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so’ ppiú fforte da’a Treccani!

Lunedì ho postato le solite statistiche del sito, immaginando non le leggesse nessuno. Invece Ferdinando Traversa non solo ha guardato anche quel post, ma è andato alla caccia della parola “eupnoico” su Google, mostrando che in effetti il mio blog è il primo risultato, davanti persino alla Treccani (che però ha il sostantivo “eupnea” e non l’aggettivo); l’unica voce davanti è quella del dizionario che però è un po’ più difficile da capire, anche se c’è la parola “normale”. Ma in effetti leggere “Proprio dell’eupnea: respiro e., regolare. • Di farmaco analettico del respiro.” (Per la cronaca, “analettico” significa “che eccita”). A questo punto è chiaro perché ci sono sempre così tante visualizzazioni di quel post. È un circolo virtuoso, o vizioso se preferite: è in cima alla pagina di ricerca, quindi tanta gente ci clicca, quindi Google pensa che sia importante e lo lascia in cima alla pagina.

Vedete il piccolo problema? Per quanto io possa avere scritto un post chiaro e comprensibile, non ha senso che la mia rendita di posizione si perpetui. Notate che non avevo applicato nessuna tecnica SEO, anche perché non me ne farei nulla: è proprio un portato dell’algoritmo di Google. Ma quello che è peggio, questo mostra come le persone non solo non superino la prima pagina dei risultati, ma spesso si fermino al primo e ci clicchino su. Google aveva evidentemente ragione quando ha messo il tasto “mi sento fortunato” nella pagina di ricerca – c’è ancora, ho controllato – ma questo mostra che il suo potere è ancora maggiore di quanto si potesse immaginare, perché siamo noi a darglielo. Non solo spostare un risultato oltre i primi dieci annulla le probabilità che sia visto, ma anche solo toglierlo dalla prima posizione dà un durissimo colpo alla visibilità. Devo dire che la cosa preoccupa persino uno come me che generalmente pensa positivo…

Ultimo aggiornamento: 2019-11-06 07:39

Stato di polizia internettara

Nel cinquantesimo anniversario di una delle mille definizioni di Internet torna alla carica la falange di coloro che vogliono che i profili social possano venire aperti solo dietro presentazione di un documento di identità. Passi Gabriele Muccino che fa il regista e quindi non è tenuto a sapere di cosa si parla, come del resto si vede dall’uso dell’espressione “reato penale”; è molto più preoccupante che lo dica Luigi Marattin, che purtroppo le leggi in parlamento le può presentare.

Lasciamo perdere banalità tipo il fatto che Facebook o Twitter dovrebbero gestire i miei documenti – sempre che non faccia finta di nulla e io non usi un proxy per fare un’iscrizione da un server fuori dall’Italia. Mi limito a far notare una cosa. In quanti casi non è stato possibile trovare la persona che ha commesso reati (tipicamente di opinione, perché è di questo che si parla) perché erano anonimi? Nessuno. Anche dopo la fine del decreto Pisanu (altra legge illiberale) gli utonti hanno continuato a scrivere messaggi d’odio senza pensare che ci voleva un attimo perché la polizia postale li rintracciasse. Poi certo, se scrivi messaggi contro Mattarella o Boldrini allora Escopost si attiva subito, se li scrivi contro di me hai voglia… ma questo è irrilevante rispetto alla proponenda legge: non cambierebbe nulla.

Perché allora si continuano regolarmente a proporre leggi di questo tipo? Per me la risposta è semplice: ignoranza. Il digital divide è anche questo: non sapere assolutamente come funzioni Internet dietro le quinte: e notate che non sto parlando del funzionamento tecnico ma di quello per così dire “sociale”. E dire che Marattin ha quarant’anni, mica settanta.

PS: la mia identità è sempre stata pubblica, ma questa è una mia scelta personale. Non vedo nessuna utilità a rendere obbligatorio l’appalesarsi.

Ultimo aggiornamento: 2019-10-29 11:11

Snippet tax e terribili ritorsioni: l’appello dei giornalisti francesi

Un paio di settimane fa vi avevo raccontato di come Google avesse risposto alla implementazione francese della direttiva copyright: per chi non avesse voglia di rileggersi l’articolo, Google ha fondamentalmente detto “se voi scrivete gli articoli con dei tag che specificano quale parte può essere usata liberamente, noi riportiamo quella parte: altrimenti lasceremo solo il titolo”. Nulla di strano, conoscendo cosa era capitato in Spagna e Germania.

