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La megaintegrazione di Facebook

Non sono poi così certo che la presunta possibile megaintegrazione tra Facebook, Messenger e Instagram sia poi così un male… Provo a dirlo meglio, ho capito. Adesso, anche se formalmente sono separati, nessuno crede che dietro le quinte le tre app non si scambino tra loro informazioni. Insomma il male c’è già, non è che rendendolo visibile a tutti aumenti. Piuttosto, se l’Unione Europea avesse un po’ di coraggio imporrebbe l’interoperabilità completa tra le applicazioni, in modo che non si sia obbligati a usare Facebook o Whatsapp “perché sennò non si può comunicare con chi sta solo là”. Secondo voi, quali sono le probabilità che ci si riesca?

Ultimo aggiornamento: 2020-07-08 15:14

Rimodulati i compensi per copia privata

Nel solito silenzio dei media, a quanto pare venerdì sera è stata approvata la rimodulazione dei compensi per copia privata; il testo ufficiale è il D.M. 298 30/06/2020, che però al momento non risulta ancora visibile. Come? Non sapete cosa sia la copia privata? Eppure è facile.

Tutto nasce dalla legge 633/41 sul diritto d’autore, ovviamente. Beh, la cosa non nasce nel 1941, in realtà: quello che conta è l’articolo 71-septies, che è stato aggiunto nel 2003. L’articolo 71-sexies, sempre nato nel 2003, prevede infatti che «È consentita la riproduzione privata di fonogrammi e videogrammi su qualsiasi supporto, effettuata da una persona fisica per uso esclusivamente personale, purche’ senza scopo di lucro e senza fini direttamente o indirettamente commerciali, nel rispetto delle misure tecnologiche di cui all’articolo 102-quater.» Insomma, possiamo farci un backup personale. Però SIAE e amici hanno pianto, e così nacque anche l’articolo 71-septies che afferma che «Gli autori ed i produttori di fonogrammi, nonche’ i produttori originari di opere audiovisive, gli artisti interpreti ed esecutori ed i produttori di videogrammi, e i loro aventi causa, hanno diritto ad un compenso per la riproduzione privata di fonogrammi e di videogrammi di cui all’articolo 71-sexies.» Tradotto in altri termini, è come se qualcuno dicesse “sappiamo che voi vi piratate dischi e film, quindi vi mettiamo una tassa sui supporti e ci facciamo dare i soldi direttamente dai produttori”.

All’atto pratico, io metto una schedina di memoria nella mia macchina fotografica digitale e devo pagare dei soldi che vanno a chi detiene il copyright sulle immagini che salvo. Come? Il copyright è mio? Quisquilie. Ma se io rendo il vecchio supporto e quindi non lo uso più mi ridanno quei soldi? Certo che no, perché mai si dovrebbe? Tutto questo vale anche per gli hard disk, ovviamente. Ora erano sei anni che l'”equo” compenso (lo chiamano così, che ci posso fare io?) non era stato toccato. In questi sei anni, se non ve ne foste accorti, si tende a salvare sempre meno roba: è molto più semplice vedere o ascoltare in streaming quando si ha voglia, e lo streaming non è considerato (vedi il comma 3 dell’articolo 71-sexies). Quindi i ricavi sui supporti come i CD-ROM erano calati. A questo punto arriva la rimodulazione: si abbassa il pizzo sui supporti che non si usano più e lo si alza su quelli più moderni, in modo da continuare a elargire 120-130 milioni di euro alla SIAE. SIAE che dovrebbe fare l’intermediaria e ridistribuire quei soldi agli aventi diritto: ma secondo l’articolo di DDay citato all’inizio pare che l’operazione sia molto complicata e quindi restino in bilancio quasi 200 milioni di “debiti verso terzi”.

Risultato finale? Non sentitevi troppo in colpa quando piratate un disco o un film famoso, tanto a loro i soldi arrivano lo stesso. Ma ricordate che farlo con chi non è famoso non gli farà arrivare nulla.

Aggiornamento: (h15) a quanto pare il balzello (nemmeno piccolo, 4 euro su un prodotto che ne costa da 20 a 25…) c’è anche per l’uscita USB del decoder. Pensateci un attimo: cosa si può attaccare all’uscita USB? Un dispositivo per cui si paga già l’equo compenso. Quindi lo si pagherà due volte… oppure verrà disabilitata dai produttori l’uscita. Complimenti.

Ultimo aggiornamento: 2020-07-02 15:12

DNS e oscuramento for dummies

Una cosa che ho visto essere poco chiara nel caso Project Gutenberg – occhei, ce ne sono tante, ma questa mi ha stupito di più – è che in molti non capiscono come sia possibile che qualcuno arrivi tranquillamente al sito, mentre altri non ci riescono. Visto che questa differenza è facilmente spiegabile dal punto di vista tecnico, ho pensato che potrebbe essere utile dare una spiegazione sotto forma di metafora. Detto in altri termini: la maggior parte dei miei ventun lettori non ha alcun bisogno di leggere questo post, perché sa già come le cose funzionano davvero. Chi passa però per caso di qua potrà forse scoprire come funziona il DNS, e capire cos’è l’oscuramento del DNS.

