il non-costo del lavoro

L’otto marzo scorso il presidente di Tim Giuseppe Recchi è stato convocato in Parlamento per un’audizione sulle “prospettive industriali del Gruppo TIM, sulla tutela dei lavoratori del Gruppo e delle aziende dell’indotto”. A quanto pare le domande previste erano molte, quindi a parecchie di esse è stata data risposta scritta in un secondo tempo.

Una di queste domande era «Che impatti ha sul conto economico la disdetta degli accordi del 2008?»: accordi che – stante una precedente risposta di Recchi – non riguardavano né il primo né il secondo livello di contrattazione, e quindi in realtà non esistevano affatto: questo è probabilmente il motivo per cui la risposta usa il condizionale: «La disdetta degli accordi impatterebbe sul costo del lavoro (oltre 2500 mln/euro) per un max di 12 mln.» (in realtà la risposta è più articolata: secondo Recchi quei soldi sono stati rimessi in circolo come «piano di incentivazione che premierà gli apporti individuali del personale di produzione interessato dalla citata disdetta.», da cui il condizionale)

Non entro nel merito dell’affermazione, perché non ho competenze in merito: così ad occhio, l’abolizione del mancato rientro in sede per i tecnici corrisponde però a quella cifra. Non conto nemmeno i tagli ai rimborsi per i costi di trasferta, sempre perché non saprei quantificarli. Però una cosa riesco a notarla. Visto che gli accordi disdetti prevedevano due giorni di ferie e dodici ore di permesso (che come scrissi derivavano dal vecchio contratto ante 2000), in pratica lavoreremo l’1,6% di ore in più l’anno. Il costo del lavoro in Telecom nel 2015 è stato di 2,347 miliardi. Si può immaginare che la produttività aumenti della metà di quella cifra (nel senso che metà del costo del lavoro va in contributi e tasse), quindi ci sarebbero quasi venti milioni che Recchi si è dimenticato di considerare. Toh.