato apposta l’argomento “Monty può sempre aprire una porta con dietro una capra, qualunque sia la scelta del concorrente” perché, come vedremo tra poco, può essere fuorviante.
Detto tutto questo, non credo che se qualcuno è convinto di avere ragione gli si possa far cambiare idea; insomma, non perdeteci troppo tempo. In compenso, può essere simpatico vedere qualche scenario in cui tutto quello che ho scritto è falso. Naturalmente il trucco c’è: sto leggermente cambiando le ipotesi iniziali. Suppongo però sempre che la probabilità iniziale che l’auto si trovi dietro una porta sia 1/3 in ogni caso.
(1) Dopo che il concorrente ha scelto una porta e Monty ne ha aperta un’altra, arriva di corsa un’altra persona che conosce come funziona il gioco ma non sa quale sia stata la scelta del concorrente. Per costui le due porte sono assolutamente equivalenti, visto che non ha nessun dato su cui basarsi.
(2) Monty apre una porta davvero a caso tra le due che ha a disposizione, con il rischio di mostrare l’automobile e terminare il gioco con ignominia. In caso contrario, il concorrente può scegliere assolutamente a caso tra le due porte: però bisogna ricordarsi che alcune delle possibilità iniziali non sono più possibili a posteriori, e quindi la situazione è cambiata.
(3) Il concorrente sa che Monty ama la porta numero 3 e la apre sempre, se ne ha la possibilità. Se lui ha scelto la porta 1 e Monty apre la 2, è certo che l’auto stia dietro la 3, e quindi è obbligatorio cambiare scelta. Se invece apre la 3, è indifferente cambiare o no porta.
Qual è la morale di tutto questo? che bisogna sempre verificare molto attentamente le ipotesi, e non bisogna mai fidarsi troppo della propria intuizione!

Ultimo aggiornamento: 2009-10-12 07:00