Ora, con poca fantasia, i giornalisti francesi hanno preparato un appello che è subito stato tradotto dal gruppo GEDI che – sappiamo bene – su queste cose è attentissimo. Notate che l’appello è per l’appunto dei giornalisti e non degli editori. Provo a commentare alcune frasi:

«I Giornalisti Europei hanno lottato a lungo per questo Testo; perché l’Informazione di qualità è costosa da produrre»: vero. «perché la situazione attuale, che vede Google percepire la maggior parte delle entrate pubblicitarie generate dalle informazioni, è insostenibile»: abbastanza vero, nel senso che se non sbaglio anche Facebook ne ha una bella fetta, ma comunque la cosa cambia poco dal punto di vista dei giornali. «e sta facendo sprofondare di anno in anno la stampa in una crisi sempre più profonda.»: boh. Che la crisi ci sia è indubbio, che dipenda dallo spostamento della raccolta pubblicitaria verso Google e Facebook non lo so, nel senso che non so se la raccolta digitale totale compenserebbe quella cartacea di un tempo.

«Google sta rifiutando qualsiasi trattativa offrendo ai Media un’opzione cinica e ingannevole ovvero o i Media firmano un consenso a Google rinunciando a una remunerazione, in modo che il modello attuale basato sulla gratuità continui oppure se i Media rifiutano, saranno soggetti a terribili ritorsioni: la visibilità del loro contenuto sarà ridotta al minimo.» La scelta dei termini qui è davvero interessante. D’accordo sul “rinunciando a una remunerazione”: in fin dei conti sappiamo tutti che l’articolo 15 nasce proprio per quello. Ma le “terribili ritorsioni”, quelle proprio no. A Google non sono certo mammolette né samaritani, questo è chiaro: ma dal loro punto di vista rinunciare alle news significa perdere ben poco. Ah, ma mi state dicendo che le ritorsioni bisogna vederle dal punto di vista dei giornali? Beh, questo è un punto di vista interessante, come vedremo dopo.

«Quando gli utenti internet cercheranno informazioni non appariranno né foto né testi, apparirà un semplice titolo, niente di più.» Beh, non proprio. Appariranno un titolo e un link (benignamente ammesso dalla direttiva copyright). Da un certo punto di vista è persino meglio così: se qualcuno vuole saperne di più clicca e finisce sul sito del giornale. (Nota: in effetti Google non dice che inserirà l’hyperlink, o almeno non sono riuscito a trovarlo scritto. Se non lo facesse allora tutto quello che sto scrivendo non vale, e la sua sarebbe davvero una ritorsione: ma per un motore di ricerca sarebbe davvero strano.)

«Perché prima di arrivare su un sito multimediale, la porta di ingresso di Internet è Google. Altri motori di ricerca pesano poco. Gli editori lo sanno: non hanno i mezzi finanziari per sostenere la vertiginosa caduta del traffico sui loro siti che questo ricatto porterà.» Oh. Finalmente viene scritto nero su bianco che il traffico ai siti di news arriva dai motori di ricerca. (In un sito piccolo come il mio le cose sono diverse, ho appena controllato e i tre quarti degli accessi arrivano dai miei ventun lettori. Ma tanto io pubblicità non ne ho…) Quello che però non mi è chiaro è perché la pubblicità raccolta dalle pagine del motore di ricerca sia così tanta rispetto a quella “locale”. Naturalmente la pubblicità totale è molta di più, ma quella che non c’entra con le notizie non può certo essere messa in conto, no? Ah, già che ci sono. Il testo dell’articolo 15 non parla di aggregatori di notizie, ma in genere di servizi internet, da cui il limite di due anni per questi diritti ancillari.