Partiamo dall’inizio. Il DNS è una specie di enorme elenco telefonico di Internet. I siti in rete non si presentano infatti con il nome che digitiamo o clicchiamo in un collegamento, ma con un numero; se quindi vogliono connettersi a un sito, per esempio http://www.gutenberg.org/, devono consultare il DNS per sapere qual è il suo indirizzo IP (il “numero di telefono”), 152.19.134.47. Questo elenco telefonico è naturalmente particolare: fino a metà degli anni ’80 del secolo scorso in effetti esisteva una copia ufficiale che veniva aggiornata ogni settimana, ma poi il numero di siti cominciò a crescere così tanto che si ideò una specie di elenco telefonico distribuito – il DNS, appunto. Quindi se voglio sapere qual è l’indirizzo IP di www.gutenberg.org lo guardo nel mio elenco telefonico, che si chiama “risolutore DNS”.

Fin qua, spero che sia tutto chiaro. Ora, se un giudice impone di oscurare il sito www.gutenberg.org cosa fa? Dice ai provider di strappare la pagina relativa a quel sito, o più precisamente di cancellare quell’indirizzo e metterne uno fasullo (127.0.0.1, che corrisponde al vostro computer qualunque esso sia). Se però voi invece che usare l’elenco telefonico del vostro provider andate al bar – fuor di metafora, scegliete un altro risolutore DNS pubblico, come 8.8.8.8 e 8.8.4.4 di Google e 1.1.1.1 e 1.0.0.1 di CloudFlare – l’indirizzo lo trovate tranquillamente e quindi potete accedere al sito oscurato. La cosa è legale? Non sono un avvocato, ma non mi pare ci sia una legge che ti obblighi a usare uno specifico risolutore DNS. Poi naturalmente se accedi a un sito oscurato e scarichi un file protetto da diritto d’autore commetti un reato o almeno un illecito, ma questa è una storia diversa.

Ah. È anche possibile bloccare del tutto un sito, ma ci sono due problemi. Il primo è che per farlo bisogna metaforicamente tagliare i fili del telefono, vale a dire eliminare la rotta fisica verso quel sito; il secondo è che, per come è fatta internet, da ormai più di un quarto di secolo a uno stesso numero corrispondono svariati siti: più che di un numero di telefono avrei dovuto parlare di un numero civico, insomma. Quindi bloccare un sito potrebbe avere effetti collaterali pesanti: ecco perché in Italia si è scelta una misura non molto efficace ma facile da implementare.

Chiudiamo i social?

Non mi sono fidato di Repubblica, e sono direttamente andato a controllare su Fox News. In effetti pare proprio che Trump abbia affermato che il governo federale potrà “regolamentare strettamente” o “chiudere” i social network se continueranno a “silenziare le voci dei conservatori”. Ok, forse più che silenziare tout court si riferisce al fatto che Twitter ha segnalato che un suo tweet non era precisamente corretto – ne ho parlato umoristicamente con una vignetta. Però la cosa non cambia molto.

Penso tutti siano d’accordo che in questi anni la lotta politica si è sempre più spostata sull’online. I media tradizionali sono costretti a inseguire, e non parliamo dei comizi che servono più che altro a contare i like… pardon, le teste. Negli USA è opinione comune che la vittoria di Obama nel 2012 e quella di Trump nel 2016 nascono in rete; nel nostro orticello la Bestia avrebbe portato un grande guadagno di popolarità a Salvini, anche se non è chiaro perché adesso non starebbe più funzionando così bene. Quindi magari è tutta una frottola raccontata dai socialcosi stessi. Però mi pare comunque preoccupante quest’idea di chiudere qualcosa che non piace, e mi pare velleitaria l’idea di riuscire a regolamentare questi giganti… anche se sarebbe divertente vederlo e capire perché si sono sempre rifiutati di farlo.

O magari questo è tutto un cine per far parlare di sé e non di quello che dice… Trump come Mourinho?

Ultimo aggiornamento: 2020-05-27 16:02

Tempismo

Ieri sera alle 20:15 mi è arrivata una mail da “Il Fatto Social Club” (don’t ask… evidentemente una volta ho dato loro l’ok) che mi segnalava che ci sarebbe stata una diretta web sul libro “Per questo mi chiamo Giovanni” con l’autore Luigi Garlando. La diretta in questione sarebbe stata ieri… alle 18. Non avendo a disposizione una macchina del tempo, non essendo interessato alla cosa e dovendo comunque andare a cena ho lasciato da parte la cosa, per fare un controllo più accurato stamattina.

