Termino il mio resoconto torinese con questa foto di una in bassorilievo su un palazzo – in via Cigna angolo strada del Fortino – che ai tempi era un bocciodromo, a giudicare dal testo: “GIUOCO BOCCIE”. La U in “giuoco” magari non vi è neppure troppo ignota: per dire, la FIGC è la Federazione Italiana Giuoco Calcio. Ma chi è che ha scritto “boccie” con la I? Non sapeva che in italiano il plurale delle parole in -cia e -gia perde la i se l’ultima sillaba è preceduta da una consonante? Si sono appaltati i lavori di restauro a qualche ditta che ha impiegato – magari anche in nero – qualche extracomunitario?
La risposta naturalmente è molto più banale. Fino a settant’anni fa il plurale di boccia era boccie, perché la regola per il plurale era un’altra. Facciamo un passo indietro. Checché ci insegnino a scuola, l’italiano non si legge come si scrive, anche se rispetto a lingue come l’inglese e il francese (ma non il tedesco o lo sloveno, per esempio) siamo messi molto meglio. Anche tralasciando l’impossibilità di sapere dove va l’accento tonico, ci sono alcuni grafemi che hanno un significato contestuale: per esempio la i nel gruppo cia/gia serve per indicare che la c si deve pronunciare dolce e non dura. Ma al plurale, visto che la c è seguita da una e, si pronuncia dolce in ogni caso. Dunque, la si deve tenere oppure no? La risposta era: se la i era presente già nella forma latina della parola allora al plurale restava, mentre se non c’era allora non la si metteva. Così provincia, -ae in italiano faceva “provincie”, come nella Cariplo che era la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde; la ciliegia, che era ceresa, -ae, faceva “ciliege” come nel libro postumo di Oriana Fallaci Un cappello pieno di ciliege (secondo me in Rizzoli temevano che il fantasma della scrittrice toscana sarebbe tornato a tormentarli se avessero osato regolarizzare il plurale), e la bottia, -ae che è la probabile etimologia di boccia lasciava la i al plurale. Fu il grande linguista Bruno Migliorini che nel 1949 propose l’attuale regola per il plurale, come raccontato nel sito della Crusca, partendo dalla considerazione che non possiamo dire che una regola per una lingua (l’italiano) dipende da un’altra lingua (il latino). Ci furono parecchie discussioni, ma dopo una quindicina d’anni la nuova regola venne accettata più o meno da tutti, con l’eccezione immagino della Fallaci.
Detto tra noi, questo è un caso davvero eccezionale per l’italiano: a differenza per esempio dei francesi o peggio ancora dei tedeschi, che alla fine del secolo scorso hanno codificato per legge la riforma dell’ortografia della loro lingua, in Italia non c’è nessuno che abbia un’autorità prescrittiva per la nostra lingua, e le regole sono stabilite dall’uso. Abbiamo così il pronome “lei” che da solo oggetto è anche diventato soggetto soppiantando “ella”; prima o poi scriveremo (purtroppo) “qual’è” e la forma “qual è” sarà marcata come errore, e non si riesce a convincere la gente che è molto più logivo scrivere “sé stesso” con l’accento. Il tutto senza nemmeno considerare gli scempi da autocompletamento che stanno davvero rovinando l’ortografia. Morale: non facciamo (troppo) i grammarnazi, perché non abbiamo agenti di polizia lessicale da chiamare in nostro aiuto.