«Google sta violando la legge. Sfrutta le sottigliezze deviando il suo spirito.» E qui casca l’asino; tutto il resto dell’appello è inutile. Il punto è che Google non sta violando la legge. Partiamo pure dal principio rovesciato secondo il quale snippet e immagini sono un modo che Google ha per farsi pubblicità, anche se io ingenuamente crederei che stia facendo pubblicità alle testate. I giornalisti (e Repubblica nel suo catenaccio) stanno praticamente dicendo che la direttiva obbliga Google a farsi pubblicità, e quindi pagare. Ditemi voi se la cosa ha senso. Quello che io mi sarei aspettato era un sistema condiviso per creare un’alternativa a Google News: è vero che adesso è improponibile, ma in pratica se Google elimina gli snippet allora si apre una nuova nicchia di mercato. Invece no: ci si limita a piangere e a mischiare verità e falsità, cosa non esattamente bella per un giornalista.

Vedremo che succederà: la mia sensazione è che alla fine solo pochissime testate sopravviveranno, e saranno quelle di un’autorevolezza (o di una base di fan…) tale che gli utenti andranno direttamente sui loro siti. E soprattutto vedremo cosa succederà quando anche noi in Italia implementeremo la direttiva: secondo me ne vedremo delle belle.

Amazon non vuole la mia recensione di Baricco!

Premessa: come probabilmente sapete, io leggo tanti libri e li recensisco poi tutto sul mio blog. Dopo un po’, quando mi viene voglia, copio le recensioni in vari siti:aNobii, Goodreads e LibraryThing che nascono proprio per le recensioni e Amazon e IBS che invece servono a vendere libri. Perché lo faccio? Affari miei. Più in generale, scrivo le recensioni perché voglio dire quello che penso e poi le pubblico in giro perché non mi costa praticamente nulla e magari qualcuno che non frequenta il mio blog può essere interessato.

A maggio presi in prestito l’ebook di The Game di Baricco, decisi che l’intenzione magari era buona ma il risultato non esattamente tale, e scrissi la mia recensione sintetica, oltre a un pippone un po’ più lungo che finì su Medium. (Dovrei anche postare pubblicamente i miei appunti che ho preso mentre leggevo, ma sono pigro. Una bozza è comunque su hookii.)

Sono passati alcuni mesi e domenica sera ho postato la recensione – quella sintetica – sui siti suindicati. Stamattina mi arriva un messaggio dal signor Amazon Reviews che mi dice “La tua recensione di The Game (Einaudi. Stile li… non può essere pubblicata su Amazon”. Più precisamente:

Grazie per aver inviato una recensione.

Grazie per aver inviato una recensione su Amazon. Dopo aver analizzato attentamente l’invio, abbiamo stabilito che la tua recensione non può essere pubblicata sul sito Web. Ti ringraziamo per il tempo dedicato e i commenti inviati. Le recensioni devono aderire alle seguenti linee guida:
http://www.amazon.it/review-guidelines

Notate che è la prima volta che mi capita una cosa del genere. Dopo che al primo colpo non riuscivo a raggiungere quella pagina, ci sono finalmente arrivato e ho potuto leggere queste linee guida. Vediamo i vari punti:

  • Idoneità: devo avere fatto acquisti per almeno 50 euro negli ultimi 12 mesi. Ci sto, anche se non di molto perché spesso uso il Prime di Anna.
  • Utilità e rilevanza: tralasciando l’utilità e rilevanza di commenti come “arrivato nei tempi” (mai mettersi a fare confronti con gli altri), sono convinto che il mio commento era rilevante (sui contenuti del libro) e spero possa essere utile.
  • Contenuti promozionali: non ho promosso nulla. Non ho neppure scritto “leggetevi piuttosto X”, anche perché non avrei saputo che consigliarvi.
  • Contenuto sessuale: really?
  • Violazione di proprietà intellettuale: il testo l’ho scritto io.
  • Attività illegali: non mi pare di avere postato “minacce o incitamento alla violenza, fisica o di altra natura” nei confronti di Baricco, anche perché non cap8isco perché dovrei farlo.