La mia idea era che la mail si fosse persa da qualche parte: diciamo che non è bello, ma può capitare. Poi sono andato a vedere le header del messaggio. È stato usato un servizio per mailing list (Zoho Campaigns, nulla di male) ma come vedete il messaggio è stato spedito alle 17:34 (per una diretta web che sarebbe cominciata alle 18, ricordo). Zoho Campaigns mi ha spedito dopo meno di tre ore, che immagino non sia poi così male: non ho idea del numero di email né di quale servizio hanno pagato, ma mi pare un tempo equo. La domanda insomma diventa: quella diretta è stata pensata mezz’ora prima della sua effettiva messa in onda, a qualcuno è venuto in mente che sarebbe stato bello pubblicizzarla solo mezz’ora prima della sua effettiva messa in onda, o semplicemente a molta gente non è chiaro come funzionino i sistemi informatici (e la vita in generale: anche ammettendo un arrivo immediato, e ammettendo allo stesso tempo che siamo ancora tutti a casa, non è che uno possa cambiare i suoi piani così senza preavviso?)

Ultimo aggiornamento: 2020-05-21 10:19

I guai degli influencer

Leggo su Le macchine volanti che secondo un articolo di Vice – immagino questo – gli influencer non se la passano affatto bene in questo periodo: il traffico aumenta, ma gli investimenti pubblicitari sono azzerati, e quindi non ricevono più soldi o beni.

Naturalmente cercando in giro si trovano anche opinioni opposte, come quella di Business Insider che sostiene che l'”economia degli influencer” non è stata affatto distrutta. Chi avrà ragione? Non lo so. Devo dire che non sono mai riuscito a capire la logica che porta all’esistenza degli influencer. Sarà che io non riuscirei a influenzare nessuno, ma non vedo perché dovrei essere convinto della bontà di una cosa solo perché qualcuno che non conosco ne decanta le virtù…

Ultimo aggiornamento: 2020-05-13 11:40

La battaglia tra i media francesi e Google continua ancora

Ieri l’antitrust francese ha emesso una sentenza contro Google, per la ormai lunghissima storia della “snippet tax”. Come avevo raccontato a settembre, il parlamento francese aveva approvato a spron battuto una legge che recepiva la direttiva europea sul copyright; al che Google aveva risposto “ok, abbiamo implementato alcuni tag specifici. Se volete che le vostre notizie appaiano in tutto o in parte – senza che noi vi paghiamo – usate quei tag; altrimenti lasceremo solo titolo e immagine”. Gli editori francesi si sono rivolti all’antitrust segnalando un abuso di posizione dominante (mossa astuta); e in effetti se leggete il riassunto della sentenza trovate che oltre all’obbligo di trattare entro tre mesi con gli editori il pagamento si scopre che tale pagamento sarà retroattivo, evidentemente perché si ritiene che l’abuso di posizione dominante ci sia stato.

Però c’è un però. Proprio perché si parla di abuso di posizione dominante, Google sarà obbligata a istituire un sistema di rimunerazione “secondo criteri trasparenti, oggettivi, e non discriminatori”. È vero che c’è anche scritto che “né indicizzazione, né classificazione, né posizionamento dei contenuti protetti dovranno essere influenzati da e durante i negoziati”; ma Google potrebbe tranquillamente decidere di non discriminare nessuno non mostrando più le notizie, e limitandosi a pagare per l’abuso del passato. Che farà? Scommetto che Google comincerà con il bloccare temporaneamente tutto durante i negoziati, “per assicurare la sua neutralità”, forse cercherà di cavarsela finanziando qualche fondo per la digitalizzazione dei media senza dare così soldi ai singoli editori, e se non si troverà un accordo smetterà del tutto di mostrare le news o al più lascerà per tutti solo il titolo. A questo punto non si può parlare di abuso di posizione dominante, nel senso che essendoci equità di trattamento gli utenti useranno altri aggregatori. Vedremo a luglio se ho ragione.

(La cosa interessante è che se io avessi ragione e Google bloccasse le news, a lamentarsi potrebbero essere i piccoli editori…)

Una delle tante cose che odio di Facebook

Il tagging di per sé è una cosa utile. Se per esempio c’è un thread (pubblico) e so che un mio amico potrebbe dare un contributo utile, scrivere @amico e fargli mandare un avviso da Facebook è più semplice che copiare il link del thread e scrivergli di andare a leggerlo. Ma come tutte le cose utili, possono essere abusate: così c’è gente che pensa che sia una cosa intelligente taggare una cinquantina di amici in modo che possano vedere il bellissimo e interessantissimo loro post e bypassare così l’algoritmo.

Io trovo la cosa poco gentile, e mi piacerebbe cancellare automaticamente i tag di queste persone. Bene: non è possibile. Forse posso evitare di seguirle: togliere l’amicizia mi pare esagerato, ma anche questo è un po’ troppo. Insomma, per Zuckerberg non esiste una via di mezzo. Dal suo punto di vista capisco che se non ci sono interazioni il suo marchingegno si ferma: pensate solo alle pubblicità “mirate per gli amici”. Ma forse dovrebbe pensare che le interazioni non volute sono nocive a tutto il resto…