Resta insomma un’unica possibilità: Rispetto degli altri. Nei dettagli, io non ho violato la privacy di nessuno, non ho mentito sulla mia identità, non ho cercato di togliere visibilità all’opinione altrui, non ho offeso altri utenti né ho messo in discusione le opinioni e le esperienze altrui. Insomma, resta solo questo punto:

Non pubblicare contenuti calunniosi, diffamatori, molesti, minacciosi, istigatori, pornografici, osceni o volgari. Per esempio, non utilizzare oscenità o volgarità, espressioni che suggeriscono odio o intolleranza nei confronti di altri sulla base della razza, etnia, nazionalità, sesso o identità sessuale, religione, orientamento sessuale, età o invalidità, inclusa la promozione di organizzazioni che supportano discriminazioni di questo tipo.

(gli esempi lì riportati sono solo esempi, quindi non perdo tempo a dire che non c’entrano con quello che ho scritto). In definitiva la mia recensione ha contenuti “calunniosi, diffamatori, molesti” e quindi non mi è permesso di inserirla (o di inserirne una diversa). Come potete intuire, non mi suiciderò per la ferale notizia, né smetterò di inserire recensioni, a meno che Amazon Reviews non cominci a cassarmele in massa: tanto le mie recensioni di libri non portano vantaggio a Besos, ma eventualmente agli utenti. Però credo che sia utile che almeno i miei ventun lettori sappiano che per Amazon Reviews io ho calunniato/diffamato/molestato Baricco.

Ultimo aggiornamento: 2019-10-17 21:27

Google e la direttiva copyright: chi l’avrebbe mai detto?

Immaginate una felice città in cui si trovano varie panetterie e un grande supermercato che tra gli scaffali vende anche il pane di queste panetterie. A un certo punto i panettieri si accorgono che nessuno viene più in negozio da loro, perché è più comodo fare un unico giro al supermercato, e quindi si accordano per stabilire che il supermercato deve pagare loro il pane più di quanto loro lo facciano pagare ai loro clienti. Il direttore del supermercato ascolta le lamentele dei negozianti e risponde “Capisco. Vorrà dire che da domani venderò solo pane confezionato industriale”, al che i panettieri gridano allo scandalo perché il supermercato vuole intimidirli.

Ecco a grandi linee cosa sta succedendo in Francia. Ve la ricordate tutta la storia sulla direttiva europea riguardo al copyright, e per la precisione sull’articolo 15 (ex 11) che introduceva un nuovo diritto d’autore su chi raccoglie e ripubblica gli estratti (“snippets”) delle notizie presentate dai giornali. Di per sé i vari stati membri dell’Unione Europea hanno due anni di tempo per implementare nelle leggi nazionali la direttiva, ma i francesi evidentemente avevano fretta – d’altra parte uno degli europarlamentari più attivi a favore della direttiva è stato Jean-Marie Cavada – e quindi a luglio hanno già emanato la legge al riguardo, che copia pedissequamente il testo della direttiva e quindi non richiederà procedure di infrazione. Google ha preso atto della cosa e ha deciso di rispettare la legge alla lettera: se una testata giornalistica vuole esercitare i propri diritti, basta che lo indichi nel file robots.txt del proprio sito, o nei singoli file o addirittura in porzioni specifiche del testo, e loro si limiteranno a riportare il titolo della notizia senza estratti.

Risultato? Diciamo che gli editori non l’hanno presa troppo bene. Qui potete leggere le prime righe del commento di Carlo Perrone (GEDI, ex Secolo XIX); qui potete vedere di come un’agenzia (che il mio amico Federico mi dice essere vicina all’UE) grida al latrocinio da parte di Google che vuole bypassare i diritti dei media. Beh, su: non è proprio così. Capisco che tutta la narrazione che i giornali hanno propinato in quest’anno abbondante si basa sul fatto che Google News ruba loro i proventi senza fare alcun lavoro se non raccogliere automaticamente i loro testi. Potremmo discutere all’infinito se sia vero o falso: non solo l’abbiamo già fatto fino allo sfinimento, ma soprattutto non è un mio problema, non essendo io né Google né un media. Però non possiamo pensare che Google sia obbligato a fornire un suo servizio (quello degli snippet) solo perché gli editori vogliono essere pagati: a Mountain View avranno fatto i loro conti e avranno deciso di forzare la mano. Perché sì, in un certo senso è vero che c’è un ricatto: come avrete notato, Google non ha scelto di bloccare a priori gli estratti, ma costringe le singole testate ad autobloccarsi, immagino per far partire una guerra tra poveri. Epperò resta il punto di partenza: se gli editori sono davvero convinti che le rassegne stampa automatiche toglievano loro ricavi, a questo punto avranno comunque dei soldi in più anche se non arrivano da Google, no? (Come, “no”? Volete forse dire che non ho capito nulla della loro posizione?)

Non mi stancherò mai di ripeterlo: c’è indubbiamente un problema di raccolta pubblicitaria legata alla fruizione delle notizie, ma la soluzione non può essere peggio del problema. È probabile che molta gente si accontenti dei titoli o poco più – gli snippet, insomma – e quindi non vada a leggere le notizie sui siti dei singoli giornali, nonostante i tentativi di clickbaiting di molte testate. Ora, se le notizie di base sono comunque le stesse tra i vari giornali mettere una tassa da far pagare alle terze parti è controproducente: o questi trovano qualcuno che comunque accetta di lasciarle libere, oppure chiudono baracca e burattini e la gente di cui sopra andrà avanti lo stesso senza finire sui siti delle singole testate. Un accordo diretto su modi migliori per mandare i lettori dai motori di ricerca ai siti dei giornali sarebbe stato più furbo: non so se le due parti l’abbiano mai davvero perseguito, ma sicuramente un obbligo ope legis porta alla prevaricazione da chi comunque ha il coltello dalla parte del manico. La chiusura di servizi come Google News può sembrare a prima vista un lose/lose, ma guardando i numeri chi ci perde davvero è solo una delle due parti, per quanto l’altra poi possa piangere. Mi aspetto sempre una confutazione che non sia a base di slogan, ma non trattengo certo il fiato.

Cosa cambia tutto questo per Wikipedia? Al momento nulla. Noi infatti non usiamo estratti degli articoli, perché li riformuliamo sempre; il nostro problema con l’articolo 15 è legato al titolo delle notizie, che per noi è un dato bibliografico ma di per sé risulta tutelato. Il fatto che Google non lo ritenga tale non significa molto, se non per vedere il risultato di un’eventuale contesa legale: ma noi dobbiamo restare sul sicuro e ci atterremo a un’interpretazione il più ampia possibile dei limiti. Per il momento, quindi, aspettatevi che quando la direttiva sarà legge anche in Italia troverete con ogni probabilità un dato in meno sulle fonti (ma il link resterà, non preoccupatevi: non dobbiamo certo fare ripicche.)

CasaPound e Forza Nuova oscurate

Ho dei dubbi sulla decisione di Facebok di cancellare i profili di CasaPound, Forza Nuova e dei rappresentanti di questi movimenti. No, il problema non è se Facebook abbia o no il diritto di farlo (presumo di sì). Non è nemmeno un problema di libertà di espressione, che come ogni diritto non è assoluto e ha dei paletti ben precisi, checché ne dica Di Stefano (ma è abitudine di certa destra invocare le leggi solo quando fanno comodo a loro).

Il problema per me è un altro. Facebook si è accorta solo ieri che tutti quei profili incitavano all’odio? Ho dei forti dubbi al riguardo. Aveva avvisato tutti quei profili del loro comportamento, cancellando inizialmente vari post prima di passare all’opzione nucleare? Scommetto di no. Bene. Se ci fosse stato uno stillicidio di cancellazioni e blocchi sarei stato felice di vedere che finalmente Zuckerberg metteva in pratica quello che predicava: così invece ha solo dato aria al chiagn’e’fott. Non mi pare proprio un grande risultato.

Ultimo aggiornamento: 2019-09-10 10:07

che è successo a OpenClipArt?

Come è notorio, io non so disegnare. Il piccolo guaio è che tutti i miei quizzini, e ormai ce ne sono centinaia, hanno sempre una figura per design. In certi casi posso cavarmela con testi oppure figure geometriche: per tutto il resto ho sempre biecamente sfruttato OpenClipArt, un’enorme raccolta di immagini in formato vettoriale e libere (nel senso di avere licenza CC0, le si può usare per tutto senza nessun obbligo). Confesso che in qualche caso in cui sono stato costretto a produrre un’immagine perché non c’era nulla che mi andasse bene l’ho subito postata anche là perché magari sarebbe potuta servire a qualcuno.

Bene, anzi male. Da alcuni mesi il sito non è raggiungibile. Quello che è peggio, come raccontato qui, non si riesce nemmeno a capire cosa sia esattamente successo; ufficialmente c’è stato un attacco DDoS, ma a quest’ora si sarebbe dovuto riuscire a rimettere su il sito. O vviamente nessuno ha un backup del sito (OpenBSD ne ha uno, ma del 2010!). Esistono altri siti, come Public Domain Vectors, che hanno una libreria abbastanza ampia di immagini, ma comunque non tante quante OpenClipArt. Chissà se riusciremo mai a riaverlo…

Ultimo aggiornamento: 2019-07-11 09:31

Larry Sanger e lo sciopero dai social media

Probabilmente avete letto della proposta di “sciopero dai social network” lanciata da Larry Sanger: sciopero che naturalmente non c’entra nulla con Wikipedia come riesce a scrivere Repubblica. Sanger si definisce “co-fondatore di Wikipedia”. Di per sé la sua autoattribuzione è questionabile, nel senso che probabilmente l’idea di un sito wiki per scrivere definizioni enciclopediche è stata in effetti sua, ma la sua idea non aveva nulla a che fare con i concetti alla base di Wikipedia, cioè qualcosa che si crea senza un controllo da parte degli esperti. Ma tanto nemmeno lo sciopero ha a che fare con Wikipedia, se non in un senso molto collaterale.

Sanger infatti propone il suo sciopero con uno scopo ben preciso, esplicato nella sua Dichiarazione di indipendenza digitale: chiedere una decentralizzazione dei social media, in modo che ciascuno di noi sia in grado di gestire i propri diritti sui propri dati e sulla privacy personale, e che i grandi e piccoli social network siano interoperabili: vale a dire che sia facile scrivere del software che permetta ad essi di “parlare tra di loro” e quindi inviare i contenuti che noi utenti procediamo dall’uno all’altro social senza doverli copiare e quindi dispedere eventuali commenti.

Dal punto di vista degli utenti una soluzione del genere sarebbe ottima: a parte il controllo sui propri dati, sarebbe possibile creare un nuovo social con caratteristiche tecniche migliori senza farlo partire da zero come contenuti, e quindi dandogli una chance di riuscire a entrare nell’arena senza essere schiacciato in partenza. Per dire, nemmeno Google ci è riuscita con la buonanima di Google+… Ma proprio per questa ragione Facebook fa di tutto per rinchiudere i suoi utenti nel suo orticello – occhei, “fazenda” o “latifondo” forse sono termini più corretti – impedendo in ogni modo la condivisione. Tanto per dire, l’anno scorso Facebook ha cambiato le sue API (le specifiche per connettersi da parte di un programma) per impedire di postare automaticamente i tweet e non solo quelli. Chi glielo fa fare a Zuckerberg di tagliare il bel ramo frondoso su cui ormai è piazzato?

Insomma, la proposta di Sanger è bella ma velleitaria. Certo, qualcuno potrebbe ribattere che anche Wikipedia era qualcosa di velleitario che pure è riuscita ad avere un successo planetario: ma c’è una differenza di base. Wikipedia è potuta nascere e crescere perché un piccolo numero di persone ci si è dedicato con tanta passione e cura; ancora adesso i contributori sono una minima parte degli utenti del sito. Uno sciopero dei social media funzionerebbe solo se ci fosse davvero una maggioranza di utenti che non producono contenuti: ma se pensate anche solo ai vostri conoscenti vi accorgerete subito che alla stragrande maggioranza di loro tutti questi ragionamenti non importano un fico secco; tutto quello che vogliono è postare foto di gattyni oppure litigare furiosamente di calcio politica e quant’altro, cosa per cui Facebook funziona più che bene. D’altra parte qualcuno di voi si ricorda ancora di Google Wave, un sistema “federato” di collaborazione remota sotto forma di social network? E pensate che – a parte i miei ventun lettori – qualcuno abbia mai sentito parlare di Diaspora, che pure è vivo o almeno vegeto? (No, Diaspora non lo uso neppure io, tanto per dire :-) )

Ultimo aggiornamento: 2019-07-03 07:06